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LA REPUBBLICA: DIALOGO A SINISTRA SUL NUOVO ACCORDO INTERCONFEDERALE

LE OBIEZIONI ISPIRATE ALL’ORIENTAMENTO DOTTRINALE E GIURISPRUDENZIALE TRADIZIONALE E LE RELATIVE RISPOSTE

Intervista a cura di Paolo Griseri, pubblicata da la Repubblica – Affari e finanza l’11 luglio 2011

Professor Ichino, quali conseguenze potrà avere il recente accordo tra sindacati e Confindustria?
L’accordo potrebbe avviare a conclusione la fase del cosiddetto ‘diritto sindacale transitorio’ apertasi nel 1944 quando vennero abolite le corporazioni. Per completare l’iter sarebbe necessario giungere alla modifica o alla piena applicazione degli ultimi tre commi dell’articolo 39 della Costituzione.

Perché, a suo parere, la Fiat non è ancora soddisfatta dell’accordo?
Innanzitutto perché non è retroattivo. Se lo fosse, buona parte dei problemi nati a Pomigliano e Mirafiori ne risulterebbero sanati. Poi perché la disciplina della tregua sindacale istituita dall’accordo non può essere vincolante per sindacati, come i Cobas, che non lo hanno sottoscritto. Per questo sarebbe necessaria una legge che recepisse i termini essenziali dell’accordo ed estendesse la cornice di regole di democrazia sindacale a tutti i sindacati.

Ma potrebbe una legge ordinaria limitare il diritto di sciopero impedendone la proclamazione anche ai sindacati che non hanno sottoscritto l’accordo?
No. Quello che la legge può fare è introdurre in Italia la stessa regola che disciplina questa materia in quasi tutti gli altri Paesi occidentali: la regola, cioè, secondo cui la clausola di tregua contenuta in un contratto collettivo vincola tutti i lavoratori a cui quel contratto collettivo si applica. A quel punto, i sindacati autonomi possono anche proclamare lo sciopero in violazione della clausola di tregua, ma potranno aderirvi soltanto lavoratori a cui quel contratto collettivo non si applichi.

Alcuni suoi colleghi giuslavoristi, però, sostengono che la clausola di tregua può vincolare soltanto i sindacati, non i singoli lavoratori.
Quella è una tesi che è stata per molto tempo maggioritaria nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, ma oggi è minoritaria, anche in riferimento alla legislazione vigente. In ogni caso, l’articolo 40 della Costituzione affida al legislatore il potere e il compito di disciplinare questa materia: nulla vieta, dunque, che la legge ordinaria preveda la possibilità che la clausola di tregua vincoli anche i singoli lavoratori, come qualsiasi altra clausola della parte normativa di un contratto collettivo.

Più in generale che senso ha cercare di superare con leggi e accordi l’eventuale dissenso di parte dei dipendenti rispetto alle scelte dell’azienda?
Il senso è quello della democrazia sindacale: quello per cui una minoranza non può paralizzare le scelte della maggioranza. Il nostro sistema delle relazioni industriali è diffusamente considerato dagli osservatori e operatori stranieri vischioso e inconcludente proprio perché in esso non si è applicato finora il principio di democrazia sindacale, bensì quello della conflittualità permanente. È quest’ultima che nell’era della globalizzazione non ha più senso.

Se però quel dissenso è maggioritario in fabbrica come escludere i sindacati che lo rappresentano solo perché, coerentemente, non firmano gli accordi? Non è anche questo un problema di democrazia sindacale?
In un regime di democrazia sindacale come quello istituito da questo accordo interconfederale, se il dissenso è maggioritario, il contratto collettivo non può avere efficacia erga omnes: esso può vincolare soltanto gli iscritti al sindacato che lo ha firmato.

Come si può pensare che un contratto nazionale sia limitato da quanto stabilito nei contratti aziendali istituendo così un rovesciamento delle gerarchie?
Beh, prima di noi lo hanno pensato i tedeschi e gli svedesi, che pure nel secolo scorso erano stati i campioni del centralismo contrattuale. La ragione è questa: l’innovazione – in materia di organizzazione del lavoro, inquadramento professionale, struttura della retribuzione, distribuzione dei tempi di lavoro, ecc. – si presenta sempre al livello aziendale, non al livello nazionale. È vero che ci può essere innovazione buona e innovazione cattiva; ma se per paura dell’innovazione cattiva ci chiudiamo anche a quella buona, i lavoratori stanno peggio e il Paese non cresce.

Invece di ricorrere ad astrusi calcoli affidati a Inps e Cnel, non sarebbe più semplice far votare gli accordi aziendali e nazionali in fabbrica da tutti coloro che ne subiscono gli effetti con l’erga omnes?
La soluzione che ho proposto, insieme ad altri 54 senatori, nel disegno di legge n. 1872/2009 [1] consisteva in questo: un voto almeno triennale nei luoghi di lavoro per determinare la rappresentatività di ciascun sindacato e ripartire i rappresentanti aziendali; poi il potere di contrattare con efficacia erga omnes è dato alla coalizione più rappresentativa. La soluzione recepita nell’accordo interconfederale è meno semplice, come sempre accade nei compromessi. Ma i compromessi hanno il vantaggio del consenso più largo.

Come si stabilisce, in questo caso, chi fa parte della coalizione?
Secondo il modello delineato nel nostro disegno di legge, ipotizziamo che in un’azienda con 1000 lavoratori il sindacato A abbia avuto 400 voti, il sindacato B 300, il sindacato C 200 e il sindacato D 100. I 10 rappresentanti sindacali aziendali sono ripartiti in proporzione. Una coalizione maggioritaria, abilitata a firmare l’accordo con effetti erga omnes, potrà essere costituita da A+B, oppure da A+C, oppure ancora da B+C+D.