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OBAMA, ISRAELE E I PALESTINESI

UN LETTORE CHIEDE CHE COSA PENSO DELL’INTERVENTO MILITARE DI ISRAELE A GAZA, “CRONOMETRICAMENTE CONCLUSO NEL GIORNO DELL’INSEDIAMENTO DI UN NUOVO PRESIDENTE AMERICANO, CHE RISPONDE ANCHE AL NOME DI HUSSEIN”. UNA RISPOSTA SUL PIANO DEL DIRITTO INTERNAZIONALE, UNA SUL PIANO PRAGMATICO, DELL’ETICA POLITICA

Lettera pervenuta il 20 gennaio 2008

Caro Senatore,
visto che un frequentatore di questo sito è riuscito a stanarla sul tema della giustizia [1], ora io provo a farlo su di un tema di politica estera: vorrei sapere che cosa ne pensa della guerra mossa da Israele contro Hamas a Gaza. E se il fatto che essa si sia cronometricamente conclusa nel giorno dell’insediamento di un nuovo Presidente degli U.S.A. che risponde anche al nome di Hussein possa far sperare in un periodo di riduzione della violenza in quella regione. Con stima
     Hassan Levi Forti

     Una prima risposta da giurista. Il lancio continuo di razzi di Hamas contro Israele legittima certamente, sul piano del diritto internazionale, una reazione militare. Si è detto che la reazione concretamente posta in essere da Israele – anche senza considerare gli episodi di violenza su civili imputabili a volontà criminale di singoli comandi o singoli militari, né l’ipotesi di uso di armi vietate – sarebbe sproporzionata rispetto al danno prodotto da quei razzi. Ora, sul piano del diritto internazionale la regola di proporzione nella legittima difesa non si applica nello stesso modo in cui essa si applica nel nostro diritto civile privato; ma se anche quella regola si applicasse nello stesso modo, sarebbe difficile sostenere che l’azione compiuta da Israele a Gaza sia, in sé, sproporzionata rispetto alla minaccia di distruzione totale della nazione: e proprio questa è  la minaccia di Hamas, appoggiato da nazioni come l’Iran, che con lo stesso scopo prioritario sta costruendo la bomba atomica. In altre parole: piaccia o non piaccia, il diritto internazionale permette a uno Stato di aggredire militarmente un’entità nemica che si stia adoperando concretamente per distruggerlo. Diverso è – sempre su di un piano esclusivamente giuridico – il discorso sulle stragi di civili palestinesi che avrebbero ragionevolmente potuto e quindi dovuto essere evitate; ma in una guerra di questo genere, in un luogo come la striscia di Gaza, di fronte a un nemico che si fa sistematicamente scudo dei civili, la distinzione giuridica di ciò che si può e si deve evitare da ciò che non si può è in alcuni casi evidente, in altri molto difficile, opinabile e complessa.
    
