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IL SECOLO XIX: SUI 19 DELLA FIAT ANCHE IL GIUDICE HA COMMESSO UN ERRORE

IN NESSUN ALTRO PAESE AL MONDO UN CASO DI DISCRIMINAZIONE COME QUESTO SAREBBE STATO SANZIONATO CON L’ORDINE GIUDIZIALE DI COSTITUZIONE DI 19 NUOVI RAPPORTI DI LAVORO: LA SANZIONE PIÙ APPROPRIATA ED EFFICACE È COSTITUITA DAL RISARCIMENTO DEL DANNO

Testo integrale dell’intervista a cura di Salvatore Cafasso, pubblicata dal Secolo XIX il 2 novembre 2012 con alcuni piccoli tagli per ragioni di spazio  – Sullo stesso argomento v. anche le interviste pubblicate nello stesso giorno dal Foglio [1] e da Europa [2]

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Diciannove messi in mobilità per rispettare una sentenza dello Stato: non pensa che quello di Fiat sia una ritorsione?
Sul piano strettamente giuridico non lo è. Un effetto indiretto del provvedimento giudiziale è una eccedenza di personale; e il nostro ordinamento consente all’impresa di risolvere il problema con il licenziamento collettivo. Il punto è che non possono essere licenziati i 19 della Fiom neo-assunti, poiché sarebbe una reiterazione della discriminazione ai loro danni; ma sarebbe evidentemente inaccettabile che venissero licenziati al loro posto altri 19, che con lo scontro tra Fiat e Fiom non hanno nulla a che fare. Sono questi gli effetti velenosi di un provvedimento giudiziale sbagliato.

Perché sbagliato? Che cosa avrebbe dovuto fare il giudice in questo caso?
Di fronte a un caso come questo, in qualsiasi altro Paese il giudice avrebbe adottato la sanzione più appropriata, che è quella del risarcimento del danno: non dimentichiamo che qui non si tratta di licenziamento discriminatorio, ma di mancata assunzione, che è cosa assai diversa. L’esperienza statunitense mostra come un risarcimento salato possa costituire un deterrente efficacissimo contro un comportamento discriminatorio di questo genere. E non determina le situazioni assurde a cui assistiamo oggi a Pomigliano.

I sindacati nutrono dubbi sul fatto che Pomigliano possa riassorbire tutti i lavoratori come da accordi sindacali firmati a suo tempo; e nel frattempo all’interno della fabbrica il clima – comprensibilmente – si è fatto rovente. È ancora convinto che lo stabilimento campano sia un modello per l’Italia?
Guardi che anche i sindacalisti della Fiom riconoscono che lo stabilimento di Pomigliano è un gioiello sul piano tecnologico e produttivo. Chiunque conosca l’industria automobilistica lo riconosce. Altro è il problema della ripresa della produzione di auto a pieno ritmo negli stabilimenti italiani della Fiat: questo dipende da molti fattori, la maggior parte dei quali sfugge al controllo della stessa Fiat.

Quali strade possono essere intraprese oggi – da tutte le parti – per evitare che il rispetto di una sentenza della magistratura porti al licenziamento di diciannove persone?
Se fossi il ministro del lavoro, convocherei le parti per un tentativo di voltar pagina rispetto alla situazione assurda che si è determinata. Farei tutto il possibile per indurre la Fiom a firmare gli accordi aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco, cessando le ostilità e ottenendo così il riconoscimento dei propri rappresentanti in azienda; e per indurre la Fiat a rinunciare al licenziamento collettivo, risolvendo il problema con un contratto di solidarietà, in attesa della congiuntura positiva, che speriamo non si faccia attendere troppo.

L’accordo interconfederale tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil del giugno 2011 ha aumentato il peso della contrattazione aziendale in maniera considerevole. Non pensa che l’insistenza di Fiat nel chiamarsi fuori da questa intesa indichi una volontà di sottrarsi a un quadro di regole comuni e che la decisione di ieri di rispondere con una rottura a una sentenza dello Stato ne sia una conferma?
Se è per questo, anche la Fiom se ne chiama fuori, pur essendo parte della Cgil: altrimenti, dopo l’accordo interconfederale del giugno 2011 avrebbe firmato gli accordi aziendali Fiat, che ne hanno anticipato il contenuto. Quanto alla Fiat, che essa abbia inteso sottrarsi al sistema sindacale interconfederale è evidente. Ma quel sistema non è legge dello Stato. Il nostro ordinamento garantisce il pluralismo sindacale non soltanto sul versante dei lavoratori, ma anche su quello degli imprenditori. E il pluralismo serve perché modelli di relazioni industriali diversi possano confrontarsi e competere tra loro. In modo che i lavoratori e gli imprenditori stessi possano scegliere quello che ritengono produca i risultati migliori. Naturalmente, sempre nel rispetto della legge: su questo non può esserci alcun “pluralismo”.

Come mai un’azienda che si presenta come alfiere della modernizzazione industriale non è in grado di proporsi oggi alla platea dei suoi lavoratori in una logica di condivisione delle scelte? È solo un problema di comunicazione?
Per litigare occorre sempre essere in due. Sia Fiat sia Fiom hanno qualche ragione per accusarsi a vicenda. Ha ragione la Fiom, secondo quanto accertato dal giudice, quando accusa Marchionne di avere discriminato i suoi iscritti nelle assunzioni; ma ha ragione anche Marchionne quando accusa la Fiom di aver fatto la guerra fin dall’inizio – primavera 2010 – contro il suo piano industriale, sulla base di un principio che solo un anno dopo, con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno, la stessa Cgil avrebbe riconosciuto come sbagliato: quello della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale.

Il partito di cui fa parte non ha mai avuto negli ultimi anni una posizione univoca sul caso Fiat. Oggi è possibile trovare una sintesi tra le varie anime dei democratici?
Sarebbe preoccupante che in un grande partito di centrosinistra tutti avessero la stessa posizione su di una vicenda complessa come questa, originata dagli accordi Fiat del 2010. L’unità del partito si deve esprimere nel voto, alle elezioni e negli organi elettivi; non certo nell’appiattimento di tutte le opinioni su quella del segretario. Sta di fatto che, da quarant’anni a questa parte, le mie opinioni non sono “fuori linea”: hanno il solo difetto di essere in anticipo di qualche anno rispetto a quelle del mio partito.

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