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EDOARDO GHERA: IL RUOLO DEI GIURISTI E LA RIFORMA DEI LICENZIAMENTI

L’INTERVENTO DI UNO DEI GIUSLAVORISTI ITALIANI PIÙ AUTOREVOLI NEL DIBATTITO SVILUPPATOSI A SEGUITO DEL CONGRESSO NAZIONALE DI DIRITTO DEL LAVORO

Intervento di Edoardo Ghera, ordinario di diritto del lavoro nell’Università “la Sapienza” di Roma, 28 giugno 2012, a seguito del mio intervento al Congresso di Pisa [1] e agli interventi successivi del prof. Oronzo Mazzotta [2] e della prof. Maria Teresa Carinci [3]

Caro Pietro, intervengo nel dibattito aperto, dopo il Tuo intervento al Congresso dell’AIDLaSS, dalla lettera di Oronzo Mazzotta per fare alcune osservazioni.
La prima è il giudizio sulla riforma Fornero. Tralascio il resto, tra cui la pure importante riforma degli ammortizzatori sociali per concentrarmi anch’io sul licenziamento.
Mazzotta dice il vero quando scrive che – non so se il ceto giuridico ma  certamente  la comunità dei giuslavoristi – ha dato un motivato giudizio negativo  su questa parte del disegno di legge. Anch’io – come Te del resto – condivido questo giudizio su due punti almeno: l’introduzione di uno speciale rito di urgenza fino alla cassazione (ma non bastava l’attuale rito sommario?); la complicazione del sistema sanzionatorio.
Sul primo punto si può osservare che, allo scopo di rendere obbligatoria la corsia preferenziale che di fatto molti tribunali riservano alle cause di licenziamento, sarebbe stato sufficiente prevedere in una disposizione di attuazione del codice di rito l’obbligo di priorità della trattazione (si v. del resto il co. 65 del d. d. .l.). Per il resto non c’è che da confidare nel rispetto dei termini, ovviamente ordinatori, imposti al giudice e alle parti.
Quanto alla complicazione del sistema sanzionatorio il compromesso mirato a lasciare il più possibile aperta la porta alla reintegrazione ha inciso pesantemente sul cuore della riforma. Così, per il licenziamento disciplinare resta l’obbligo della reintegrazione, sia pure nell’ipotesi che l’infrazione sia punita dal contratto collettivo con una sanzione conservativa;  nonché nell’ipotesi che il fatto addebitato sia insussistente. Un trapianto questo, dal diritto penale che lascia perplessi perché non tiene conto che l’illecito disciplinare, diversamente da quello penale, si caratterizza normalmente  non per la materialità della condotta ma per l’elemento soggettivo: il grado di colpevolezza o di negligenza del lavoratore. E’ evidente che così congegnata la norma accresce la discrezionalità del giudice invece di limitarla, e potrà dare origine ad arbitrarie disparità tra casi simili.
Ancora più stridente è poi la reintegrazione nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo (co. 7). Anche qui la regola è l’indennità risarcitoria, sensibilmente rafforzata  e gradata (da 12 a 24 mensilità) eccetto il caso di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”. Una formulazione in apparenza chiara di un’ipotesi irrealistica se è vero che alla base della decisione di sopprimere certe mansioni o un posto di lavoro non vi è mai un accadimento o fatto storico definito ma una valutazione economica o previsione gestionale (come d’altronde si evince dal testo dell’art. 3 L. n. 604).
Il risultato, contrariamente all’intenzione, sarà di autorizzare il giudice a sostituire, dopo averla dichiarata insussistente,  la valutazione dell’imprenditore (si pensi al c.d. repechage, ma non solo) con l’effetto pratico di non cambiare nulla, se non addirittura di rendere più penetrante nel merito il controllo del giudice. Senza dire che il meccanismo della doppia tutela indennitaria e reintegratoria incentiverà, caso per caso,la parte ricorrente (il lavoratore) a sollevare in via premilitare la questione della sussistenza del fatto del motivo (soggettivo oppure oggettivo) addotto dall’imprenditore con possibile allungamento dei tempi del processo.
