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QUANDO È L’IMPRENDITORE A CHIEDERE IL “CONTRATTO UNICO”

L’AMMINISTRATORE DELEGATO DI UNA PICCOLA IMPRESA DENUNCIA LA DISTORSIONE DELLA CONCORRENZA CONSEGUENTE ALLA POSSIBILITÀ DI MASCHERAMENTO DEL RAPPORTO DI LAVORO DIPENDENTE NELLE FORME DELLA COLLABORAZIONE AUTONOMA E CHIEDE UNA EFFICACE NORMATIVA DI CONTRASTO A QUESTA PRASSI DIFFUSISSIMA

Intervento di Riccardo Giovannini, socio e amministratore delegato della RGA s.r.l., 4 aprile 2012

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Vi sono aziende che considerano il rispetto della legalità e dei valori aziendali (sistematicamente comunicati e diffusi all’interno e all’esterno dell’azienda), elementi di base per lo svolgimento delle proprie attività e per lo sviluppo del proprio business.
In particolare,se una di queste aziende opera nel settore dei servizi e della consulenza aziendale ed intende essere coerente con i suddetti principi, nei rapporti con il proprio personale esecutivo non può che far riferimento al Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (CCNL) applicabile.
I CCNL si presentano, per l’esperienza di chi li applica, rigidi, complessi e spesso inadatti alle reali esigenze del mercato; il problema è che ben poche aziende, per lo più filiali italiane di multinazionali del settore, adottano i CCNL; le altre, per regolare il rapporto con le proprie risorse umane,preferiscono stipulare contratti a progetto o rapporti a partita IVA, notoriamente più economici e flessibili. Questa pratica determina una serie di  problematiche economiche e sociali a livello di sistema:
– la concorrenza fra le aziende ne risulta falsata; a parità di netto in busta paga del dipendente, le aziende che applicano il CCNL subiscono un costo del lavoro molto più elevato e devono affrontare una rigidità organizzativa che si riflette in un maggior valore delle tariffe professionali e quindi in minore competitività; inoltre viene incrementato il precariato delle risorse umane, soprattutto di quelle più giovani; i margini economici delle aziende più virtuose si riducono con effetti negativi su alcuni costi strutturali che non possono essere adeguatamente remunerati, quali la formazione, l’addestramento, la ricerca; il tutto con effetti distorsivi anche di natura sociale.
Tale stato di fatto si ripercuote anche sulle società clienti,ossia sui committenti delle aziende di servizi. Queste ultime, infatti, anche se di grandi dimensioni, multinazionali e quotate in borsa, spesso trascurano di qualificare i propri fornitori in base alla adeguatezza dei contratti che regolano il rapporto con i loro dipendenti; di fatto, perciò, agevolano le forme di lavoro irregolare sopra descritte e si espongono, a volte anche in modo inconsapevole, a rischi legali nei casi in cui un dipendente di un’azienda fornitrice decida di agire giudizialmente non solo verso il datore di lavoro ma anche verso il committente (così come la c.d. Legge Biagi gli consente); rischi legali che possono alterare in maniera significativa l’immagine e la reputazione di un’azienda.
Così procedendo si determina l’effetto decisamente più curioso di questa situazione; l’imprenditore, nell’applicazione dei principi di legalità dei comportamenti, si trasforma in un “sindacalista di fatto” più tenace e cocciuto degli stessi lavoratori nel contrastare pratiche poco evolute che vengono applicate anche da molte grandi aziende italiane, allorché selezionano i loro fornitori, oltre che – ovviamente – da alcuni suoi concorrenti.
Forse, per restituire un po’ di legalità e valori alle aziende (in questo momento economico se ne sente il bisogno) sarebbe opportuno definire e rendere operativo un contratto unico per tutte le risorse umane che svolgano mansioni esecutive con un compenso annuo (RAL) fino a 50.00 euro annui.
Si tratterebbe di una soluzione  pragmatica ed incisiva che tutelerebbe i lavoratori ed eviterebbe forme di concorrenza sleale che penalizzano le aziende che si ostinano a rispettare regole e leggi.

jj