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LA QUESTIONE DELL’INEFFETTIVITA’ DEL NOSTRO DIRITTO DEL LAVORO

AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE E SCOLLATURA TRA SISTEMA DELLE PROTEZIONI E REALTA’ DEL TESSUTO PRODUTTIVO, NELL’ERA DELLA POLARIZZAZIONE PLANETARIA DELLA FORZA-LAVORO

     Intervento di Pietro Ichino al congresso annuale dell’Associazione Italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale, Modena, 19 aprile 2008. E’ in corso di pubblicazione nel n. 3/2008 della Rivista italiana di diritto del lavoro.

      Abstract – Il contributo muove dalla constatazione della grave scollatura tra ordinamento giuslavoristico statuale e realtà del tessuto produttivo, per sottolineare la necessità di una semplificazione del diritto del lavoro al fine di aumentarne l’effettività. Si osserva come l’ineffettività del diritto del lavoro sia destinata ad aumentare per effetto del fenomeno – di dimensioni planetarie ‑ della polarizzazione della forza-lavoro; e si propone la prospettiva di un diritto del lavoro dedicato a contrastare efficacemente questo fenomeno.


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Sommario: 1. Il diritto del lavoro di fronte alla polarizzazione del tessuto produttivo e all’aumento della disuguaglianza. – 2. La scollatura tra ordinamento statuale e realtà del tessuto produttivo. ‑ 3. La strategia del Governo Prodi contro il diritto del lavoro duale e il suo limite. – 4. Il rischio dell’eccesso della pretesa regolatoria: la nuova disciplina del recesso del lavoratore. – 5. Segue. L’ineffettività della disciplina inderogabile del mercato endo-aziendale dell’elasticità o flessibilità del tempo di lavoro. ‑ 6. Necessità di semplificazione del diritto del lavoro al fine di aumentarne l’effettività. Il requisito della “copertura conoscitiva” delle riforme legislative. – 7. La prospettiva di un diritto del lavoro dedicato a contrastare efficacemente la polarizzazione della forza-lavoro.

  

            1. In un importante seminario internazionale svoltosi due anni or sono a Bordeaux (1) è stata ipotizzata da più parti una correlazione diretta tra intensità della protezione perseguita dai diversi ordinamenti mediante la tecnica della norma inderogabile e fenomeni di elusione o evasione dal vincolo. È questo un tema che riguarda da vicino noi giuslavoristi italiani, vestali di un ordinamento che si caratterizza, da un lato, per una regolazione inderogabile incisiva e molto estesa dei rapporti di lavoro, dall’altro per l’ampiezza dell’area coperta dalle esenzioni previste dalla stessa, ma anche per il tasso molto elevato di sua disapplicazione illecita.

            Vedo un nesso tra questo tema e quello di un recente saggio (2) nel quale tre economisti americani studiano un fenomeno di portata globale e di rilievo probabilmente epocale per la nostra materia: la progressiva riduzione della fascia media della forza lavoro e, al tempo stesso, l’aumento progressivo delle dimensioni della fascia alta e della fascia bassa. Gli autori imputano questo fenomeno principalmente all’avvento dell’informatica, della telematica e dell’automazione, che riducono drasticamente la necessità delle mansioni svolte un tempo dagli impiegati di livello medio-basso e dagli operai di livello medio-alto; aumentano le opportunità per i knowledge workers e per tutti coloro che imparano a dominare le nuove tecnologie, mentre al polo opposto resta soltanto la domanda di manodopera per i servizi alla persona e per mansioni labour intensive a bassa produttività, dove la concorrenza della forza-lavoro dei Paesi emergenti ha un effetto depressivo sugli standard di trattamento.