In realtà a fronte dei licenziamenti c.d. economici, individuali o collettivi, la reintegrazione – che non sia consensuale – non ha molto senso.
A fare da contrappeso al potere economico di licenziare non può essere che l’obbligo e l’entità dell’indennità, come dire un’altra ed opposta valutazione economica (costi-benefici). La contraddizione tra la tutela indennitaria che è la regola generale per la reintegrazione, costituisce quindi un grave fattore di incertezza che, insieme al linguaggio spesso contorto, spiega, il giudizio negativo dei giuristi su questa parte della legge.
Non si deve però esagerare. Non mancano aspetti positivi: il filtro obbligatorio del tentativo di conciliazione davanti alla D.P.L. prima del licenziamento e, soprattutto, le innovazioni introdotte nella parte risarcitoria del sistema sanzionatorio: il tetto massimo all’indennità per il c.d. medio tempore l’esplicita previsione della detraibilità dell’aliunde perceptum. Si può invece discutere  l’utilità di sanzionare la negligenza del lavoratore nella ricerca di una nuova occupazione.
Ma al di là degli aspetti tecnici è innegabile che il giudizio dei giuslavoristi sia stato motivato da ragioni politiche. Si è ritenuto che il ridimensionamento della tutela reintegratoria abbia una valenza negativa privilegiando la monetizzazione del licenziamento illegittimo: in tal modo si modificherebbe irrimediabilmente a danno della parte debole, l’equilibrio del rapporto.
Sappiamo però che la corte costituzionale ha escluso che la tutela obbligatoria sia in contrasto con la Costituzione. La strada imboccata dalla legge , non può quindi essere rifiutata come incostituzionale. Ci si imbatte così nel tema, affrontato da Mazzotta e da Te (nella replica), del metodo e, nello specifico, del modo di porsi dell’interprete rispetto al legislatore storico.
Dico  subito che l’intendimento di ridimensionare gli effetti di una nuova legge anche in esplicito contrasto con l’intenzione dichiarata dal legislatore non può essere di per sé criticabile come esercizio abusivo dell’attività interpretativa ma rientra nella discrezionalità soggettiva dell’interprete il cui unico vincolo è la coerenza con il testo; sarà poi (e qui ha ragione Mazzotta) il c.d. ceto giuridico  nel suo insieme (i giudici ma anche la dottrina)  a stabilire se una data opinione sia o meno meritevole di essere consolidata (dipenderà da un giudizio di congruità col sistema ma anche con la realtà sociale).
Ma la vera questione è un’altra. Se, nello specifico, l’esistenza all’interno della comunità scientifica di una linea di politica del diritto ipergarantista e perciò ostile alla riforma sia o no opportuna. Rispondo di no per molte ragioni che non posso qui elencare né argomentare ma solo riassumere: una politica di flessibilità del lavoro, anche in uscita, è resa necessaria non solo dalla globalizzazione del mercato dei capitali e degli investimenti produttivi ma anche dall’obbligo di armonizzare le tutele del lavoratore (e quella contro il licenziamento illegittimo è certo la più importante) ai modelli europei i quali sono di tipo indennitario. Riducendo lo spazio della reintegrazione la riforma si avvicina a tali modelli e intende favorire la domanda di lavoro: non  si tratta tanto di creare nuovi posti  ma piuttosto di disincentivare le imprese dalla loro riduzione; e, soprattutto, di  favorire il ricambio e la produttività del lavoro e quindi anche l’innalzamento dei salari.  Si dice che non è certo che questi obbiettivi saranno raggiunti. Ma non è una buona ragione per rifiutare  a priori di provarci.
Con le sue ombre e le sue luci la legge in gestazione si colloca nella prospettiva di un garantismo flessibile dei diritti del lavoratore incluso il diritto all’occupazione. È una tendenza ormai di lungo periodo (già dagli anni ’90) e tutt’altro che eversiva dei principi costituzionali di tutela del lavoro e della disparità del lavoratore.
Edoardo Ghera

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