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REGOLE PER UNA NUOVA DEMOCRAZIA SINDACALE

NON POSSIAMO CONTINUARE A CHIUDERCI ALLE INNOVAZIONI BUONE PER PAURA DI QUELLE CATTIVE: LA RIGIDA INDEROGABILITA’ DEL CONTRATTO NAZIONALE CONTRIBUISCE A FRENARE LA CRESCITA DEL PAESE, CHIUDENDOLO AI PIANI INDUSTRIALI PIU’ INNOVATIVI E QUINDI AGLI INVESTIMENTI STRANIERI

 

Intervista a cura di Anna Perego, pubblicata su L’alligatore [1], rivista degli studenti della Facoltà di Giurisprudenza della Statale di Milano – gennaio 2011

Pietro Ichino, giuslavorista di grande fama, avvocato e giornalista, collabora dagli anni Settanta con Cgil, Cisl e Uil (della Cgil è anche stato dirigente). Dal 1991 è professore ordinario nella nostra università, dove ha contribuito a fondare il Dipartimento di studi del lavoro e del Welfare. Dopo una prima esperienza in Parlamento all’interno del Pci, è stato tra i fondatori del Pd, nelle cui liste è stato eletto Senatore nel 2008.

L’inconcludenza del nostro sistema sindacale è spesso citata da Lei come una delle cause della chiusura dell’Italia agli investimenti stranieri: nato in un periodo in cui l’unità sindacale sembrava alle porte, oggi giorno non sarebbe in grado di gestire una realtà alquanto lontana da questa possibilità. Le sue proposte parlano di “regole di nuova democrazia sindacale”, che evitino che il dissenso tra i sindacati provochi la paralisi della contrattazione. Alla luce del suo auspicio di dare al contratto aziendale una posizione preminente sul contratto collettivo nazionale, in modo da intercettare le esigenze dei progetti industriali migliori, la necessità di una rappresentatività sindacale effettiva si fa sempre più pregnante.

Come dovrebbe essere regolata la materia della rappresentanza nei luoghi di lavoro?

Nel disegno di legge n. 1872 [2], che ho presentato con altri 54 senatori nel novembre 2009, propongo una norma che, superando il criterio sostanzialmente paritario sancito dall’attuale articolo 19 dello Statuto dei lavoratori [3], attribuisca il diritto ai rappresentanti sindacali aziendali e alle relative prerogative, in proporzione ai voti conseguiti, ai sindacati che, nelle apposite elezioni in azienda, superino una soglia minima.

[d.d.l. 1872/2009 – Art. 2064. – Rappresentanze sindacali aziendali.
(1) Organismi di rappresentanza possono essere costituiti da una o piu` associazioni sindacali nelle unita` produttive nelle quali siano occupati piu` di 15 lavoratori dipendenti e in seno alle quali ciascuna delle associazioni stesse annoveri almeno un lavoratore dipendente iscritto.

(2) Gli organismi di cui al primo comma, sia che assumano forma unitaria sia che assumano la  forma di rappresentanze separate, sono costituiti da rappresentanti sindacali distribuiti tra le associazioni sindacali interessate o loro coalizioni in proporzione ai consensi che esse conseguono in consultazioni elettorali che si svolgono, su iniziativa di uno o piu` dipendenti dell’unita` produttiva, con cadenza almeno triennale. Per il conseguimento di un rappresentante e` necessario, ancorche´ non sufficiente, che l’associazione o coalizione di associazioni abbia ottenuto almeno un ventesimo dei voti espressi. Salva diversa disposizione collettiva, il numero complessivo dei rappresentanti e` pari a tre nelle unita` produttive con numero di dipendenti fino a 300; nelle unita` produttive di maggiori dimensioni e` pari a uno ogni cento dipendenti.]

L’organismo da lei proposto è più assimilabile alle vecchie rappresentanze sindacali aziendali o alle “rappresentanze unitarie” previste dal “protocollo  Giugni” del luglio 1993?