Questo solo per dire che, se la mettiamo sul piano del diritto internazionale, nel conflitto Israelo-Palestinese non caviamo un ragno dal buco.
     Il discorso è diverso se dal piano giuridico si passa a quello pragmatico, cioè a quello dell’etica politica. Su questo piano una prima domanda è:  
l’azione militare distruttiva di queste settimane (più in generale: il trattamento durissimo che Israele riserva ai suoi vicini in casa loro, portandoli all’esasperazione) ha davvero ridotto o allontanato il rischio mortale per la nazione? Ha davvero indebolito il partito mondiale di coloro che ne vogliono la distruzione, o non lo ha invece rafforzato? Non sono studioso né esperto della materia; ma condivido il pensiero dello scrittore israeliano David Grossman a questo proposito (ultimamente espresso in un bellissimo articolo pubblicato da la Repubblica proprio oggi, 20 gennaio): una strategia fondata soltanto su bombe e carri armati, incurante dell’odio che questi seminano, non potrà mai garantire a Israele una sicurezza duratura.
     Qui si pone però, sempre sul piano pragmatico, una seconda domanda; esiste una strategia di pace alternativa rispetto a quella dello scontro armato permanente?  Quanto più è possibile dare una risposta positiva a questa domanda, tanto più si può escludere la liceità etico-politica della strategia centrata sulla sola forza militare.
 Ed è proprio su questo terreno che forse in questi giorni si sta producendo un mutamento decisivo di contesto. Questo mutamento rende proponibile la strategia del dialogo e del compromesso assai più realisticamente che negli ultimi anni, segnati dalle politiche aggressive degli U.S.A.
     Da oggi, come il nostro lettore osserva, a capo della nazione più potente, della più grande alleata di Israele, c’è un Presidente coloured e figlio di un kenyota, che insieme a un nome di origine ebraica ne ha uno di origine musulmana; che ripudia le strategie muscolari del suo predecessore; un nuovo Presidente per il quale palpitano i deboli di tutto il mondo e che a sua volta palpita sinceramente per la loro sorte;  un nuovo leader globale che, soprattutto, crede profondamente nel metodo del dialogo tra le persone e tra i popoli. Barak Hussein Obama può impegnare tutto l’enorme patrimonio di fiducia che la parte più povera del mondo ripone in lui per rompere il circolo vizioso dell’odio, della paura e della violenza tra israeliani e palestinesi; e dice di volerlo fare. Nel suo discorso di insediamento oggi ha detto: “le precedenti generazioni … hanno capito che il nostro potere da solo non può proteggerci, né ci autorizza a fare come più ci aggrada. … La nostra sicurezza emana dalla giustezza della nostra causa, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e del ritegno”. E ha aggiunto poco dopo: “ poiché abbiamo assaggiato l’amaro sapore della guerra civile e della segregazione razziale e siamo emersi da quell’oscuro capitolo più forti e più uniti, noi non possiamo far altro che credere che i vecchi odi prima o poi passeranno, che le linee tribali  saranno presto dissolte, che se il mondo si è rimpicciolito, la nostra comune umanità dovrà riscoprire se stessa; e che l’America deve giocare il suo ruolo nel far entrare il mondo in una nuova era di pace. Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. … Alla gente delle nazioni povere, noi promettiamo di lavorare insieme per far fiorire le vostre campaghne e per pulire i vostri corsi d’acqua: per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quelle nazioni, come la nostra, che godono di una relativa ricchezza, noi diciamo che non si può più sopportarte l’indifferenza verso chi soffre fuori dai nostri confini“. Appare evidente il mutamento di contesto che sta determinandosi: nel teatro medio-orientale si presenta un nuovo protagonista che ha le carte in regola per proporre alle parti in conflitto di deporre le armi, offrendo loro garanzie credibili di sicurezza, l’una nei confronti dell’altra. Sul piano dell’etica politica una cosa mi pare certa: sprecare questa grande occasione, da parte di Israele, sarebbe imperdonabile (lo sarebbe anche da parte dei palestinesi, ovviamente, ma qui stiamo interrogandoci sul comportamento di Israele).
     Quali i termini di una pace possibile? Il giorno prima della “guerra dei 6 giorni” del 1967, Israele sarebbe stato felice di poter vivere in pace nei suoi confini di allora, molto vicini, quando non coincidenti, con quelli riconosciuti dall’ordinamento internazionale; erano i popoli circostanti a negargli quel diritto e a minacciargli la distruzione totale. Dopo quella guerra-lampo le posizioni riguardo ai territori si sono rovesciate: da quarant’anni è Israele a non accettare – soprattutto per motivi di sicurezza – un ritorno entro i confini del 1967, che potrebbe costituire la contropartita di un riconoscimento duraturo da parte di tutti i popoli circostanti, ma renderebbe Israele stesso più inerme di fronte al rischio di possibili attacchi futuri.
     Per quanto sia difficile, a quasi mezzo secolo di distanza da quella vittoria militare su di un nemico mortale, la strategia di pace probabilmente deve incentrarsi sul ripristino e l’accettazione reciproca di quei confini, che ridarebbero respiro ai palestinesi, attraverso la costruzione di elementi di sicurezza per Israele che compensino il suo sacrificio sul piano logistico-militare rispetto ai territori occupati oggi. Forse Barak Hussein Obama
è l’uomo che può ottenere dai Palestinesi e dai Paesi arabi circostanti, ma anche costruire con il concorso dell’Europa  e del resto del mondo, garanzie credibili di sicurezza tali da indurre Israele a rinunciare del tutto alle conquiste di quella guerra ormai lontana, che hanno portato infiniti lutti a entrambe le parti.                     (p.i.)