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PER DARE VALORE AL LAVORO

LE LINEE ESSENZIALI DI UN’INIZIATIVA INCISIVA, CAPACE DI SUPERARE IL DUALISMO DEL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO E AL TEMPO STESSO DI ADATTARE IL NOSTRO SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI ALLE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE

Contributo di un gruppo di parlamentari, studiosi e dirigenti del Pd all’Assemblea nazionale sul lavoro dello stesso partito – Genova, 17 e 18 giugno 2011

I DIFETTI DEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO
Il nostro mercato del lavoro fa registrare da molti anni performance peggiori rispetto alla maggior parte dei Paesi europei per
–          tasso di occupazione complessivo;
–          tasso di occupazione femminile, giovanile e degli anziani;
–          tasso di disoccupazione di lunga durata;
–          livelli retributivi a parità di contenuto della prestazione lavorativa;
–          tasso di lavoro irregolare e dualismo fra lavoratori protetti e poco o per nulla protetti.
Alcune di queste disfunzioni sono imputabili almeno in parte al difetto di crescita economica del Paese, che a sua volta è in larga parte dovuto alla sua scarsa attrattività per gli investimenti esteri. Questi ultimi costituiscono la risorsa finanziaria principale cui possiamo attingere nel breve e medio periodo per rimettere in moto la crescita economica del Paese, aumentando produttività e domanda di lavoro; e anche per questo aspetto la nostra performance è tra le peggiori d’Europa.
Le cause dell’iniquità e dell’inefficienza del nostro mercato del lavoro sono le stesse che determinano l’incapacità del nostro Paese di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali. Fra queste cause vanno annoverati il malfunzionamento delle amministrazioni pubbliche, i difetti delle grandi infrastrutture di trasporto e comunicazione, il costo troppo alto dei servizi alle imprese e dell’energia, il basso livello di civicness diffusa, ma anche un mercato del lavoro opaco, nel quale le imprese attingono gran parte della flessibilità necessaria al processo produttivo da pratiche di evasione o elusione degli standard posti dal diritto del lavoro largamente tollerate al punto da divenire normali. Il difetto del know how necessario per operare nell’area dell’illegalità o della semilegalità, di cui dispongono più facilmente gli imprenditori indigeni, costituisce un ostacolo rilevante all’insediamento nel nostro territorio di imprese straniere. Una ulteriore difficoltà è costituita dai gravi difetti di funzionalità del nostro sistema delle relazioni industriali.

I DIFETTI DEL SISTEMA ITALIANO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
Dagli inizi del nuovo secolo, da quando si è persa l’unità d’azione tra le confederazioni sindacali maggiori, il nostro sistema delle relazioni industriali è venuto manifestando in modo sempre più evidente un carattere di marcata vischiosità e inconcludenza. Nel regime di “diritto sindacale transitorio” in cui l’Italia si trova da ormai più di 60 anni, si sono affermate regole non scritte in materia di contrattazione collettiva che, nelle situazioni di dissenso insanabile tra i sindacati, generano paralisi. Questa paralisi si rivela perfettamente funzionale a un accordo protezionistico tacito, tendente a chiudere il nostro sistema economico ai piani industriali innovativi, in particolare a quelli cui sono collegati i potenziali investimenti provenienti dall’estero, che vede nell’ultimo quarto di secolo una vasta componente trasversale del movimento sindacale fare sponda alla parte più conservatrice dell’imprenditoria italiana; e, sul piano politico, la vecchia sinistra fare sponda alla parte più conservatrice della destra.