Per quel che riguarda il rapporto organico con le associazioni sindacali territoriali, è più assimilabile alle r.s.a. originariamente previste dallo Statuto. Per quel che riguarda la proporzionalità del numero dei rappresentanti rispetto alla rappresentatività effettiva dei sindacati, è più assimilabile alle r.s.u. istituite dal “protocollo Giugni”.

In questo contesto, quale ruolo dovrebbero assumere i referendum aziendali?

Il referendum deve essere considerato come uno strumento a disposizione dei sindacati, rientrante nelle loro prerogative di “agibilità” in azienda. Il risultato del referendum ha, di regola, un rilievo limitato al rapporto tra il sindacato e i lavoratori. Il disegno di legge n. 1872 prevede tuttavia che l’approvazione referendaria possa assumere rilievo ai fini dell’efficacia del contratto collettivo aziendale nel caso in cui esso sia sottoscritto da una coalizione non maggioritaria.

Presentiamo di seguito il testo dell’ articolo del disegno di legge 1872/2009 che racchiude quella che ai suoi occhi dovrebbe essere la disciplina per la stipulazione di contratti collettivi con efficacia generale, fin’ora inesistente in Italia a causa della mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione:

Art. 2071. – Contratto collettivo con efficacia generale. […]
(3) – Il contratto collettivo stipulato dalla coalizione che abbia conseguito la maggioranza dei consensi nell’ultima consultazione in seno alla stessa azienda o unita` produttiva per la costituzione della rappresentanza sindacale di cui all’articolo 2068 e che comprenda almeno una associazione sindacale rappresentata in aziende dislocate in almeno tre regioni diverse e` efficace nei confronti di tutti i dipendenti di una azienda o unita` produttiva anche in deroga a contratti collettivi applicabili di livello superiore, o comunque a contratti stipulati da altre associazioni.
Può spiegarci meglio il significato di questa disposizione? 

Questa disposizione definisce i requisiti che un sindacato, o coalizione di sindacati, deve avere per poter esercitare in azienda l’autonomia collettiva piena, negoziando con effetti vincolanti per tutti i dipendenti. Al requisito del consenso maggioritario, qui, viene aggiunto il requisito di un radicamento in almeno tre altre regioni: questo al fine di evitare – soprattutto nel Mezzogiorno – possibili derive “aziendalistiche”, ovvero la promozione da parte degli imprenditori di sindacati aziendali di comodo.

Che cosa ci si deve attendere dall’uscita dei nuovi stabilimenti Fiat da Confindustria?

È il segno conclamato della crisi del vecchio sistema di relazioni industriali. O il sistema stesso è capace di reagire tempestivamente dandosi da solo le nuove regole, oppure deve farlo il legislatore in via sussidiaria e provvisoria. Altrimenti è prevedibile che il fenomeno si estenda e la crisi diventi più difficile da superare.

Che cosa intende dire quando afferma che il contratto collettivo deve svolgere una funzione di benchmark per la contrattazione collettiva?

Intendo dire che esso deve indicare uno standard di trattamento complessivo a cui i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, in ciascuna zona del Paese e in ciascuna azienda, possano fare riferimento per valutare se accettare o no gli scostamenti contenuti in un piano industriale innovativo,  per quel che riguarda la struttura e l’entità della retribuzione, l’organizzazione del lavoro, gli orari, il sistema di inquadramento e ogni altro aspetto. Anche per negoziare cose totalmente nuove è utile poter fare riferimento a una disciplina standard, in modo da poter confrontare la previsione circa gli effetti pratici della nuova regolamentazione con gli effetti prevedibilmente risultanti dall’applicazione della disciplina “di default” nazionale.

Come si può controllare ed evitare che la contrattazione aziendale libera, come lei la concepisce, si traduca di fatto in una forma di dumping sociale, di contrattazione al ribasso?