Quale che ne sia la spiegazione, la polarizzazione del mercato del lavoro e l’aumento delle disuguaglianze tra i più forti e i più deboli ci vengono presentate – non soltanto in questo saggio ‑ come fenomeni di dimensioni planetarie. Con fenomeni di tale portata noi giuslavoristi non possiamo non confrontarci con molta attenzione, poiché essi cambiano profondamente il contesto in cui il diritto del lavoro si applica. E presumibilmente, in qualche misura, incidono anche sull’effettività della nostra branca dell’ordinamento, svuotando di fatto il significato pratico della regola generale dell’inderogabilità che lo caratterizza. Lo svuotano là dove la regola si applica a forza-lavoro ad alta professionalità, perché qui i trattamenti tendono a collocarsi spontaneamente al di sopra di uno standard inderogabile attestato su valori medi (e comunque il potere negoziale effettivo del lavoratore rende per molti aspetti superflua – se non addirittura inopportuna – la disciplina inderogabile). Ma lo svuotano anche là dove esso si applica a forza-lavoro a bassa professionalità, perché qui il punto di equilibrio spontaneo tra domanda e offerta tende diffusamente a collocarsi nettamente al di sotto dello standard inderogabile, generando fenomeni ben noti di “fuga dal diritto del lavoro”, quali il lavoro nero e l’abuso dei contratti di collaborazione autonoma.

 

            2. Il nostro diritto del lavoro nella sua interezza, quello che comprende la tutela forte contro i licenziamenti e le garanzie dell’attività sindacale in azienda, si applica soltanto a nove milioni e mezzo di lavoratori italiani (circa tre milioni e mezzo di dipendenti di enti pubblici, per il resto dipendenti di unità produttive sopra la soglia dei 15). Poco meno di altri nove milioni ne sono esclusi: in questa metà poco o per nulla protetta della nostra forza-lavoro non stanno solo i tre milioni e oltre di dipendenti di aziende sotto la soglia, cui un diritto del lavoro in versione ridotta pur sempre si applica: qui ci sono anche un paio di milioni di dipendenti a vario titolo precari (per lo più in virtù di evidenti simulazioni fraudolente: co.co.co. nel settore pubblico, in quello privato “lavoratori a progetto” senza progetto, false partite iva, lavoratori “in partecipazione” che non è chiaro a che cosa partecipino, ecc.) e almeno tre milioni e mezzo di lavoratori totalmente irregolari.

            A questo dualismo del nostro mercato del lavoro e del nostro tessuto produttivo ci siamo ormai abituati. A parole lo condanniamo; nei fatti, però, sostanzialmente lo tolleriamo. Tolleriamo il lavoro nero di massa gestito e dalla criminalità organizzata nel Mezzogiorno (3), dove pure basterebbe incrociare i consumi di energia elettrica con i dati Inps o quelli fiscali per individuare senza fatica gran parte delle aziende irregolari (ma la prospettiva di un’operazione di questo genere ci spaventa, perché temiamo che causi la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro). Tolleriamo, però, anche il mercato delle braccia extracomunitarie alle prime luci dell’alba in una grande piazza di Milano e la loro destinazione, a migliaia ogni giorno, ai cantieri edilizi del centro-città, o a quelli dell’Alta Velocità sulla Torino-Trieste, o all’Ortomercato (4); tolleriamo la grande impresa del Nord dove centinaia di redattori e correttori di bozze “a progetto”, o costretti a dotarsi di “partita iva”, svolgono per anni le stesse mansioni degli impiegati regolari, lavorando con loro gomito a gomito, senza alcuna tutela. Situazioni del genere di queste ultime sono sostanzialmente accettate anche dal sindacato dei regolari, che respinge l’iscrizione dei lavoratori “atipici”: li dirotta ad apposite strutture create per la rappresentanza delle “nuove identità lavorative”, quali il Nidil, l’Alai o il Cpo, che rispecchiano nel sindacato il regime di apartheid vigente nel tessuto produttivo. Sono milioni i rapporti di lavoro per i quali non soltanto i singoli interessati, ma anche le organizzazioni sindacali e – a ben vedere ‑ la collettività intera rinunciano all’inderogabilità della disciplina generale: essa è di fatto ignorata, non si applica.

