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LA DIFESA MASOCHISTICA DELL’IMPRENDITORIA ITALIANA

PENSIAMO DI DIFENDERE POSTI DI LAVORO E INVECE LI PERDIAMO – E PERDIAMO ANCHE STIMOLI POSITIVI ALL’INNOVAZIONE, PERCHÉ GLI INVESTIMENTI STRANIERI SONO QUASI SEMPRE CONIUGATI CON PIANI INDUSTRIALI A FORTE CONTENUTO INNOVATIVO

Intervista a cura di Silvano Danesi per il Giornale di Brescia, 27 febbraio 2011

Nel suo intervento all’assemblea dei delegati della Fim al President Hotel di Roncadelle lei ha detto che l’Italia è chiusa agli investimenti esteri e ne ha spiegato i molti motivi, tra i quali, oltre ai soliti: burocrazia, amministrazioni pubbliche inefficienti, strutture arretrate, difetto di cultura delle regole, ci sono anche una “inconoscibilità del nostro diritto del lavoro” e relazioni industriali “vischiose e inconcludenti”. Il panorama è quello di un’Italia che, mentre celebra la sua unità, mostra i peggiori vizi del Novecento e ha le caratteristiche unite di un paese borbonico, corporativo fascista e sovietico stalinista. Ha inoltre detto che c’è una “cultura sbagliata dell’italianità” che ci porta a privilegiare imprenditori locali inefficienti nei confronti di chi potrebbe proporre ottimi piani industriali capaci di valorizzare meglio il lavoro degli italiani. Le chiedo. Non le sembra che questo sistema, al quale concorrono anche industriali e sindacati, sia improntato a un’autarchia e a un corporativismo degni di regimi di altre epoche?
Certamente c’è, più o meno consapevole, una ispirazione autarchica in questa nostra difesa dell’imprenditoria italiana contro l’insediamento produttivo nel nostro Paese di concorrenti stranieri. Quello di cui non ci rendiamo conto è che in questa difesa c’è del masochismo: pensiamo di difendere posti di lavoro e invece li perdiamo. E perdiamo anche stimoli positivi all’innovazione, perché gli investimenti stranieri sono quasi sempre coniugati con piani industriali a forte contenuto innovativo.

Per guardare al futuro lei propone agli operai di “ingaggiare i migliori imprenditori” da qualsiasi parte del mondo vengano e al sindacato di attrezzarsi a essere “intelligenza collettiva” dei lavoratori in questa operazione; ma non le sembra che il sindacato si sia statalizzato e abbia rinunciato da anni a una vera capacità contrattuale? Ne sono un esempio gli integrativi fotocopia, che ricalcano schemi elaborati negli anni Ottanta.
Effettivamente, c’è questo rischio di involuzione del nostro sindacato. Ma sarebbe sbagliato generalizzare. Nelle nostre confederazioni maggiori si vedono anche esempi di sindacalismo moderno, di sindacalisti che sanno leggere i dati economici relativi all’andamento e agli standard di un settore, sanno analizzare i bilanci aziendali, sanno quindi affrontare il negoziato conoscendo i vincoli esterni che l’azienda deve rispettare. Questi sono anche i sindacalisti che svolgono il loro ruolo di rappresentanti dei lavoratori in modo più incisivo.

Per stare, come si dice in gergo, “sul pezzo”, non è necessario rimettere in moto il “cervello”, ovvero dotare sindacati e organizzazioni imprenditoriali di uffici studi veri, capaci di leggere ciò che accade e di elaborare strategie sulla base dei dati e non delle ideologie?
Certamente sì: questa è la scelta fondamentale che i grandi sindacati devono fare.

Allora, non è il caso di dirottare parte dei fondi dello 0,30, destinati alla formazione e fermi in molti casi per mantenere strutture burocratiche, in questa direzione, ovvero in uffici studi e in formazione di uomini capaci di contrattare secondo i nuovi parametri che il mercato globale impone?
Questa può essere un’ottima idea.

Lei ha detto che a Pomigliano, da parte di alcuni, non si è percorsa la strada del confronto per verificare se i piani di investimento valessero le deroghe ai contratti collettivi nazionali richiesti. C’è chi ha preferito invocare l’incostituzionalità degli accordi. Chiedo: non le sembra che i contratti collettivi nazionali siano ormai un retaggio di vecchie logiche e che si debba arrivare a grandi contratti nazionali dell’industria, dei servizi, dell’agricoltura, per poi dare pieno spazio alla contrattazione aziendale e territoriale? In buona sostanza, anziché invocare le deroghe, non è meglio cambiare radicalmente il quadro di riferimento?
La mia idea è che il contratto collettivo nazionale conservi una sua funzione difficilmente sostituibile per quei due terzi del tessuto produttivo nei quali la contrattazione aziendale non riesce ad arrivare. La riforma di cui abbiamo bisogno riguarda il rapporto tra questo contratto e quello di livello aziendale: io propongo che la coalizione sindacale che rappresenta la maggioranza dei lavoratori interessati sia abilitata a negoziare al livello aziendale anche un contratto che deroghi al contratto nazionale. Il principio generale dovrebbe essere quello per cui prevale sempre, se stipulato dalla coalizione maggioritaria, il contratto più vicino al luogo di lavoro.

Democrazia sindacale. Non le sembra sia giunta l’ora di una verifica seria della reale rappresentanza sindacale, con una scadenza triennale del tesseramento e con una certificazione dello stesso?
Ne sono convinto da tempo: questo è quanto è previsto nel progetto di cui ho parlato poco fa. Il first best sarebbe un accordo interconfederale firmato da tutte le associazioni sindacali e imprenditoriali maggiori; ma se questo non arriva, dobbiamo pensare al second best, cioè a un intervento legislativo a carattere sussidiario e provvisorio. Il disegno di legge n. 1872/2009 [1], che ho presentato due anni fa con altri 54 senatori, prevede un meccanismo semplice di misurazione della rappresentatività dei sindacati a tutti i livelli, in modo che sia possibile attribuire a chi è in maggioranza il diritto di stipulare contratti effettivamente vincolanti per tutti; e al sindacato minoritario il diritto alla voce in azienda, cioè a una rappresentanza riconosciuta; ma non il diritto di veto di cui oggi di fatto dispone.

Infine. Se i sindacati si sono statalizzati, le varie e troppe associazioni imprenditoriali, un tempo strumenti del collateralismo, ora sono diventate strutture corporative. Nel complesso la cosiddetta società civile organizzata è un grande kombinat burocratico corporativo. Come è possibile che l’Italia si apra al mercato se rimane un Paese così kombinato? Perché stupirsi se Marchionnne delegittima Confindustria?
Infatti non c’è nulla di cui stupirsi. Non è mai bello citare se stessi; ma quello che sta accadendo oggi alla Fiat era previsto in modo molto preciso nel terzo capitolo del mio libro del 2005, A che cosa serve il sindacato [2]. Però osservo che i vertici di Confindustria hanno capito molto rapidamente la lezione e stanno aggiornando incisivamente i propri punti di riferimento culturali. Certo, come tutti gli apparati, anche quello confindustriale è troppo lento nel cambiare mentalità e schemi operativi.