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DOVE VANNO I SOLDI PER LA RICERCA?

L’articolo di Andrea Ichino pubblicato su Il Sole 24 Ore il 12 aprile 2008 – A seguire la sua replica, pubblicata il 18 aprile, agli interventi in argomento dei presidenti di Cnel, Isae e Isfol (pubblicati dallo stesso quotidiano il 15 aprile) e del presidente di Svimez (18 aprile).

Il Sole24Ore ha recentemente ospitato un appello degli scienziati italiani al Presidente Napolitano, affinché i fondi per la ricerca vengano allocati solo sulla base di parametri riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, ossia mediante la cosiddetta peer review, che consiste in una valutazione regolamentata, anonima e indipendente del merito scientifico di ogni progetto di ricerca. È un appello importante perché tutti in Italia lamentano che si spende poco per la ricerca scientifica, ma pochi sanno che una gran parte degli scarsi fondi disponibili si perde in mille rivoli a favore di enti e persone che poco o nulla contribuiscono a una seria ricerca di livello internazionale.
Un ambito nel quale è urgente che il futuro governo intervenga affinché l’appello non rimanga lettera morta è quello dei numerosi istituti pubblici che in vario modo producono ricerca statistica ed economica finanziata con le tasse dei cittadini: ad esempio l’ISFOL, l’ISAE, l’ISTAT, lo SVIMEZ, ai quali si aggiungono i ricercatori, stabili e occasionali, all’interno del CNEL, dei Ministeri, delle Regioni, degli altri Enti locali, delle varie authorities e della Banca d’Italia nella sua sede centrale e in quelle decentrate. Una legione di ricercatori e di personale amministrativo al loro servizio, che costa allo Stato una cifra difficile da valutare, ma sicuramente rilevante, per produrre un’infinità di rapporti di ricerca che spesso si sovrappongono per oggetto, metodi e risultati, senza che esista una qualsivoglia misura della loro efficacia. I soli primi cinque tra gli enti sopra nominati hanno ricevuto dalla finanziaria 2008 più di 280 milioni di euro, che corrispondono a oltre il 10% della spesa totale per la ricerca stanziata nello stesso anno dal ministero competente. Può darsi che questi soldi siano ben spesi; ma sarebbe opportuno verificarlo. E un modo per farlo è quello appunto auspicato nell’appello degli scienziati di cui si è detto: la peer review.
Qualcuno potrebbe obiettare che questi enti non sono dipartimenti universitari perché fanno altro e che comunque in Italia nemmeno i dipartimenti universitari sono valutati in questo modo (con l’unica e benemerita eccezione delle valutazioni del CIVR del 2005, misteriosamente dimenticate dal governo Prodi e che speriamo il prossimo governo voglia riprendere e rendere operative).
Ma per quale motivo un governo dovrebbe utilizzare rapporti di ricerca basati su metodi e teorie superate dalle frontiere della scienza? È come se, essendo già disponibili le scoperte di Copernico e Galileo, quel governo si servisse ancora di scienziati tolemaici. È successo così nel passato e le conseguenze le conosciamo bene. Ma non dovrebbe più accadere. La politica ha bisogno di buona ricerca e attualmente il metodo della peer review, per quanto imperfetto, è il migliore che la comunità scientifica internazionale sia riuscita a trovare per valutare la bontà del proprio lavoro.
Non sorprende quindi che il Servizio Studi della Banca d’Italia sia unanimemente considerato come di gran lunga il migliore tra gli enti in questione: è l’unico i cui ricercatori sono seriamente selezionati anche sulla base della loro capacità di produrre ricerca di valore internazionale, sono periodicamente mandati a “risciacquare i loro panni” nell’Arno delle migliori università mondiali e sono invitati non solo a fare il loro lavoro istituzionale ma anche a produrre ricerca pubblicabile sulle migliori riviste scientifiche. Richiesta che per questi ricercatori significa lavorare ben di più dell’orario standard di un ufficio statale, ma che rende autorevole e ascoltata la loro voce. Non solo, ma è sempre questo stesso Servizio Studi ad aver prodotto e messo a disposizione di tutta la comunità scientifica la prima (e a tutt’oggi quasi unica) banca dati utilizzata per fare ricerca microeconomica in Italia: l’Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane.
Fuori da Via Nazionale, il panorama degli istituti pubblici offre un quadro ben diverso sia per la qualità della ricerca, sia per la predisposizione di banche dati facilmente accessibili (in questo l’Istat è ancora alla preistoria). Ma ciò che più preoccupa è che l’allocazione dei fondi pubblici a questi enti non sembra riflettere alcuna qualsivoglia (purchè trasparente) valutazione della loro produttività. �
Basti per tutti l’esempio dell’ISFOL: essendo finiti i fondi europei che hanno consentito a questo istituto di espandersi negli anni recenti senza che la sua attività abbia prodotto risultati anche lontanamente comparabili a quelli del Servizio Studi della Banca d’Italia (perché, per esempio, non ha fatto partire un’indagine longitudinale come l’americana School and Beyond, che sarebbe essenziale in Italia per valutare il sistema scolastistico e studiare i problemi della transizione tra scuola, formazione e mondo del lavoro?), l’ultima finanziaria ha stanziato un incremento dei suoi fondi da 10 a 40 milioni di euro, la stabilizzazione di 302 precari e la trasformazione in contratto a tempo indeterminato di altre 249 posizioni di collaborazione, chissà come inizialmente selezionate.
In un comunicato della CGIL del 3 agosto 2007 si legge che le Organizzazioni Sindacali e l’amministrazione hanno concordato i seguenti criteri, in ordine di priorità, per le graduatorie relative alle stabilizzazioni: anzianità di servizio presso l’Isfol o altre amministrazioni, idoneità acquisita in altri concorsi pubblici di qualsiasi tipo, appartenenza a categorie protette e età anagrafica. Non solo tra questi criteri non si parla di peer review, ma nemmeno si menziona la produttività scientifica, comunque valutata, dei singoli ricercatori!
Il sindacato dirà: ognuno faccia il suo mestiere; il mio è quello di migliorare le condizioni di vita dei miei rappresentati e delle loro famiglie. D’accordo. Ma è sicuro il sindacato che ai figli di quei lavoratori convenga vivere in un paese in cui i fondi per la ricerca vengono utilizzati per finanziare i redditi dei loro genitori o comunque di chi non fa ciò che la comunità scientifica internazionale considera vera ricerca?
Andrea Ichino
andrea.ichino@unibo.it [1]