            Si dirà che tutti questi lavoratori possono ottenere agevolmente l’applicazione della norma inderogabile ex post, ricorrendo al giudice dopo la conclusione del rapporto. Ma i meccanismi del mercato reale prevalgono su quelli predisposti dall’ordinamento statuale, inducendo gli interessati a rinunciare di fatto alla protezione statuale per non caricarsi di uno stigma negativo che, a torto o a ragione, ritengono possa altrimenti pregiudicare le loro possibilità effettive future di lavoro.

            Non sono soltanto i meccanismi del mercato a dissuadere dal far valere ex post l’inderogabilità della norma in sede giudiziale: contribuisce in molti casi a produrre questo effetto anche un senso morale diffuso che induce il lavoratore a considerare come un’azione riprovevole l’impugnazione del contratto originariamente stipulato con il datore, produttiva di gravi sanzioni a suo carico (sono in molti a pensare: “ho pattuito consapevolmente questa forma di rapporto e sono una persona per bene, che non si rimangia la parola data”). Anche nell’opinione comune, soprattutto nel settore della piccola impresa e degli studi professionali, il comportamento del lavoratore che al termine di una collaborazione autonoma ne denuncia la natura subordinata per beneficiare dei maggiori contributi, della tredicesima e del t.f.r., è prevalentemente considerato come una cattiva azione. Non mi riferisco qui – beninteso – alla cultura mafiosa che preferisce all’ordinamento statuale l’ordinamento imposto dalle cosche, ma a una cultura corrente tra la gente onesta, nei ceti produttivi che costituiscono il nerbo del nostro sistema economico.

Altrettanto può dirsi in riferimento alla possibilità che è data di fatto a tutti i dipendenti di astenersi dal lavoro “per malattia”, reiteratamente o per lunghi periodi, senza alcun controllo attendibile; o in riferimento allo sterminato catalogo dei permessi e aspettative (per donazione di sangue, assistenza a parenti disabili, frequenza a corsi di formazione, partecipazione a iniziative sindacali, campagna elettorale personale, ecc.) di cui la legge attribuisce il diritto ai lavoratori dipendenti: nel settore privato – a differenza del settore pubblico, dove la distinzione tra dipendente buono e cattivo non ha corso – l’avvalersi largamente di queste facoltà di sospensione della prestazione senza il consenso della direzione aziendale è considerato una scorrettezza, un comportamento sleale; e non soltanto dal padroncino avaro o dal direttore del personale arcigno, ma anche dal datore di lavoro più corretto e interessato al benessere dei propri dipendenti. Di più: è considerato un comportamento scorretto e sleale anche dalla maggior parte dei colleghi nel luogo di lavoro. Non va forse cercato anche qui il motivo di quella maggioranza di voti di lavoratori dipendenti che, secondo le analisi di questi giorni, si sono indirizzati verso le forze politiche più critiche nei confronti dell’assetto attuale del nostro diritto del lavoro e del movimento sindacale?

Più in generale, dobbiamo chiederci: che futuro può avere un diritto del lavoro di cui tanta parte è percepita dall’opinione pubblica come protettiva di comportamenti opportunistici e sleali? Un ordinamento statuale moderno deve sempre fondarsi su di una larga coincidenza tra diritto e cultura morale diffusa nel Paese. Quando tra l’uno e l’altra si determina una scollatura di queste dimensioni, non ci si può esimere da una riflessione critica approfondita sulla necessaria riconciliazione tra i due mondi del “dover essere”.

 

            3. Certo, nel fenomeno dell’apartheid tra lavoro regolare e lavori “tipici” rientrano anche situazioni dove l’ingiustizia a danno del lavoratore debole è evidente e contro le quali è diffusa la protesta, sul piano politico-sindacale come su quello morale. Di queste situazioni, a torto o a ragione, ha assunto valore emblematico negli ultimi anni il caso dei “nuovi proletari a progetto” dei call center.

