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LUCIANO LAMA E I SALARI-VARIABILE INDIPENDENTE

UN BREVE COMMENTO SULLE TESI DEL SEGRETARIO GENERALE DELLA CGIL, CHE ISPIRARONO LA RISPOSTA DATA DAL SINDACATO ALLA CRISI CON LA SVOLTA DELL’EUR, NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI SETTANTA

Intervento redatto per Qdr Magazine, a corredo  di una riedizione dell’intervista di Eugenio Scalfari a Luciano Lama [1], pubblicata originariamente su la Repubblica il 24 gennaio 1978 – Il testo dell’intervista sarà disponibile on line su Qdr Magazine e su questo sito martedì 25 ottobre 2011

     Il cuore di questa notissima intervista è costituito dal passaggio nel quale il segretario generale della Cgil archivia seccamente come un errore concettuale la tesi del salario come “variabile indipendente” del sistema economico. Su quella tesi si era fondata un’intera decennale stagione di rivendicazioni sindacali – quella della “conflittualità permanente” – rispetto alla quale la cosiddetta svolta dell’Eur intendeva voltar pagina. Nella congiuntura del 1977-78 Luciano Lama aveva molte ragioni per compiere questo passo coraggioso; però la sua affermazione sarebbe stata forse politicamente più forte se accompagnata da un importante distinguo, che avrebbe aiutato il dibattito da essa suscitato a evitare le secche della contrapposizione ideologica.
     Vi sono, in realtà, alcune situazioni nelle quali il livello dei salari è, entro un certo limite, una variabile indipendente. È  il caso che si verifica, per esempio, quando l’impresa opera in regime di monopolio nel mercato dei beni o dei servizi: qui la suddivisione della rendita monopolistica tra profitto e monte-salari è effettivamente una variabile indipendente del sistema, nel senso che, entro quel limite, il salario può variare senza causare diminuzioni dell’occupazione, né della produzione. Qualche cosa di analogo può dirsi in riferimento al caso in cui l’impresa operi in regime di monopsonio nel mercato del lavoro: qui l’erosione, da parte della coalizione sindacale, della rendita monopsonistica dell’imprenditore non soltanto non genera effetti depressivi sui livelli occupazionali, ma addirittura genera effetti positivi, sia sul versante occupazionale, sia su quello della produzione. In altre parole, si può affermare che, dove vi sia una rendita monopolistica o monopsonistica, i salari costituiscono variabile indipendente (o comunque possono aumentare senza effetti negativi sull’occupazione) fin dove il loro aumento erode quella rendita. Se così non fosse, sarebbe difficile giustificare il permanere di standard retributivi minimi inderogabili contrattati in sede collettiva. Il problema è proprio quello di individuare il limite al quale deve arrestarsi l’azione sindacale volta a correggere la distorsione monopsonistica, oppure a erodere in favore dei lavoratori l’eventuale rendita monopolistica, perché non si generi disoccupazione.  È lo stesso problema che si pone per la fissazione di un minimum wage: qual è il livello massimo cui si può fissare lo standard inderogabile necessario per correggere le distorsioni da monopsonio dinamico, che si manifestano marginalmente anche in un mercato del lavoro maturo, senza che esso diventi causa di disoccupazione? è un livello uguale in ogni parte del Paese?
     Un sindacato moderno oggi non può prescindere da questa distinzione. Quindi non può prescindere da una determinazione attendibile, fondata su dati sperimentali, circa la sussistenza della distorsione del mercato e l’entità della rendita che essa genera. E dove non possa essere data una risposta unica in riferimento all’intero territorio nazionale, bensì soltanto una risposta articolata per zone, settori o aziende, quel sindacato deve accettare che la contrattazione collettiva si articoli di conseguenza.