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RICETTE PER TORNARE A CRESCERE

LE PROPOSTE DEL MOVIMENTO DEMOCRATICO SUL TERRENO DELL’ECONOMIA E DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI PER RIMETTERE IN MOTO L’ITALIA

Interviste a Pietro Ichino ed Enrico Morando, a cura di Antonino Leone, pubblicate on line nel n. 2 di Sistemi @ Impresa, febbraio 2011

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INTERVISTA A PIETRO ICHINO
Dopo il caso Fiat il paese s’accorge che il sistema delle relazioni sindacali è antiquato e contradditorio e la democrazia sindacale va ricostruita su nuove basi. Di tutto questo abbiamo discusso con Pietro Ichino nell’intervista che segue.

Dal confronto tra le organizzazioni sindacali nel caso della Fiat di Pomigliano e di Mirafiori sono emerse diverse problematiche e tra queste la mancanza di regole chiare circa il rapporto tra il contratto collettivo nazionale e il contratto aziendale e l’inefficacia della clausola di tregua. Le deroghe al contratto nazionale attraverso quello aziendale pongono le condizioni per valutare le caratteristiche specifiche di ciascuna situazione aziendale o di un territorio al fine di avviare le innovazioni necessarie che servono all’azienda e al Paese?
La metterei piuttosto così: la possibilità di derogare al contratto collettivo nazionale, mediante un contratto aziendale stipulato dalla coalizione sindacale che ne abbia i requisiti di rappresentatività, consente due generi di operazioni utili: A) quella di introdurre innovazioni nell’organizzazione del lavoro, nei tempi di lavoro, nella struttura delle retribuzioni, nel sistema di inquadramento professionale, o in altre materie ancora, che possono consentire di aumentare la produttività e quindi allargare i margini per il miglioramento del trattamento dei lavoratori; B) quella di adattare gli standard minimi di trattamento fissati dal contratto nazionale alle condizioni particolarmente svantaggiate di una determinata zona o regione.

Il contratto collettivo nazionale di un intero settore da applicare alle grandi industrie impegnate in produzioni e territori diversi possono rappresentare un ostacolo alle esigenze di sviluppo della singola unità produttiva che presenta caratteristiche peculiari?
Ho dedicato un libro, pubblicato sei anni fa (A che cosa serve il sindacato, Mondadori, 2005 [2]), a dimostrare il punto che le deroghe al contratto collettivo nazionale, motivate dalla situazione peculiare o dalle esigenze di un piano industriale particolarmente innovativo, possono sì portare effetti negativi, ma possono anche portarne di molto positivi, in termini di aumento della produttività e di miglioramento delle condizioni di lavoro. Non possiamo, per paura delle innovazioni negative, chiuderci anche alle innovazioni positive. Anche perché la maggior parte dei nostri contratti collettivi nazionali è stata scritta più di trent’anni or sono.

Altri problemi riguardano la democrazia sindacale e sono rappresentati dal diritto di veto che può essere esercitato dall’organizzazione sindacale minoritaria che non ha firmato il contratto e dalla sua esclusione dal diritto di rappresentanza nell’azienda. Ritiene che il problema possa essere risolto con un accordo tra le confederazioni sindacali nel breve periodo od occorre l’approvazione di una legge nel caso in cui le organizzazioni sindacali abbiano posizioni divergenti?
Non c’è dubbio che in questo campo il first best sia costituito da un accordo interconfederale nazionale sottoscritto da tutte le maggiori confederazioni sindacali e imprenditoriali. Ma mi sembra improbabile che a questo si arrivi in tempi brevi. Dunque occorre ripiegare sul second best: un intervento legislativo snello, che disciplini la materia in via provvisoria e sussidiaria, contenente la “clausola di cedevolezza”, cioè quella che prevede il prevalere comunque dell’eventuale disposizione contrattuale collettiva che intervenga in futuro a disciplinare la materia, rispetto alla norma legislativa.