Proprio in riferimento a questo caso il ministro del lavoro Damiano è intervenuto con la circolare n. 16/2006, poi allargando la portata dell’intervento alla generalità dei casi analoghi con la circolare n. 4/2008, per dare un giro di vite contro gli abusi del contratto di lavoro a progetto e indicare agli ispettori una serie di fattispecie di abuso tipiche, sulle quali concentrare l’attenzione. Ma, se si escludono poche aziende interessate da iniziative ispettive, nella maggior parte dei casi gli imprenditori e i lavoratori interessati non se ne sono dati per intesi e hanno perseverato imperterriti nelle loro vistose simulazioni. Ora essi sono confortati in questo loro comportamento da alcuni primi segnali provenienti da qualche esponente della nuova maggioranza politica; ma se anche il cambio di maggioranza non si fosse verificato, vi sarebbe stato motivo di dubitare che la campagna avviata dal ministro Damiano avrebbe potuto essere portata alle conseguenze volute: anche nel campo delle collaborazioni autonome continuative si sarebbe riproposto il problema che si pone al Sud per il lavoro nero, cioè quello di una domanda di lavoro elastica, che si riduce drasticamente al crescere del costo del lavoro stesso, causato dall’applicazione rigorosa dello standard inderogabile.

            Un’inversione di rotta rispetto al rigore praticato nella XV legislatura è prevedibile anche nel settore pubblico, dove le misure adottate con la legge finanziaria 2008 (n. 244/2007) hanno drasticamente vietato il rinnovo dei contratti di collaborazione autonoma continuativa; ma i lavoratori attualmente in servizio in questa forma – molte centinaia di migliaia ‑ non potranno certamente essere immessi in ruolo se non in minima parte (5). Si tornerà dunque ad aprire i rubinetti degli ingaggi sotto-standard?

            Salva la verifica di quest’ultima previsione, tutti quelli sopra menzionati sono casi nei quali il collocarsi dentro o fuori dell’area nella quale la norma inderogabile viene effettivamente applicata dipende da una scelta delle parti effettivamente libera: la paura che, in questa fascia bassa, il tessuto produttivo non regga lo standard inderogabile, che quindi la sua imposizione rigorosa distrugga posti di lavoro, paralizza di fatto l’apparato sanzionatorio. Accade così che in tutti questi casi – e sono milioni – lo standard diventi derogabile. E le dimensioni del fenomeno sono tali da mettere in dubbio la stessa ragion d’essere complessiva del nostro ordinamento del lavoro.

 

            4. Quando l’area di evasione o elusione della disciplina vigente è così vasta, il policy maker che si proponga di ridurla drasticamente si trova a dover fare ricorso ad asprezze normative e sanzionatorie che colpiscono non soltanto chi evade o elude, ma anche chi rispetta rigorosamente la legge; col risultato di rischiare di essere travolto dall’impopolarità che ne deriva. Può essere letta in questa chiave la vicenda politica della lotta assai efficace condotta dal Governo Prodi con Vincenzo Visco contro l’evasione fiscale, anche con misure che sono state vissute da molti contribuenti onesti come vessatorie. Il cammino che può condurre al necessario recupero di effettività, ovvero a un serio aumento del “tasso di legalità”, nel nostro come in altri settori, si svolge lungo un crinale molto stretto fra due precipizi: a sinistra l’errore di un eccesso regolatorio e sanzionatorio impopolare e velleitario, a destra l’errore opposto della condiscendenza nei confronti dell’evasione.

Vedo il rischio di quest’ultimo errore nel progetto della nuova maggioranza di detassare il lavoro straordinario, finalizzato a far emergere il lavoro straordinario irregolare: con l’effetto probabile di consentire che molti aumenti retributivi ad personam vengano d’ora in poi erogati mediante una simulazione di lavoro straordinario.

