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IL FOGLIO: MARCHIONNE È LIBERO DI IMPORTARE IN ITALIA IL MODELLO DI RELAZIONI INDUSTRIALI AMERICANO?

IL PRINCIPIO DEL PLURALISMO SINDACALE VALE ANCHE SUL VERSANTE IMPRENDITORIALE – E IL PLURALISMO SERVE PERCHÉ MODELLI DIVERSI DI RELAZIONI INDUSTRIALI POSSANO CONFRONTARSI E COMPETERE TRA LORO (MA QUESTO IN ITALIA È COMUNEMENTE RIFIUTATO DALLA CULTURA DOMINANTE)

Intervista a cura di Valerio Lo Prete, pubblicata sul Foglio il 2 novembre 2012 – In argomento v. anche le interviste pubblicate nello stesso giorno sul Secolo XIX [1] e su Europa [2]

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Roma. Il provvedimento che obbliga Fiat a riassumere 19 operai della Fiom-Cgil, e in prospettiva altri 145 con la stessa tessera sindacale, è “inappropriato”. Il diritto italiano consente questo provvedimento, ma in qualsiasi altro paese occidentale non sarebbe andata così. A spiegarlo al Foglio è Pietro Ichino, senatore del Partito democratico e uno dei più noti giuslavoristi italiani. Il professore però, prima di addentrarsi in una spiegazione ponderata del suo punto di vista, commenta la reazione che giornali e opinionisti italiani hanno riservato ieri all’ultima puntata della saga-Marchionne. In pochi si sono scostati dalla narrativa della “rappresaglia” del padrone contro gli operai. I più coraggiosi, come l’economista Carlo Dell’Aringa sul Sole 24 Ore, hanno criticato le prove di forza sia di Fiat sia di Fiom, e hanno definito l’ennesimo intervento giudiziario come un rimedio che non rientra più nel “fisiologico utilizzo delle relazioni industriali”. “Sul piano giuridico non la si può considerare una rappresaglia – dice Ichino -. La Fiat qui non fa che porre in evidenza una conseguenza negativa dell’intervento protettivo adottato a favore di una parte dei lavoratori, che solitamente resta in ombra: cioè il costo che ne consegue per altri lavoratori. Questa sentenza è solo l’ultimo episodio di un conflitto lungo due anni. Marchionne sta cercando di praticare un modello all’americana di relazioni industriali, che non è in contrasto con il nostro ordinamento. Illegittima, questo sì, è la discriminazione nei confronti dei singoli lavoratori iscritti alla Fiom – aggiunge Ichino – ma la lettera dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori ammette che in fabbrica siano riconosciuti soltanto i sindacati firmatari del contratto collettivo applicato in azienda, quando quest’ultimo è accettato dalla maggioranza dei lavoratori. Marchionne vuole far rispettare quest’idea, la cultura italiana lo respinge”.
Marchionne “non viola la legge quando cerca di praticare il modello di relazioni industriali ‘all’americana’ che l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori consente. È la cultura dominante che tende a espellerlo come un corpo estraneo.” Ichino, non per caso, non se la prende con questo o quel commentatore, preferisce parlare di una “cultura italiana” che è refrattaria all’esperimento di Marchionne: “Fiom ha la ragione giuridica dalla sua parte, nel caso specifico, ma è chiaro che le polemiche di queste ore non nascono dall’episodio di Pomigliano. A essere attaccato è praticamente tutto quello che l’ad di Fiat ha portato nelle relazioni industriali italiane. Inclusa la scelta di non riconoscere i sindacalisti della Fiom che non stanno al piano industriale approvato dalla maggioranza dei lavoratori.
E inclusa la  legittima scelta del Lingotto di staccarsi dal sistema confindustriale. Dal dibattito pubblico emerge il chiaro tentativo di delegittimare un modello di relazioni industriali che non faccia più riferimento ai ‘monopoli’ della rappresentanza costituiti oggi da Confindustria e da questi sindacati”.
Due giorni fa, però, la Casa automobilistica degli Agnelli ha avviato la mobilità per 19 lavoratori così da far posto ad altrettanti lavoratori con in tasca la tessera Fiom che hanno vinto il ricorso per discriminazione. In base alla sentenza, Fabbrica Italia Pomigliano (Fip), cioè la newco che nel 2010 ha sostituito giuridicamente lo stabilimento Giambattista Vico dopo la firma del contratto aziendale e che ha riassunto poco più della metà dei lavoratori del vecchio stabilimento, dovrà assumere entro sei mesi altri 126 lavoratori selezionati tra gli iscritti Fiom, così da rispettare le vecchie proporzioni di appartenenza sindacale. Di chi è la colpa in questo caso?