Come superare la frattura che si è verificata nella Fiat e controllare l’attuazione della sfida di Marchionne, il quale ha promesso salari più alti ed azioni ai lavoratori?
Il sindacato serve proprio a questo: esso deve essere l’intelligenza collettiva che consente ai lavoratori innanzitutto di valutare il piano industriale proposto dall’imprenditore e, in caso di valutazione positiva, di stipulare la scommessa comune con l’imprenditore su quel piano. Ma che esercita anche il controllo sull’andamento della realizzazione del piano e, a scommessa vinta, controlla che i suoi frutti vengano distribuiti correttamente tra le parti.

Può essere utile l’ampliamento degli spazi di partecipazione dei lavoratori nell’impresa?
Sì. Sarebbe utilissimo che l’ordinamento ponesse a disposizione del sistema delle relazioni industriali un’ampia gamma di forme di partecipazione e controllo dei lavoratori nell’impresa, ciascuna attivabile mediante un contratto aziendale istitutivo: questo faciliterebbe molto la stipulazione della scommessa comune di cui abbiamo parlato prima. Questo è quanto è previsto nel testo unificato dei disegni di legge in materia di partecipazione [3], che ho redatto nella primavera del 2009 in qualità di relatore per la Commissione Lavoro del Senato su quei progetti. Quel disegno di legge aveva raccolto un larghissimo consenso bi-partisan in seno alla Commissione. Sennonché nell’autunno di quell’anno il ministro del lavoro Sacconi, anche su sollecitazione della Confindustria, ha posto il veto alla prosecuzione dell’iter parlamentare di quel progetto. E a tutt’oggi la situazione è ancora bloccata.

L’economista Fiorella Kostoris ritiene che per far aumentare l’occupazione occorre “uno scambio tra salario orario e salario complessivo, con il primo che scende mantenendo intatto il secondo, con la conseguenza di far aumentare il numero delle ore lavorate”. Esistono delle alternative alla proposta della Kostoris per abbassare il costo del lavoro per dipendente e unità prodotta che tenga conto che in Italia i salari sono bassi rispetto agli altri stati e la produttività tende a diminuire?
A mio modo di vedere, l’unico modo in cui possiamo far aumentare sensibilmente l’occupazione nel nostro Paese è aprirlo agli investimenti stranieri: ai quali esso oggi è drammaticamente chiuso. Per questo è indispensabile correggere i difetti delle nostre amministrazioni pubbliche, prima fra tutte quella della giustizia, migliorare le infrastrutture, ridurre i costi dei servizi alle imprese introducendo maggiore concorrenza nei rispettivi mercati. Ma è necessario anche semplificare la nostra legislazione del lavoro, rendendola traducibile in inglese; e riformare il nostro sistema delle relazioni industriali per renderlo meno vischioso e inconcludente di quanto sia oggi. Un passo indispensabile in questa direzione consiste in una riforma del diritto sindacale che aprirsi alle innovazioni di cui abbiamo parlato prima, nell’organizzazione del lavoro, nella struttura delle retribuzioni, o in qualsiasi altro aspetto del rapporto di lavoro.

Durante il periodo immediatamente precedente al referendum alla Fiat Mirafiori abbiamo assistito a posizioni politiche da parte di Sinistra e Libertà, Italia dei Valori (favorevoli al “no”) e del Capo del Governo non rispettose dell’autonomia sindacale (favorevole all’idea che la Fiat debba lasciare l’Italia se dovesse perdere il referendum). Il Partito Democratico, pur assumendo una posizione tiepida e favorevole al si, ha criticato alcuni punti dell’accordo: la clausola di responsabilità e la non rappresentanza della Fiom nella Fiat in quanto non ha sottoscritto l’accordo. Vi è il rischio di ritornare ad un nuovo collateralismo tra le organizzazioni sindacali ed i partiti?
Questo rischio effettivamente c’è. La politica dovrebbe rispettare maggiormente l’autonomia dei sindacati. Questi ultimi, dal canto loro, dovrebbero resistere più di quanto oggi non mostrino di saper fare alle lusinghe del rapporto privilegiato con questa o quella maggioranza di governo.