MISURE CON EFFETTO IMMEDIATO A COSTO ZERO
È possibile, innanzitutto, una drastica semplificazione della nostra disciplina di fonte nazionale dei rapporti di lavoro, il cui ammasso disorganico occupa oggi migliaia di pagine.
Il disegno di legge n. 1873/2009 [1], firmato da 55 senatori del Pd, mostra come il contenuto essenziale della nostra legislazione nazionale su questa materia possa essere espresso – senza alcuna perdita di contenuto, ma anzi con un guadagno di incisività – in un nuovo Codice del lavoro semplificato di poche decine di articoli chiari e semplici, scritti per essere facilmente traducibili in inglese, ma anche per essere distribuiti in milioni di copie a tutti i lavoratori, imprenditori e consulenti, in modo da rendere immediatamente conoscibile il diritto del lavoro da parte di tutti coloro cui esso è destinato (come avvenne nel 1970 con i 40 articoli dello Statuto dei Lavoratori). Questa è una precondizione essenziale per garantire l’universalità ed effettività della disciplina vigente.
Lo stesso d.d.l. n. 1873 [1] mostra altresì come un codice semplificato così concepito possa dettare una disciplina della stabilità del lavoro e del reddito capace di applicarsi a tutti i nuovi rapporti di lavoro, superando il dualismo attuale fra protetti e non protetti, e anche quello fra dipendenti delle imprese di dimensioni medio-grandi e dipendenti delle più piccole: tutti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di contratto a termine, quali le sostituzioni per malattia o i lavori stagionali), a tutti le protezioni essenziali (in particolare quella contro le discriminazioni), ma nessuno inamovibile. E a tutti, in caso di perdita del posto di lavoro, una forte garanzia di continuità del reddito e di investimento nella loro professionalità, in funzione della più rapida e migliore ricollocazione. È evidente la rottura drastica che una riforma di questo genere può segnare rispetto al regime attuale di vero e proprio apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per nulla protetti; e dunque il significato che la riforma stessa può assumere sul piano dell’equità sociale, della lotta alla disuguaglianza e della protezione dei più deboli, che oggi nel mercato del lavoro sono soprattutto i più giovani.

La riforma del diritto del lavoro – Oggi è possibile perseguire questo obiettivo senza aggravio per l’Erario statale, se si attiva il “gioco a somma positiva” della flexsecurity, che consiste nel coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato prima ancora che nel posto di lavoro. Più precisamente, nel vincolare parte delle risorse che le imprese risparmiano in conseguenza della maggiore fluidità e tempestività dell’aggiustamento industriale per la garanzia di continuità del reddito e di buona assistenza nel mercato per i lavoratori che si trovano a dover cambiare posto di lavoro.
Nello stesso tempo, una ridefinizione della nozione del rapporto di dipendenza economica, cui il nuovo diritto del lavoro deve applicarsi per le assunzioni che avverranno da qui in avanti, deve consentire l’accertamento immediato dei requisiti per l’applicazione stessa sulla base dei dati risultanti dai tabulati dell’Erario e dell’Inps, senza necessità dell’intervento in loco di ispettori, né di avvocati e giudici.
La riforma nel segno della flexsecurity qui prospettata non reca alcun pregiudizio ai lavoratori regolari stabili al momento della sua entrata in vigore, poiché non modifica il vecchio regime di stabilità che è ad essi applicabile. Essa giova invece:
‑ ai lavoratori destinati a entrare nel tessuto produttivo da quel momento in avanti, poiché le prospettive di sicurezza che essa offre loro (protezione contro le discriminazioni, continuità del reddito, copertura previdenziale e investimento sulla loro professionalità) in caso di licenziamento sono incomparabilmente migliori rispetto a quelle che si offrono loro nel contesto attuale;
‑ alle imprese, poiché il maggior costo che la riforma accolla loro con la disciplina dei licenziamenti di natura economica od organizzativa è ampiamente compensato dalla maggiore tempestività dell’aggiustamento industriale e prevedibilità del relativo costo.
L’estensione dell’applicazione del diritto del lavoro a tutta l’area del lavoro in posizione di dipendenza economica avrà automaticamente l’effetto di una universalizzazione degli ammortizzatori sociali, oggi riservati soltanto al rapporto di lavoro subordinato regolare: su questa base si agevola la prospettiva della costruzione di un sistema di “reddito di cittadinanza”.

