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UNA GRANDE COALIZIONE SENZA BERLUSCONI, PER LE RIFORME PIU’ DIFFICILI E URGENTI?

OLTRE ALL’IPOTESI DEL GOVERNO DI TRANSIZIONE DI BREVE DURATA IMPEGNATO PRIORITARIAMENTE SULLA RIFORMA ELETTORALE, CON IL PDL ALL’OPPOSIZIONE, E A QUELLA DELLE ELEZIONI IMMEDIATE AFFRONTATE CON UN’ALLEANZA PD-TERZO POLO, VA CONSIDERATA ANCHE L’IPOTESI DI UNA “GRANDE COALIZIONE” SENZA BERLUSCONI: FORSE E’ L’UNICA VIA POSSIBILE PER FAR USCIRE L’ITALIA DA UNA CRISI GRAVISSIMA E PREPARARE IL TERRENO PER UN BIPOLARISMO MATURO

Editoriale per la Newsletter n. 125, del 1° novembre 2010 

   Mentre tra le file della maggioranza si incomincia a sussurrare di un possibile 25 luglio, nelle file dell’opposizione si fa più intenso il dibattito sul che fare nell’ipotesi sempre più probabile di una crisi di governo imminente. Se ne possono disegnare tre vie di uscita.
   La più popolare nelle file del centrosinistra, ma in realtà anche la più problematica, è quella di un Governo di transizione di breve durata, il cui scopo sarebbe essenzialmente quello di preparare le prossime elezioni senza Silvio Berlusconi come premier e con il PdL all’opposizione. Questo Governo sarebbe sorretto da una maggioranza di cui farebbe parte anche la nuova formazione di Gianfranco Fini. Tra i pochi punti essenziali del programma di questo Governo, una riforma elettorale. Sarebbe, comunque, un Governo debole, in primo luogo perché sorretto da una maggioranza eterogenea (davvero riusciranno ad andare d’accordo Casini e Di Pietro?) e diversa da quella uscita dalle ultime elezioni politiche. Ma soprattutto perché sarebbe sorretto da una maggioranza molto risicata. E se cadesse dopo pochi mesi, il centrosinistra dovrebbe affrontare le elezioni avendo disperso il vantaggio che gli è dato oggi da una crisi causata dal fallimento della maggioranza di centrodestra.
   Proprio quest’ultima considerazione sembra dunque consigliare anche al Pd una seconda via d’uscita: andare senz’altro alle urne con la legge attuale, puntando su di un’alleanza elettorale con il costituendo “terzo polo” (Casini-Rutelli, possibilmente con l’aggiunta di Fini e magari anche di Montezemolo). Con una questione irrisolta, però: della nuova coalizione è difficile pensare che possano fare parte, insieme a Casini e all’UdC, pure Vendola con Sinistra Ecologia e Libertà e Di Pietro con l’Italia dei Valori: il centrosinistra correrebbe il rischio grave di diventare, come l’“Unione” nella passata legislatura, una coalizione capace forse di vincere le elezioni ma non di governare, per le proprie divergenze interne. La coalizione Pd-Terzo polo dovrà dunque, per vincere, essere in grado a sinistra di reggere la concorrenza di IdV e SEL che correranno da sole, a destra di strappare a PdL e Lega almeno il 5 per cento dei voti totali, rispetto alla situazione fotografata dai sondaggi di questi giorni: solo in questo modo si potrebbe compensare la rinuncia al 10 per cento circa dei voti che presumibilmente saranno persi alla causa per la dispersione (ai fini del premio di maggioranza) dei voti di Idv e SEL. La catastrofe del centrodestra faciliterà questa impresa. Ma, vinte le elezioni, il centrosinistra avrà la forza politica necessaria per affrontare le questioni difficilissime che gli si porranno subito di fronte, con una opposizione di centrodestra furibonda e scatenata?
   Quest’ultima domanda introduce il discorso su di una terza possibilità, di cui ha parlato Mario Monti sul Corriere di ieri: quella di un governo di “grande coalizione” per le riforme indispensabili, che porti la legislatura al suo termine naturale. Presupposto di questa via d’uscita dalla crisi è il riconoscimento da parte di Pd e PdL di due verità scomode per entrambi: a) la gravità assolutamente eccezionale della crisi economica e morale che l’Italia sta attraversando; b) l’impossibilità sia per il centrodestra oggi, sia per un centrosinistra in ipotesi vincente alle prossime elezioni, di uscirne con le sole proprie forze. Più specificamente, ciascuno dei due schieramenti dovrebbe riconoscere di non poter fare fronte da solo all’imperativo europeo della rapida riduzione del debito pubblico; alle difficoltà enormi della riforma federalista dello Stato, osteggiata dall’UdC, ma giustamente considerata dal Pd come indispensabile al Paese; alla necessità di una drastica accelerazione del processo di bonifica e di rilancio dell’efficienza e produttività delle amministrazioni pubbliche, a partire da quella della giustizia e da quella scolastica; all’insieme delle misure urgenti indispensabili per aprire il Paese agli investimenti stranieri, in particolare sul terreno delle relazioni industriali e del mercato del lavoro.
   Fino a poco tempo fa, tra i politici che avrebbero apprezzato questa terza soluzione, era opinione diffusa che essa fosse resa politicamente impraticabile dalla presenza di Silvio Berlusconi a capo del PdL. Ora, però, gli sviluppi di questi ultimi giorni stanno rendendo più realistica la prospettiva di un PdL affrancato dal suo attuale sovrano assoluto. E allora, se è vero che la crisi eccezionale del Paese lo richiede, perché non incominciare a lavorare per questo, che sarebbe probabilmente il solo “governo di transizione” davvero capace di portare l’Italia fuori dal guado e, al tempo stesso, di preparare il terreno per il ritorno, nella prossima legislatura, a un bipolarismo meno rissoso e – last but not least – caratterizzato da un impegno comune ai due schieramenti su alcuni punti chiave per la vita della nazione?