Qual è il bilancio che lei trae dell’iniziativa legislativa di questo Governo in materia di lavoro, a due terzi della legislatura?
Un bilancio negativo: sul piano legislativo, in materia di lavoro, il Governo ha fatto veramente poco. Il Collegato-lavoro, l’unica legge importante varata in questa materia, è un minestrone illeggibile [4], nel quale due delle tre norme veramente importanti – in tema di arbitrato e di applicazione giudiziale delle clausole generali – sono strutturate così male, che non produrranno alcun effetto. La terza, in materia di termine di decadenza per l’impugnazione dei contratti a termine, è già abrogata con il decreto Milleproroghe approvato dal Parlamento in questi giorni. Il resto sono tutte chiacchiere.

E sul piano delle “politiche” non legislative?
Su questo piano imputo al ministro Sacconi di avere lavorato soltanto per la spaccatura del fronte sindacale e l’isolamento della Cgil. E di non aver saputo promuovere l’accordo interconfederale di cui ci sarebbe bisogno per la riforma del sistema delle relazioni industriali: l’accordo del 2009 sulla struttura della contrattazione era così poco incisivo, che a poco più di un anno di distanza esso si è rivelato superato, a seguito della vicenda Fiat.

Ritiene importante la riforma degli ammortizzatori sociali e una sua integrazione con servizi efficaci di orientamento e riqualificazione professionale e ricollocazione dei lavoratori licenziati?
Non importante: essenziale.

Una politica attiva del lavoro ridurrebbe il finanziamento di interventi a sostegno del reddito in rapporto alla possibilità di realizzare la rioccupazione dei lavoratori licenziati?
Il disegno di legge n. 1873/2009 [5], di cui sono primo firmatario, prevede la riconduzione della Cassa integrazione alla sua funzione originaria, limitata al sostegno del reddito nei casi di sospensione con prospettive reali di ripresa del lavoro nella stessa azienda. Affida invece la funzione di garanzia della continuità del reddito nel caso di licenziamento a un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa che licenzia, in cambio della soppressione del controllo giudiziale sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In questo modo l’azienda stessa è incentivata ad attivare i migliori servizi di outplacement e di riqualificazione professionale mirata, per ridurre al minimo il periodo di disoccupazione del lavoratore licenziato.

In questo momento di grave incertezza istituzionale e di scarsa operatività del Governo per le vicende del premier quali progetti da lei presentati in materia di lavoro risultano fermi senza alcuna prospettiva di soluzione?
Sono fermi tutti. In particolare, oltre a quello che ho appena citato, il 1873/2009 [5], che con il 1872/2009 [6] delinea il nuovo Codice del lavoro semplificato, sono totalmente fermi anche il n. 1481/2009 [7] sulla sperimentazione di un modello di flexsecurity nelle aziende disponibili e quello sullo sciopero nei servizi pubblici.

 

INTERVISTA A ENRICO MORANDO
L’economia italiana cresce in modo lento e al di sotto delle necessità del paese, la disoccupazione giovanile e femminile è esplosa e i giovani che non lavorano e non seguono programmi formativi continuano a crescere. Di tutto questo ne abbiamo discusso con il senatore Enrico Morando nell’intervista che segue.

Perché l’economia italiana viene definita bloccata?
Semplicemente perché non cresce, da troppo tempo. Nei dieci anni che vanno dal 1999 al 2009, l’Italia è cresciuta ad una media dello 0,5% all’anno. Nessuno, tra i 34 Paesi OCSE, ha fatto peggio di noi. Nei periodi buoni, cresciamo meno degli altri partners dell’area Euro. Nei due anni della Grande Recessione, siamo caduti di più. Per tornare dove stavamo nel 2007, impiegheremo almeno il doppio del tempo impiegato dalla Germania. È vero che siamo un Paese ad esasperato dualismo: il Nord è come e meglio della Francia, il Sud è decisamente peggio del Portogallo. Ma non riusciamo ad imprimere al Sud un ritmo di crescita più rapido, come ha saputo fare la Germania con l’Est, dopo l’unificazione.
In nostri tre fondamentali problemi (inefficienza economica, disuguaglianza crescente e debito pubblico troppo elevato) si aggravano progressivamente, impedendo ai fattori dinamici di sprigionare le loro potenzialità. Dunque, c’è bisogno di una coerente strategia della politica (che non può tutto, ma può ancora molto) che li aggredisca contemporaneamente: 1) riduzione del volume globale del debito, in tre mosse: regola di evoluzione della spesa in rapporto al Prodotto, un avanzo strutturale dello 0,5 del PIL per molti anni a venire; valorizzazione/alienazione di quote significative dell’ingente patrimonio pubblico (proposta Guarino); contributo straordinario per soli tre anni ad aliquota moderata (0,5% al massimo) esclusivamente sulla quota (50%) di patrimonio privato posseduta dal 10% patrimonialmente più dotato della popolazione (quindi, il ceto medio non c’entra proprio nulla). 2) Riforme che non costano, dalle liberalizzazioni (es. separazione proprietaria delle rete del gas da ENI) al nuovo modello contrattuale, capace di premiare la produttività; 3) Riforme che costano, dagli ammortizzatori sociali di tipo universale all’alleggerimento della pressione fiscale sul lavoro, sull’impresa e sul reddito da lavoro delle donne, finanziate la prima con risparmi di spesa da ristrutturazione della Pubblica Amministrazione, la seconda con i proventi da lotta all’evasione fiscale.