Fiat o Fiom?  “Il caso della Fiat di Pomigliano potrebbe essere usato come caso di scuola per lo studio delle cause e degli effetti del malfunzionamento di un sistema di relazioni industriali – dice Ichino – Come sempre, in questi casi, ciascuna delle parti ha qualche ragione di accusare l’altra di qualche malefatta. Ha ragione la Fiom, secondo quanto accertato dal giudice, quando accusa Marchionne di avere discriminato i suoi iscritti nelle assunzioni. Ma ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio, cioè fin dalla primavera 2010, contro il suo piano industriale, sulla base di un principio che solo un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno, la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale”. Dopo l’accordo interconfederale del 2011, siglato da tutti i sindacati e da Confindustria, “logica e buon senso avrebbero imposto che la Fiom rinunciasse alla sua guerriglia giudiziaria contro il piano industriale  Fiat, firmando gli
accordi aziendali e ottenendo così il riconoscimento dei propri rappresentanti negli stabilimenti”.
Risultato: Marchionne non ha il diritto di non volere in fabbrica chi non firma gli accordi aziendali. Le pare normale? “Secondo la legge italiana, in realtà, l’ad di Fiat ha il diritto di non riconoscere le rappresentanze del sindacato che non ha firmato alcun contratto collettivo applicato in azienda. Ma non ha il diritto – come potrebbe fare invece in America – di discriminare i suoi iscritti. Ciononostante, a mio avviso il provvedimento adottato dal giudice in questo caso è inappropriato”. Ecco, questo finora non l’ha detto praticamente nessuno, tantomento un giuslavorista e un uomo di sinistra: “Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno”, dice Ichino: “non va dimenticato che qui non si è trattato di persone licenziate illegittimamente, che vengono reintegrate nel posto di lavoro, ma di condanna dell’impresa alla costituzione ex novo di 19 rapporti di lavoro”. Ora, “la costituzione coattiva di un numero elevato di rapporti di lavoro, visto che a questi primi 19 lavoratori potrebbero seguirne nel prossimo futuro altri 126, produce l’effetto di una eccedenza di personale, con la conseguente legittimazione dell’impresa ad aprire una procedura di licenziamento collettivo. D’altra parte, non è ragionevole ritenere che un’impresa mantenga in organico 145 persone in eccesso rispetto all’organico di cui ha bisogno, tanto meno in un periodo di crisi”. Insomma l’interventismo giudiziario non aiuta: “Quando un sistema delle relazioni industriali va in tilt è rarissimo che un provvedimento giudiziale abbia l’effetto di sbloccarlo. Lo si può escludere del tutto, poi, quando il provvedimento è inappropriato, come questo di cui si discute oggi, che genera delle conseguenze assurde”. Adesso, verosimilmente, ecco cosa accadrà secondo Ichino: “Nelle cause che nasceranno dal licenziamento collettivo, i giudici non negheranno in linea teorica il diritto dell’impresa di ridurre il personale. Ma è prevedibile che troveranno il modo per impedire che il licenziamento collettivo abbia corso. Così, nell’immediato si evita un’ulteriore ingiustizia, ma sulla distanza il risultato è quello di indebolire un’intera impresa. E di contribuire a tenere lontani dal nostro paese gli investitori stranieri”.

Una proposta per uscire dall’impasse
Da Pierluigi Bersani, segretario del Pd, che parla di “licenziamenti inaccettabili”,  all’imprenditore Diego Della Valle che ha chiesto al premier Mario Monti e al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di “proteggere l’Italia da Marchionne e dagli Agnelli”, una pacificazione non pare a porta di mano. Pietro Ichino fa una proposta per uscire dall’impasse: “Se fossi il ministro del Lavoro, convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. E farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di
Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo il riconoscimento dei propri rappresentanti in azienda. E per indurre la Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problema con un contratto di solidarietà, in attesa della congiuntura positiva”.  Elsa Fornero, nella serata di ieri, ha aperto a questa prospettiva, invitando la Fiat a “soprassedere all’avvio della procedura di messa in mobilità del personale in attesa della verifica di una possibilità di dialogo che non riguardi solo il fatto specifico”.

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