Questa è la funzione che deve svolgere un sindacato capace di essere davvero “intelligenza collettiva” dei lavoratori: devo rinviare, su questo punto, a quanto ho cercato di spiegare nel mio libro A che cosa serve il sindacato [4], del 2005. D’altra parte, non possiamo continuare a chiuderci alle innovazioni buone per paura di quelle cattive: questo è quanto abbiamo fatto fin qui, applicando la regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale; col risultato di contribuire fortemente al difetto di crescita del Paese, anche per difetto di aumento della produttività. Certo, in qualche caso la scommessa comune tra lavoratori e imprenditori in azienda verrà persa; ma saranno molti di più i casi in cui essa verrà vinta. E il risultato sarà comunque positivo per tutti: anche per quelli che la avranno persa, in termini di maggiori occasioni di lavoro e maggiori disponibilità per gli ammortizzatori sociali.

Clausola di tregua. I detrattori degli accordi di Pomigliano e Mirafiori sostengono che questa clausola non può essere intesa come vincolante per i singoli lavoratori, senza che ne risulti violato il loro diritto costituzionale di sciopero.

L’articolo 40 della Costituzione stabilisce soltanto che il diritto di sciopero si esercita secondo le leggi che lo regolano. Ora, la legge ordinaria è intervenuta soltanto per lo sciopero nei servizi pubblici, e al di fuori di questo settore non c’è alcuna legge che regoli la materia. Occorre dunque fare riferimento agli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali; e su questo terreno mi sembra si possa affermare che oggi prevale in dottrina l’orientamento secondo il quale la clausola di tregua appartiene non soltanto alla parte “obbligatoria” del contratto collettivo, ma anche alla sua parte “normativa”: essa dunque vincola anche i singoli lavoratori cui si estende l’efficacia vincolante del contratto collettivo. Certo, in mancanza di una legge che regoli la materia è sostenibile anche la tesi contraria; ma non vedo come si possa sostenere che la tesi dell’efficacia vincolante della clausola di tregua violi la legge, o – tanto meno – la Costituzione.

Su questo punto, però, gli accordi di Pomigliano e di Mirafiori non sono chiari.

È vero: la formulazione della “clausola di responsabilità”, in quei due accordi, su questo punto è ambigua. Chi la ha sottoscritta dice che, nella situazione di opacità dell’ordinamento su questo punto, si è inteso attribuire alla clausola l’efficacia massima possibile, lasciando al giudice stabilire quale questa sia.

Fino a dove è bene permettere la flessibilizzazione, assecondare le forze del mercato globale che comunque un Paese come l’Italia non potrebbe contrastare, e dove porre dei freni e proteggere le posizioni acquisite nel tempo dai nostro lavoratori?

La protezione maggiore, e di qualità migliore, che si può offrire a un lavoratore è costituita dalla possibilità di scegliere tra una pluralità di datori di lavoro possibili; quindi non soltanto di scegliere il tipo di lavoro che più corrisponde alle sue aspirazioni, ma anche di andarsene sbattendo la porta dall’azienda che lo tratta male. Il policy maker – sia esso il sindacato che contratta o il legislatore nazionale – si trova sempre di fronte a questo trade-off: fino a che punto i benefici della protezione inderogabile superano i benefici di una maggiore domanda? Nel mercato del lavoro monopsonistico, tipico della prima fase dell’industrializzazione, il policy-maker si trovava in una posizione facile, perché l’aumento dello standard inderogabile di trattamento, entro un certo limite, aveva addirittura l’effetto di aumentare la domanda di lavoro. In un mercato del lavoro concorrenziale il problema si pone in termini molto meno facili.

Più concretamente, come si pone la questione oggi in Italia?

Una cosa è certa: oggi l’Italia soffre dell’effetto negativo della globalizzazione, la concorrenza dell’offerta di manodopera dei Paesi emergenti, senza saper godere dell’effetto positivo: cioè la possibilità di attirare in casa propria il meglio dell’imprenditoria mondiale. E in questa sua incapacità giocano un ruolo importante sia la nostra legislazione del lavoro, sia il nostro vecchio sistema di relazioni industriali obsoleto, perché ancora centrato sulla rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale, e inconcludente, per difetto delle regole necessarie per dirimere i contrasti insanabili tra i sindacati maggiori.