Su questo articolo sono intervenuti i presidenti di Cnel, Isae e Isfol sul Sole 24 Ore del 15 aprile e il presidente di Svimez il 18 aprile.

LA REPLICA
Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2008

Sarebbe interessante sapere quanti sono in Italia gli istituti pubblici di ricerca a cui siano state quadruplicate le risorse. Temo che solo l’ISFOL abbia ricevuto questa importante gratificazione nella finanziaria 2008, che ha incrementato il suo bilancio da 10 a 40 milioni di euro. Di fronte ad un tale riconoscimento chiunque penserebbe che questo istituto sia un “centro di eccellenza” pieno di futuri premi Nobel. Ma né sul suo sito né nella replica del suo Presidente al mio articolo del 12 aprile troviamo una spiegazione chiara e trasparente di come questo istituto sia stato valutato per ottenere un tale premio, in un paese in cui i fondi per la ricerca certo non abbondano.  Il problema è che nel nostro paese non sembra esistere un consenso sul significato delle parole “valutazione della ricerca”, e questo è evidente nelle repliche suscitate dal mio articolo. 

Da un lato il Presidente della Commissione Sanità del Senato Ignazio Marino condivide opportunamente l’appello degli scienziati italiani al presidente Napolitano e identifica nella peer review il metodo migliore oggi disponibile: ossia quel metodo adottato dalla comunità scientifica internazionale consistente in una valutazione regolamentata, anonima e indipendente (3 aggettivi importanti) di ogni progetto di ricerca e dei suoi risultati. Su posizioni simili, e ne prendo atto volentieri, è l’ISAE che si sta avviando in questa stessa direzione, anche se sul sito di questo Ente ho trovato solo una rapporto di valutazione relativo al periodo 1999-2002, che non credo sia la certificazione dei risultati a cui il Presidente Maiocchi fa riferimento. Dall’altro lato, però, troviamo istituti, come il CNEL e l’ISFOL, convinti che la valutazione possa essere fatta in altro modo, per esempio dai Presidenti di Camera e Senato, oppure in base a non meglio precisati “livelli distinti” sul piano nazionale ed Europeo.