Vedo invece il rischio dell’eccesso regolatorio nella misura ultimamente adottata dal Governo Prodi contro una frode effettivamente molto diffusa: quella consistente nel far firmare al lavoratore, al momento dell’assunzione, un atto di dimissioni con la data in bianco; consistente cioè in una sorta di patto individuale derogatorio della disciplina limitativa del licenziamento. Al fine di impedire questa frode la legge 17 ottobre 2007 n. 188 impone, nella generalità dei rapporti, un aggravio davvero assai rilevante del costo di transazione relativo al recesso del lavoratore: l’atto delle dimissioni, che fino a ieri poteva essere compiuto in modo semplicissimo, addirittura in forma orale, o persino in forma tacita, ora richiede adempimenti complicati per i quali è necessaria la consulenza dell’esperto (6) (salvo che si aggirino agevolmente i nuovi vincoli formali col far firmare al lavoratore, invece che un atto di dimissioni, un atto di risoluzione consensuale del rapporto). Certo, con questo provvedimento legislativo si è sventato il pericolo di qualche decina di migliaia di lettere di dimissioni in bianco firmate in passato e oggi nascoste nei cassetti dei datori di lavoro; ma è facilmente prevedibile che la disposizione resti nel prossimo futuro largamente disapplicata, poiché in molti casi – soprattutto nelle aziende di minime dimensioni e nel lavoro domestico ‑ la fiducia tra le parti le indurrà a evitare i complicati adempimenti formali al momento dello scioglimento del rapporto per iniziativa del prestatore: questi continuerà a dimettersi firmando due righe su di un foglio di carta qualsiasi, o neppure quelle; e se poi, a distanza di mesi o anni, le dimissioni verranno impugnate, il giudice dovrà ricorrere a qualche acrobazia per evitare l’assurda ricostituzione del rapporto di lavoro. Il risultato di prevenzione della frode sarà stato perseguito al prezzo di una perdita ulteriore di effettività della legge scritta, di uno scollamento ulteriore dell’ordinamento rispetto alla cultura del lavoro diffusa e alla prassi dei traffici.

Osservo in proposito che, nella mia ultratrentennale esperienza professionale, tutte le volte in cui mi sono trovato a difendere un lavoratore contro il datore di lavoro che gli aveva fatto sottoscrivere le dimissioni in bianco, ho sempre trovato molto facile risolvere il problema deferendo, o minacciando di deferire, alla controparte il giuramento decisorio sulle circostanze effettive della sottoscrizione: nessun imprenditore o dirigente è disposto, per vincere una causa di lavoro, a rischiare una condanna per falso giuramento in giudizio (condanna altrimenti assai probabile, poiché nel procedimento penale, promosso dal lavoratore vittima della frode, questi verrà sentito come testimone; e con lui anche eventuali altri colleghi sottoposti a trattamento analogo). Donde la conclusione che l’effettività della disciplina inderogabile del licenziamento avrebbe potuto essere difesa, assai meglio che con un intervento legislativo “pesante” quale quello operato con la legge n. 188/2007, con un intervento governativo volto a informare i lavoratori e i sindacalisti circa la facile contromisura processuale idonea a sventare la frode, così al tempo stesso dissuadendo i datori di lavoro dalla prassi illecita.

In quest’ultimo intervento legislativo si manifesta quello che mi appare come un difetto di fondo proprio di gran parte del nostro diritto del lavoro: la sproporzione tra il condizionamento negativo imposto al sistema nel suo complesso e le dimensioni dello squilibrio marginale che con quel condizionamento si intende correggere. Un diritto del lavoro moderno non può prescindere dalla valutazione comparativa dei costi e dei benefici conseguenti alle protezioni: dalla valutazione, cioè, da un lato dell’entità delle distorsioni prodotte dalle protezioni stesse, dall’altro dell’entità del pericolo sociale che si vuole prevenire.

Certo, nel nostro Paese il bilanciamento tra costi e benefici è reso più difficile che altrove dalla profonda diversità delle caratteristiche del tessuto produttivo meridionale rispetto a quello centro-settentrionale. Ma la maggiore difficoltà nulla toglie alla necessità di quel bilanciamento.

 

            5. Un altro settore della nostra branca del diritto dove si osserva un forte contrasto fra la pretesa regolatoria e le modalità di svolgimento effettivo dei rapporti è quello del mercato endo-aziendale del tempo di lavoro: i limiti legislativi e quelli collettivi in materia di elasticità e flessibilità del tempo di lavoro vengono molto diffusamente trasgrediti; anzi, più precisamente, ignorati. Il fatto è che nella stragrande maggior parte dei casi la violazione non nasce dall’imposizione della variabilità del tempo della prestazione, da parte dell’imprenditore, a dipendenti succubi del suo potere: accade invece che il primo chieda, secondo le necessità contingenti, e i secondi rispondano secondo le proprie effettive disponibilità personali, per lo più accogliendo la richiesta, ma sovente anche defilandosi rispetto ad essa.

