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LA ROULETTE RUSSA DELLE CAUSE IN TEMA DI LICENZIAMENTO

UNA RICERCA SULLE CONTROVERSIE IN QUESTA MATERIA NEI TRE MAGGIORI TRIBUNALI ITALIANI (MILANO, ROMA E TORINO) MOSTRA CHE GLI ESITI, IN LARGHISSIMA MISURA, SONO AFFIDATI AL CASO 

Articolo di Andrea Ichino e Paolo Pinotti pubblicato sul Corriere della Sera il 3 marzo 2012 – V. anche una versione più ampia dello stesso articolo, e corredata delle tabelle e grafici, sul sito lavoce.info [1]

“Monetizzare i diritti” è considerato un segno di inciviltà dall’opinione pubblica italiana, che preferisce affidare la loro tutela ad un procedimento giudiziale. Ad esempio, per difendere la stabilità del posto di lavoro si preferisce chiedere al giudice di valutare l’esistenza di un giustificato motivo anche quando questo è di natura economica o gestionale, invece di stabilire almeno in questo caso, come in altri paesi, un prezzo monetario magari alto che l’azienda debba pagare al lavoratore per essere libera di sciogliere il rapporto di lavoro.
Ma fanno bene i lavoratori ad affidare sempre e comunque ai giudici la protezione di qualsiasi loro interesse? Una ricerca condotta su oltre 11000 cause per licenziamento, iscritte a ruolo nei Tribunali di Milano, Roma e Torino negli anni 2003-2005 mostra che forse non è sempre una buona idea.
Innanzitutto, la durata media di questi processi è molto diversa nei tre tribunali: 266 giorni a Milano, 429 a Roma e 200 a Torino. Se le cause di licenziamento fossero simili nelle tre città, verrebbe naturale chiedersi per quale motivo i lavoratori di Roma (e i rispettivi datori di lavoro) debbano aspettare il doppio di quelli di Torino e oltre un terzo in più di quelli di Milano per conoscere la propria sorte. Ma è possibile che i casi di Roma siano più complessi di quelli delle altre città e quindi richiedano più tempo per essere decisi. Il confronto corretto può essere fatto soltanto tra giudici di uno stesso tribunale, perché, in ciascuna sede, i processi sono assegnati a sorte tra i diversi magistrati. Quindi, su un campione sufficientemente grande, i processi di ciascun giudice dovrebbero essere mediamente di pari complessità (per questo limitiamo l’analisi a giudici con almeno 50 casi nei tre anni). I risultati di questo confronto sono sorprendenti.
A Roma il lavoratore e l’impresa che per sorte vengano assegnati al giudice più veloce possono sperare di veder decisa la loro causa in 179 giorni. I giorni diventano 693 se il caso viene assegnato al giudice più lento: un incremento di quasi 4 volte. Se, prudenzialmente, vogliamo escludere i giudici più lenti o più veloci del 90% dei  loro colleghi, la forbice varia da 284 a 569 giorni: un incremento di oltre 2 volte. A Milano e Torino le differenze tra giudici veloci e lenti sono altrettanto grandi: anche escludendo i casi estremi, si passa da 193 a 333 giorni nel capoluogo lombardo e da 97 a 318 in quello piemontese.
Per l’impresa, la lotteria generata da questa forbice è particolarmente costosa perché qualora il giudice decidesse in favore del lavoratore, il datore di lavoro dovrebbe versare a lui o lei non solo la retribuzione non pagata nelle more del giudizio e i relativi contributi previdenziali. Dovrebbe anche pagare all’INPS una multa sostanziosa per gli omessi contributi, multa che cambierebbe a seconda dei tempi di decisione del giudice.
Non sono meno rilevanti i costi per i lavoratori, essendo in gioco la possibilità di rimanere senza stipendio per 693 giorni invece che 179, come ad esempio accade a Roma. Tuttavia, ciò che per loro conta maggiormente è la probabilità che il ricorso contro il licenziamento sia accolto. Ma anche in questo caso, dai dati emerge che l’accertamento giudiziale del giustificato motivo è una roulette russa.
A Milano, il giudice più favorevole al lavoratore dà ragione a lui o lei circa 4 volte più frequentemente del giudice meno favorevole. L’incertezza è ancora maggiore per l’impresa: per alcuni giudici essa ha ragione nel 2% dei casi, per altri nel 20%, con un incremento di ben 10 volte. A Roma, è invece la probabilità di vittoria del lavoratore che può aumentare di  10 volte a seconda del giudice (dal 4% al 40% ) mentre la forbice per le imprese è più contenuta, ma pur sempre considerevole (dal 4% al 19%). È più difficile interpretare le conciliazioni, che sono l’esito più frequente. Ma anche la loro probabilità varia molto tra i giudici nonostante i casi ad essi assegnati siano simili. A Milano si passa dal 49% al 76% di controversie conciliate per giudice. A Roma la differenza va addirittura dal 27%  al 69%. Se la frazione di sentenze favorevoli ai lavoratori emesse da un giudice è proporzionale al grado in cui le conciliazioni dello stesso giudice sono ad essi gradite, possiamo concludere che, anche tenendo conto delle conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda del magistrato che tratta la causa.
Forse i lavoratori e i sindacati pensano che sia meglio così solo perché non hanno mai visto questi numeri (l’articolo integrale sarà disponibile sul sito www.lavoce.info). Ma la nostra impressione è che questo stato di cose serva solo ad arricchire gli avvocati e costringa i giudici ad occuparsi di controversie che potrebbero benissimo essere risolte in altro modo: ad esempio stabilendo un prezzo adeguato per la possibilità di licenziare, quando ovviamente il motivo non sia discriminatorio e  il licenziamento non sia motivato da una colpa grave del lavoratore.
In ogni caso, se davvero la disciplina attuale dei licenziamenti fosse posta a protezione di un diritto fondamentale della persona, come può ammettersi che questa protezione sia affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi a giudici così diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione?

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