 

 Certo la peer review non è una soluzione perfetta. Può essere fatta in tanti modi e non tutti senza difetti. Un elemento critico è dato da chi sceglie i valutatori. Per esempio è di gran lunga preferibile il metodo del CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca) piuttosto che quello del MUR (Ministero per l’Università e la ricerca). Il primo ha affidato a “panels di esperti” di diverse tendenze e non di nomina politica, il compito di selezionare in modo collegiale i valutatori (referees) di ogni prodotto, riducendo quindi il rischio di arbitrio ingiustificato, distorsioni e interferenze. Nel sistema del MUR, invece, i referees di un progetto vengono scelti da membri di un comitato di nomina politica e questo comporta rischi: basta scegliere i referees più severi per tutti i “non amici” … e il gioco è fatto. Non è quindi tutto oro quel che luccica, ma se la comunità scientifica internazionale ricorre a questi metodi, per quale motivo i centri di ricerca pubblici non dovrebbero fare altrettanto? Nulla vieta loro di usarne anche altri se preferiscono. La loro posizione sarebbe più credibile e trasparente se si assoggettassero alla peer review, magari confrontando questo metodo con quelli alternativi da loro preferiti, in modo da dimostrare, eventualmente, all’intera comunità scientifica internazionale che sta sbagliando tutto e che quei metodi alternativi sono migliori. Un motivo apparentemente valido per rifiutare la peer review potrebbe essere che questi centri non fanno ricerca: fanno consulenza per il governo del paese. Paolo Reboani del CNEL, ad esempio, ci dice che uno dei compiti di questo istituto è assicurare il raccordo tra il mondo scientifico e il mondo politico, condensando per le parti sociali le conoscenze scientifiche più avanzate. È, in effetti, un ruolo importantissimo di cui si sente la mancanza in Italia e che dovrebbe avvicinare alla frontiera della ricerca chi ne deve applicare i risultati. Ma questo difficile lavoro di traduzione non può essere fatto da chi è lontano dalla frontiera della ricerca e da chi non è in grado di discernere cosa valga la pena di essere tradotto e cosa invece sia privo di valore.  Molte riviste scientifiche pubblicano lavori di rassegna che appunto servono a condensare le conoscenze esistenti, ma anche queste rassegne sono tipicamente sottoposte a peer review anonima. Perché questo non dovrebbe valere per il CNEL, dove si respira più conoscenza della storia sindacale italiana che delle frontiere della ricerca?  Poi, anche ammettendo che questi enti stiano facendo un ottimo lavoro (cosa per altro vera per alcuni ricercatori al loro interno, non adeguatamente premiati proprio per l’assenza di una adeguata valutazione) siamo proprio sicuri che siano tutti necessari, tenendo anche presente che ai loro costi si sommano quelli della ricerca finanziata a livello regionale, provinciale e comunale, oltre a quella delle varie authorities e dei ministeri?  Cinque di questi enti ricevono una somma pari al 10% dell’intero bilancio per la ricerca del MUR per tutte le discipline. Solo il più piccolo, lo Svimez, mette in evidenza il bilancio nel suo sito. Per gli altri le fonti di finanziamento e soprattutto il loro uso non sembrano facilmente reperibili. Tornando all’ISFOL, nella sua risposta brilla l’assenza di ogni riferimento ai criteri che questo istituto ha utilizzato per fare buon uso dell’incremento da 10 a 40 milioni di euro dei fondi che gli vengono allocati. Se è vero che nel CCNL 2002-2005 degli Enti Pubblici di Ricerca sparisce ogni riferimento all’anzianità, come ci ricorda Maiocchi, perché questo criterio è stato invece utilizzato per le stabilizzazioni dei 302 precari dell’ISFOL? Purtroppo non tranquillizza sapere che le 249 nuove assunzioni sono “solo” a tempo determinato: possiamo facilmente prevedere che questi ricercatori saranno assunti allo scadere del termine, nel 2013, sulla base del principio secondo cui “l’anzianità fa grado”.   andrea.ichino@unibo.it [1] ¼/p>