In altre parole, il mercato endo-aziendale del tempo di lavoro funziona, complessivamente, abbastanza bene, consentendo un buon incontro fra domanda e offerta di elasticità o flessibilità dell’estensione o della collocazione temporale della prestazione; funziona, però, anche nell’area del lavoro regolare, per larga parte ignorando del tutto la disciplina inderogabile, vuoi con il superamento del limite massimo stabilito per il lavoro straordinario, vuoi con l’attivazione di forme non consentite di variabilità del tempo di lavoro nel part-time. Un orientamento recente della giurisprudenza penale si propone di porre un argine alla trasgressione diffusa sanzionando il comportamento datoriale come “estorsione ambientale” (7), ovvero come comportamento volto a ottenere una pattuizione indebita mediante una “minaccia implicita”; ma davvero si può pensare di risolvere il problema dell’ineffettività diffusa del nostro diritto del lavoro mediante il ricorso – destinato comunque a produrre soltanto effetti casuali e isolati ‑ alla sanzione penale? Abbiamo dimenticato la lezione di Cesare Beccaria (8), secondo cui la sanzione penale funziona bene soltanto in un sistema nel quale – all’opposto di quanto accade oggi da noi ‑ la violazione è fenomeno marginale, l’entità della sanzione è moderata e la probabilità per il trasgressore di incorrervi è elevata?

            In materia di elasticità e flessibilità del tempo di lavoro la casistica giurisprudenziale è, quantitativamente, assai esigua perché il contenzioso individuale è effettivamente molto scarso; ma questo non perché la violazione della normativa inderogabile sia fenomeno marginale: al contrario, come si è detto, essa è molto diffusa. In passato si erano registrati i tentativi di alcune organizzazioni sindacali di difendere l’effettività delle disposizioni in materia di lavoro straordinario attivando il procedimento ex art. 28 St. lav. contro le imprese che superavano i limiti pattuiti in sede collettiva; ma è prevalso l’orientamento giurisprudenziale contrario alla qualificabilità dell’eccesso di straordinario come condotta antisindacale. E oggi gli stessi sindacalisti sanno bene quanto, in questa materia, l’intervento del sindacato sia sovente impopolare, proprio perché esso tende a sovrapporre un interesse collettivo astratto a interessi individuali concreti, diversi da caso a caso, che in realtà non trovano eccessive difficoltà a esprimersi nella negoziazione tra i singoli lavoratori e i loro preposti (in proposito, è prevedibile che la divergenza tra interessi individuali e intervento sindacale limitatore tenderà ad aggravarsi se verrà attuata la detassazione del lavoro straordinario indicata nel programma elettorale della nuova maggioranza).

 

6. – Fattori rilevanti di ineffettività del nostro ordinamento giuslavoristico sono anche la sua complicatezza e il mutare continuo delle normative inderogabili, dettate sovente in riferimento ad aspetti molto particolari del rapporto. La disciplina legislativa delle clausole elastiche nei rapporti di lavoro a tempo parziale, per esempio, è mutata tre volte nel solo arco dell’ultimo decennio; difficile tener dietro anche a quella relativa al passaggio dal full time al part-time o viceversa, o ai permessi per i motivi più svariati; è giusto costringere datore e prestatore di lavoro a ricorrere al consulente per conoscere gli ultimi sviluppi della disciplina legislativa, quando – come per lo più accade ‑ l’incontro tra i rispettivi interessi in queste materie viene raggiunto agevolmente in azienda a costo zero? Riteniamo davvero che nella maggior parte dei casi quelle intese individuali siano ancora oggi la foglia di fico che nasconde la dittatura del padrone sull’operaio, come nel tessuto monopsonistico originario cui si riferiva Carlo Marx un secolo e mezzo fa?

