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LETTERA APERTA AL PARTITO DEMOCRATICO

PERCHÉ È INDISPENSABILE  AGGIORNARE LA LINEA DEL PARTITO IN MATERIA DI POLITICA DEL LAVORO

Lettera aperta al Partito Democratico, pubblicata su l’Unità del 22 novembre 2011

All’inizio di questa legislatura erano due i grandi temi caldi della politica del lavoro individuati dal manifesto programmatico del Partito Democratico, sotto il titolo Per dare valore al lavoro [1]. Il primo era quello dello spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, anche per aprire il Paese agli investimenti stranieri e ai piani industriali più innovativi che essi sovente portano con sé. Il secondo era quello del superamento del dualismo del nostro mercato del lavoro, del regime attuale di feroce apartheid fra lavoratori protetti e non protetti, attraverso il nuovo disegno di un diritto del lavoro capace di applicarsi in modo davvero universale a tutti, conciliando il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale per i lavoratori nel mercato del lavoro.
              Nel 2009 i due punti programmatici vengono tradotti in altrettanti disegni di legge, rispettivamente n. 1872 [2]e n. 1873 [3], presentati da 55 senatori (la maggioranza del nostro Gruppo al Senato). Il primo dedicato alla riforma del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva, con la previsione della derogabilità del contratto nazionale da parte di quello aziendale, nell’ambito di regole precise di democrazia sindacale. Il secondo dedicato al disegno di un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi in modo universale, ricomprendendo davvero tutti i nuovi rapporti di lavoro dipendente destinati a costituirsi da qui in avanti, voltando pagina rispetto al dualismo attuale. Entrambi i disegni di legge, però, a seguito della conferenza programmatica del partito del maggio 2010, sono stati accantonati dalla nuova maggioranza nata dall’ultimo congresso.�
              Per quel che riguarda la prima questione, la critica rivolta nel 2010 dai responsabili del Lavoro e dell’Economia al d.d.l. n. 1872 è quella di attentare al ruolo centrale e insostituibile del contratto collettivo nazionale di lavoro, riducendo la sua inderogabilità. Senonché, collocandosi su questa posizione, il Pd si trova impreparato di fronte alla vicenda degli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori [4](poi anche Grugliasco), contenenti alcune deroghe al contratto nazionale; basti ricordare, in proposito, il commento imbarazzato e inadeguato dei vertici del partito al primo dei tre accordi: “Sì, purché sia un’eccezione”. Quella stessa vicenda sindacale è destinata, però, a determinare nel giro di un anno, una svolta epocale nell’evoluzione del nostro sistema delle relazioni industriali, con la firma – anche da parte della Cgil – dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. L’elemento di maggiore novità in questo accordo è costituito proprio dal rilevantissimo ampliamento della possibilità di deroga al contratto nazionale ad opera del contratto aziendale, nel rispetto di regole precise di democrazia sindacale (altro che “eccezione”!): sostanzialmente, si tratta della stessa riforma che è prevista nel d.d.l. n. 1872/2009. A me sembra evidente che, se il Pd nel 2009 e 2010 avesse confermato la linea cui si ispira quel disegno di legge, la vicenda degli accordi Fiat nel 2010 si sarebbe svolta in modo molto meno lacerante. Il Pd ci arriva, invece, solo dopo l’accordo del giugno 2011.
              Meglio tardi che mai. D’accordo. Ma non sarebbe stato inutile che qualcuno dei protagonisti della linea precedentemente tenuta, i quali oggi fanno propria come Bibbia la linea sancita dall’accordo interconfederale di giugno, riconoscesse almeno la bontà dell’idea che era alla base del progetto contenuto nel d.d.l. n. 1872/2009. Desse atto, cioè, ai 55 senatori che lo avevano sostenuto di aver visto giusto. Di questo non si è sentita, invece, neppure mezza parola.
            Qualche cosa di strettamente analogo sembra ora destinato ad accadere anche sul secondo versante, quello del superamento del regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti. Perché il progetto flexsecurity contenuto nel d.d.l. n. 1873, il secondo della coppia proposta due anni fa dalla maggioranza dei senatori del Pd, ha raccolto in questi ultimi mesi il consenso della quasi totalità degli altri gruppi parlamentari; e giovedì scorso è stato inequivocabilmente indicato come base per la riforma da Mario Monti nel primo atto del suo nuovo Governo, cui il Pd ha promesso pieno sostegno. La proposta uscita, su questo terreno, dalle ultime due assemblee programmatiche del Pd (2010 e 2011) – cioè quella di aumentare i contributi previdenziali degli “atipici” – è già stata prontamente attuata dalla “legge di stabilità”, ultimo atto del Governo Berlusconi; e con tutta evidenza non basta per affrontare incisivamente il problema. Il Pd – come ciascuna delle altre forze politiche che fanno parte della nuova maggioranza – ora può proporre delle modifiche o integrazioni al progetto che il Governo indicherà come base di discussione; ma è difficile pensare che possa schierarsi contro un’iniziativa mirata a riunificare progressivamente il mondo del lavoro allineandolo ai migliori standard europei, e che comunque non pregiudica in alcun modo la posizione di chi un rapporto di lavoro stabile regolare già oggi ce l’ha. Non può davvero essere il partito che si qualifica come “fondato sul lavoro” a chiedere al nuovo Governo di restare fermo su questo terreno.