È una riforma esplicitamente raccomandata al nostro Paese dalla Commissione Europea proprio in questi giorni: “Esiste un dualismo tra lavoratori con contratti a durata indeterminata e lavoratori con una protezione limitata, se non del tutto inesistente, dal rischio di disoccupazione”, per combattere il quale occorre “trovare un punto di equilibrio tra sicurezza e flessibilità”. La stessa Commissione critica il carattere discrezionale della copertura assicurata dalla Cassa integrazione guadagni, che ” ha contribuito a mantenere il potere d’acquisto delle famiglie durante la crisi”, ma “potrebbe ostacolare la mobilità occupazione e settoriale” (Raccomandazione della Commissione sul PNR e il PS dell’Italia, 7 giugno 2011).

Il Partito Democratico è nato anche e soprattutto per promuovere questa riforma, dando voce e rappresentanza politica a una generazione che nel nostro mercato del lavoro è oggi pesantemente penalizzata. La riunificazione del diritto e del mercato del lavoro costituisce parte essenziale di questa politica.

Sul versante del sistema delle relazioni industriali il problema è inverso rispetto al versante della disciplina dei rapporti individuali: qui è indispensabile superare una grave lacuna normativa che si trascina ormai da sessant’anni. Occorre dare attuazione al principio democrazia sindacale enunciato dall’articolo 39 della Costituzione, sia in materia di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, sia in materia di contrattazione collettiva, affinché il dissenso tra sindacati non determini paralisi della contrattazione stessa e non finisca coll’ostacolare l’afflusso di buoni investimenti esteri, del management di alta qualità e dei piani industriali innovativi che essi sovente portano con sé. In assenza di un grande accordo interconfederale firmato da tutte le principali associazioni sindacali e imprenditoriali, la soluzione può essere costituita da una legge che (come delineato nel progetto gemello di quello sopra citato, il d.d.l. n. 1872/2009 [2])
–          ripartisca i rappresentanti sindacali in azienda in proporzione ai consensi ricevuti da ciascuna organizzazione in una consultazione elettorale almeno triennale, salvaguardando il rapporto organico tra il rappresentante e l’associazione esterna;
–          attribuisca alla coalizione sindacale maggioritaria il potere di stipulare accordi e contratti collettivi con efficacia estesa a tutta la categoria interessata;
–          garantisca all’associazione minoritaria la libertà di non sottoscrivere accordi e contratti, senza per questo perdere il diritto ai propri rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro;
–          consenta al contratto collettivo aziendale stipulato dalla coalizione maggioritaria (con radicamento in almeno quattro regioni), o comunque approvato in un referendum dalla maggioranza dei lavoratori interessati, di sostituire in tutto o in parte la disciplina contenuta nel contratto nazionale.