Una normativa che ha la pretesa di disciplinare inderogabilmente decine di milioni di rapporti necessita in primo luogo di essere agevolmente conoscibile da decine di milioni di persone. Lungi dal soddisfare questo requisito, oggi la nostra legislazione lavoristica è difficilmente conoscibile persino dagli esperti della materia. Confesso che io stesso, pur insegnando il diritto del lavoro e praticandolo nelle aule giudiziali da molti anni, mi scopro sovente a ignorare l’esistenza di una norma, anche riferita a un aspetto non secondario della materia, magari nascosta in uno degli innumerevoli commi di un articolo dell’ultima legge finanziaria. Il recupero dell’effettività del nostro diritto del lavoro passa anche attraverso una sua grande semplificazione e stabilizzazione.

Ogni riforma legislativa dovrebbe, poi, essere accompagnata da una vasta e capillare campagna di informazione, affidata al ministero del Lavoro, volta a far percepire immediatamente il contenuto delle nuove norme dalle centinaia di migliaia o milioni di soggetti interessati, senza che, almeno in prima battuta, occorra la mediazione dei consulenti. In altre parole, il legislatore non dovrebbe soltanto essere vincolato alla copertura finanziaria dei propri provvedimenti, nonché alla “copertura amministrativa” per quelli che richiedono una rilevante attività degli apparati in fase di applicazione: dovrebbe essere vincolato anche a una sorta di “copertura conoscitiva” o “divulgativa”, consistente in un’intensa attività di diffusione mediatica dei contenuti della nuova disciplina. Un vincolo di questo genere contribuirebbe forse ad arginare quella proliferazione di norme a getto continuo, che ha indotto qualcuno a proporre, per la pubblicazione delle nostre leggi in materia di lavoro, l’uso di tabelloni a caratteri rotanti, come quelli che negli aeroporti indicano gli aerei in arrivo e in partenza.

Quest’ultima considerazione mi induce anche a diffidare della prospettiva di una regionalizzazione della disciplina legislativa del lavoro: il giorno in cui la proliferazione delle norme si dividesse in venti piccoli rivoli regionali, la conoscibilità del diritto del lavoro da parte di milioni di datori e prestatori di lavoro si ridurrebbe ulteriormente in modo rovinoso. Certo, aumenterebbe corrispondentemente la domanda di consulenza e si amplierebbe il business dell’editoria nel nostro settore; ma il tasso di effettività del sistema rischierebbe il tracollo definitivo.

 

7. Mi sono proposto di mettere in rilievo diversi aspetti, maggiori e minori, dell’ineffettività del nostro ordinamento giuslavoristico nel suo complesso o di singole sue parti, per sottolineare l’urgenza di una riflessione critica approfondita da parte nostra su di un rischio: quello che il nostro diritto del lavoro perda sempre più largamente il contatto con il tessuto produttivo reale e con la cultura del lavoro diffusa, veda ridursi di fatto il proprio campo di applicazione a un’area sempre meno rilevante rispetto alle questioni cruciali.

La missione essenziale delle nuove politiche del lavoro non può che essere quella di garantire il massimo possibile di eguaglianza di opportunità a tutti i cittadini, in un tessuto produttivo trasparente e ricco in quantità e qualità delle opportunità stesse. Oggi, se è vero quanto ci indicano gli studi economici circa la tendenza planetaria alla polarizzazione della forza-lavoro e all’aumento delle disuguaglianze tra la parte superiore e quella inferiore della forza-lavoro, l’impegno a garantire pari opportunità comporta di focalizzare l’attenzione sulla parte inferiore.

Questo può forse comportare che nella parte superiore – i cui confini ben potrebbero essere definiti in riferimento all’entità della retribuzione ‑ si riduca il ruolo della norma inderogabile, consentendo una maggiore assimilazione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.