Si afferma che l’Italia non sia un paese per i giovani e per le donne? Quanto di vero c’è in queste affermazioni?
La partecipazione delle donne alle forze di lavoro in Italia è la più bassa tra i grandi Paesi dell’UE. Questo significa che, specie al Sud, le donne giovani – in età di lavoro – sono così sfiduciate circa la possibilità di trovare un lavoro regolare che non lo cercano nemmeno più: o stanno a casa, o lavorano in nero. Risultato: gettiamo via la principale risorsa di cui il Paese dispone per reagire al lungo periodo di bassa crescita. E peggioriamo la qualità sociale e le stesse prospettive demografiche (altro che angelo del focolare: le donne che lavorano fanno più figli di quelle costrette alla disoccupazione). Tutto questo, mentre trovano sistematicamente conferma le valutazioni statistiche circa i migliori risultati delle ragazze rispetto ai coetanei maschi, sia a scuola, sia nel lavoro. Si può fare qualcosa, per reagire a questo stato di cose? Certamente sì, a partire dalle politiche di conciliazione (asili nido, anche privati, specie nel Sud; dote fiscale per i figli e persone non autosufficienti assistite in famiglia). Penso però che bisognerebbe andare oltre, aggredendo anche il lato “culturale” della questione. Per questo ho tradotto la splendida analisi di Alesina ed Andrea Ichino (L’Italia fatta in casa – Mondadori) in un disegno di legge per la riduzione del prelievo IRPEF sul reddito da lavoro delle donne. Quale che sia il tipo di lavoro: dipendente, autonomo, professionale, parasubordinato…. Mi rendo conto che è “roba forte”, difficile da digerire. Ma quando ci vuole, ci vuole….

Quali sono i fattori negativi che impediscono la crescita dell’economia italiana? Il senatore Pietro Ichino afferma che il sistema delle relazioni sindacali non attira gli investimenti delle grandi multinazionali. Lei condivide l’affermazione e perché?
Noi non attiriamo investimenti diretti esteri per molte ragioni, che hanno a che fare col cattivo funzionamento della Pubblica Amministrazione – la giustizia civile, in primo luogo – con regole contrattuali vecchie e inefficaci, con la persistente incapacità dello Stato di tenere ben saldo nelle sue mani il monopolio della violenza, specie nel Sud.
La recente vicenda FIAT – se ce ne fosse stato bisogno – costituisce un’ulteriore conferma di questo giudizio. Di fronte ad un Piano di investimenti e di ristrutturazione particolarmente impegnativo, il nostro sistema delle relazioni tra le parti ha mostrato tutti i suoi difetti, su due temi cruciali: la partecipazione dei lavoratori alla gestione della azienda, così da poter fare una scommessa di lungo periodo sul successo dell’azienda stessa; e le regole della rappresentanza. Su entrambi questi aspetti, abbiamo da tempo presentato – col senatore Pietro Ichino – precise proposte di soluzione, anche legislative. Non se ne è fatto niente, col risultato di giungere del tutto impreparati all’appuntamento di Pomigliano e Mirafiori. Speriamo almeno che la lezione sia servita.