MISURE EFFICACI A MEDIO TERMINE
Un programma di medio periodo deve, in primo luogo, puntare allo sviluppo di una rete di buoni servizi per i lavoratori e le imprese nel mercato del lavoro. In particolare:
–          è indispensabile incentivare e rafforzare l’impegno delle Regioni sul terreno del servizio di orientamento scolastico e professionale, che deve raggiungere capillarmente tutti i ragazzi al termine di ciascun ciclo scolastico, assicurando loro – sul modello dei migliori guidance o career services del nord-Europa – un bilancio ben fatto delle competenze e informazioni precise sulle opportunità che si offrono loro, sia sul versante scolastico e della formazione professionale, sia sul versante degli sbocchi occupazionali effettivamente possibili;
–          occorre inoltre incentivare e rafforzare l’impegno delle Regioni a sostegno della sicurezza professionale del lavoratore in caso di perdita del posto: la riforma di cui si è detto nel § 1 responsabilizza le imprese su questo terreno, ma le Regioni devono fare la loro parte spendendo bene i contributi del Fondo Sociale Europeo e le altre ingenti risorse di cui dispongono, a sostegno dei servizi di outplacement, di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e di assistenza intensiva per la mobilità geografica dei lavoratori interessati.
L’azione del Governo centrale e delle Regioni deve, in generale, essere orientata a facilitare il trasferimento dei lavoratori in condizioni di sicurezza economica e professionale dalle imprese marginali o sub-marginali a quelle più produttive e più forti nel mercato dei beni o dei servizi.
Le risorse necessarie per il miglioramento generale dei servizi al mercato del lavoro possono e devono essere reperite attraverso un drastico riorientamento della spesa, sia per le politiche passive (sostegno del reddito mediante intervento della Cassa integrazione, oggi troppo sovente utilizzata per mascherare situazioni di effettiva disoccupazione), sia per le politiche attive (servizi di formazione professionale, dove oggi si osservano sprechi enormi e cattiva o mancata utilizzazione dei contributi del Fondo Sociale Europeo).
La ristrutturazione dei servizi regionali di orientamento e di formazione professionale, invece, comporterà probabilmente la soppressione di numerosi posti stabili di “istruttore”: le “cattedrine” dalle quali da decenni viene impartito lo stesso addestramento di bassa qualità e senza alcuna stretta corrispondenza con l’evoluzione tecnologica del tessuto produttivo. Il meccanismo di responsabilizzazione e incentivazione economica delle imprese per la migliore ricollocazione del lavoratore licenziato porterà necessariamente a un forte spostamento della domanda di formazione verso servizi nuovi, in larga parte prodotti dal sistema stesso delle imprese. È verso questi che dovrà orientarsi la spesa delle risorse disponibili e in particolare dei contributi ùdel Fondo Sociale Europeo.

Pietro Ichino, senatore, professore di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Milano
Maurizio Ferrera
, professore di scienza politica nell’Università degli Studi di Milano 
Paolo Giaretta
, senatore
Enrico Morando
, senatore
Michele Salvati
, professore di economia politica nell’Università degli Studi di Milano
Ivan Scalfarotto [3]
già responsabile delle Risorse Umane di un Gruppo bancario, vice-presidente del Pd 

Al 17 giugno 2011 abbiamo ricevuto dichiarazioni di condivisione del contenuto di questo documento da parte di
Sergio Chiamparino, già sindaco di Torino, del quale leggi la lettera scritta con Walter Veltroni al [4]Corriere della Sera [4], del 19 giugno�
nonchè dai parlamentari:

Alfonso Andria, senatore
Enzo Bianco, senatore
Daniele Bosone, senatore
Vito Carofiglio, senatore
Stefano Ceccanti, senatore
Mauro Ceruti, senatore
Franca Chiaromonte, senatrice
Lucio D’Ubaldo, senatore
Anna Rita Fioroni, senatrice
Maurizio Fistarol, senatore
Giampaolo Fogliardi
, deputato
Marco Follini, senatore
Guido Galperti, senatore
Paolo Gentiloni, deputato
Maria Pia Garavaglia, senatrice
Manuela Granaiola, senatrice
Maria Leddi, senatrice
Alessandro Maran
, deputato
Andrea Marcucci, senatore
Ignazio Marino, senatore
Daniela Mazzuconi, senatrice
Claudio Micheloni, senatore
Magda Negri
, senatrice
Vinicio Peluffo, deputato
Flavio Pertoldi, senatore 
Giovanni Procacci, senatore
Nino Randazzo, senatore
Nicola Rossi, senatore
Simonetta Rubinato
, deputata
Antonio Rusconi, senatore
Gian Carlo Sangalli, senatore
Andrea Sarubbi, deputato, di cui segnaliamo l’interessante dichiarazione [5] del 18 giugno
Giorgio Tonini
, senatore
Salvatore Vassallo, deputato
Walter Veltronideputato,  di cui segnaliamo il comunicato stampa [6] del 17 giugno