Quanto alla parte inferiore, quella del lavoro suscettibile di produrre soltanto reddito basso, gli standard di trattamento inderogabili dovranno essere determinati prestando grande attenzione alla loro compatibilità con le condizioni reali del tessuto produttivo, nella consapevolezza che gli standard stessi sono utili soltanto per correggere le disfunzioni del mercato, ma non hanno e non avranno mai la virtù di aumentare la produttività del lavoro, quindi il livello medio di reddito della categoria. Questo compito – oltre che alle politiche di redistribuzione mediante lo strumento fiscale ‑ può essere credibilmente affidato soltanto a politiche centrate sull’offerta a chi è più debole di un sovrappiù di servizi efficaci di informazione e orientamento professionale, di formazione permanente strettamente mirata agli sbocchi occupazionali reali e di assistenza alla mobilità, che costituisce un potentissimo antidoto contro i rischi cui è esposto il lavoratore meno dotato.

L’esperienza dell’ultimo mezzo secolo insegna che la tecnica della norma inderogabile, se utilizzata in modo parco e sorvegliato, può produrre risultati positivi nello svolgimento del rapporto di lavoro regolare; ma nel mercato del lavoro può talora produrre effetti diametralmente opposti rispetto all’obiettivo dell’uguaglianza di opportunità per i più deboli. Il solo modo in cui questi ultimi possono essere rafforzati consiste nell’offrire loro in maggior misura servizi di alta qualità, per aumentare, con la loro possibilità di scelta, il loro potere negoziale reale.


(1) A. Monteiro Fernandes, L’effettività nel diritto del lavoro: il caso portoghese, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2006, I, pp. 7-19; M. Weiss, L’effettività del diritto del lavoro: alcune riflessioni sull’esperienza tedesca, ivi, pp. 141-163. La mia relazione, Does Labour Law actually produce Equality among Workers?, oltre che negli atti del seminario (Bordeaux, Comptrasec, 2006), è pubblicata nella rivista britannica “Managerial Law”, 2006, pp. 258-274.

(2) D. Autor, L.F. Katz, M.S. Kearney, The Polarization of Labour Market in the U.S., NBER working papers n. 11986, in corso di traduzione per la pubblicazione nel prossimo fasc. della “Rivista italiana di diritto del lavoro”.

(3) V. in proposito R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, 2006.

(4) V. in proposito P. Berizzi, Morte a 3 euro. Nuovi schiavi nell’Italia del lavoro, Milano, 2008 (e la sua recensione in corso di pubblicazione in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2008, III, fasc. 3): un testo che, insieme a quello citato nella nota precedente, potrebbe essere opportunamente adottato come lettura integrativa obbligatoria per l’esame di diritto del lavoro, per far percepire ai nostri studenti la realtà dell’“altro” diritto del lavoro vivente nel nostro Paese. Qualche giorno dopo l’uscita del libro – guarda caso ‑ una retata della polizia ha “scoperto” centinaia di lavoratori totalmente irregolari all’Ortomercato di Milano. Quale ordinamento è mai il nostro, che “si accorge” di un fenomeno di queste proporzioni e visibilità soltanto perché un bravo giornalista ne fa oggetto di un’inchiesta (salvo poi lasciare che, calmatesi le acque, il fenomeno stesso torni a manifestarsi nell’identico modo quotidiano e “strutturale” fino al prossimo scandalo mediatico)?

(5) V. in proposito l’orientamento fortemente restrittivo espresso nella circolare 18 aprile 2008, n. 5 del ministro della Funzione pubblica.

(6) V. in proposito il commento di G. Trioni, i nuovi vincoli in materia di dimissioni, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2008, I, pp. 228-248.

(7) Cass. pen., sez. II, 21 settembre 2007 n. 36642, in “Rivista italiana di diritto del lavoro”, 2008, II, 359, con nota di R. Casillo, Condizione di subordinazione, libertà contrattuale ed “estorsione ambientale”, nella cui massima si legge che “un accordo negoziale tra datore di lavoro e dipendente nel senso che quest’ultimo accetta di svolgere la prestazione a condizioni retributive e normative contrarie alla legge e ai contratti collettivi non esclude, di per sé, la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo può essere usato per scopi diversi da quelli per i quali è stato apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia ingiusta”.

(8) Dei delitti e delle pene, 1764.