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ALITALIA, GATTUSO E LA PARABOLA DEI TALENTI

ABBANDONARE L’IDEA CHE TUTTI DEBBANO ESSERE COPERTI INTEGRALMENTE CONTRO IL RISCHIO DELL’INEFFICIENZA: UN’IDEA CHE DERESPONSABILIZZA LE PERSONE E IMPOVERISCE IL SISTEMA

Articolo di Andrea Ichino pubblicato su il Sole 24 Ore il 6 giugno 2008

Può forse passare inosservato ciò che accomuna le resistenze deI sindacati degli statali alla trattativa sulla riforma del pubblico impiego e il manifesto contro il mercatismo e le globalizzazione del Ministro Tremonti, che ha la sua prima traduzione pratica nella protezione a oltranza dell'”italianità” di Alitalia. Entrambi questi comportamenti proteggono persone e realtà economiche che il mercato non reputa meritevoli di protezione.  Ciò che accomuna queste posizioni ricorda il comportamento del servo pigro nella Parabola dei Talenti (Matteo, 25,14-30).

 

È un testo che tutti conosciamo ma di cui è utile ricordare la sorprendente attualità: il padrone affida i suoi talenti a tre servi dando a ciascuno secondo le sue capacità: di più ai due più intraprendenti e di meno al più pigro; e premia solo i due che si impegnano oltre il minimo indispensabile, rischiando e facendo fruttare i talenti ricevuti, non il servo che si accontenta del minimo nascondendo il tesoro sotto terra. E così, conclude la parabola, “a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.”

 

A molti questa conclusione può sembrare paradossale e perfino ingiusta. Perché è molto sottile la lama di rasoio che separa l’intento nobile di tutelare chi è debole e sfortunato, da quello meno nobile di proteggere rendite parassitarie e privilegi immeritati. Così accade che chi trova ingiusta la parabola dei talenti al tempo stesso condivide l’ennesima denuncia del Governatore della Banca d’Italia che descrive nella sua Relazione un paese in cui i talenti non sono premiati, in cui l’anzianità conta più del merito, in cui i salari non riflettono i differenziali di produttività, in cui i precari vengono stabilizzati senza alcuna valutazione delle loro capacità e dell’impegno da essi profuso, in cui le lettere di referenza non informano sulle qualità di un candidato ma sulla forza dei suoi contatti familiari, in cui i fondi per la ricerca sono allocati in modo clientelare e  indipendente dalla produttività scientifica dei ricercatori. Un paese in cui regole formali pensate per evitare possibili arbitri finiscono per uccidere l’impegno individuale e per giustificare chi fa  il minimo indispensabile invece di premiare chi cerca di andare oltre il minimo.

 

Perché, nonostante queste autorevoli denunce, facciamo poi fatica ad accettare la conclusione della parabola dei talenti?

 

Il contratto sociale che fino a oggi abbiamo scelto riflette l’idea che non ci sia nessun merito nell’aver ricevuto più talenti. Ossia si ispira al presupposto che chi è “più bravo” non lo è in virtù di un maggiore impegno ma perché è stato più fortunato, ad esempio per le condizioni genetiche e ambientali  in cui è nato e cresciuto. Ossia, ciò che siamo non dipende da noi ma dal contesto in cui operiamo. Se questa visione corrispondesse al vero, sarebbe ragionevole assicurarsi contro il rischio di avere “poco talento” chiedendo allo Stato di re-distribuire risorse a chi non ne ha.
Questa visione del mondo, per quanto nobile e rispettabile, si scontra però con il fatto che i risultati dell’operare umano non dipendono solo da fortunate circostanze in cui gli individui non hanno alcun merito. I risultati sono anche il frutto di investimenti costosi e di impegno individuale che vanno compensati altrimenti pochi avrebbero interesse a far di tutto per migliorare i talenti ricevuti. E il merito non sta in questa dote che dipende appunto solo dalla “fortuna”, ma nel farla fruttare, cosa che tutti possono fare indipendentemente da quanto hanno ricevuto, purché siano disposti ad impegnarsi oltre il minimo.

Se non modifichiamo rapidamente il contratto sociale esistente finiremo come il servo pigro della parabola. Il nostro talento, grande o piccolo che sia, non darà frutti, sepolto sotto una comoda coltre di protezioni contro la concorrenza e il rischio che essa comporta. ¼br /> È necessario un cambio di mentalità, non solo da parte del governo, ma in primo luogo da parte di ciascuno di noi. Serve capire che è necessario  correggere il contratto sociale incominciando da ciò che riguarda noi stessi in prima persona. Dobbiamo essere disposti a metterci in discussione, a farci valutare senza temere conseguenze di valutazioni negative che non sono ovviamente piacevoli, ma devono essere lo stimolo a rimboccarsi le maniche e a correggere il tiro. Bisogna smettere di pensare che quando qualcosa va male la responsabilità è prima di tutto degli altri, del contesto, del sistema.

Lo spirito deve essere quello di Gattuso e del suo proverbiale impegno e spirito di squadra: recuperar palloni anche se sono gli altri ad averli persi e anche se non si hanno i piedi buoni. Solo con questa rivoluzione del modo di pensare di ciascuno di noi il nostro Paese può risollevarsi. E sarebbe molto importante che il governo, e il Ministro Tremonti per primo, dessero il buon esempio, ponendo fine alla fallimentare politica di protezione a oltranza di Alitalia.

 

 

andrea.ichino@unibo.it [1]