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LINKIESTA: PERCHÉ È SBAGLIATO PROROGARE INDISCRIMINATAMENTE LA CASSA INTEGRAZIONE IN DEROGA

L’IDEA STESSA DELLA “DEROGA” CONTRADDICE LA FUNZIONE CHE DOVREBBE AVERE QUALSIASI FORMA DI SICUREZZA SOCIALE – IN QUESTO CASO L’INTEGRAZIONE SALARIALE PRODUCE EFFETTI PARTICOLARMENTE NEGATIVI PERCHÉ VIENE EROGATA SENZA CRITERI E SENZA CONDIZIONI 

Intervista a cura di Lidia Baratta pubblicata su Linkiesta.it [1] il 6 maggio 2013 – In argomento v. anche l’intervista dello stesso giorno a Digital-Workshop

Professor Ichino, in questi primi giorni del nuovo governo, la riduzione del costo del lavoro è stata indicata come uno dei provvedimenti più urgenti. È il costo del lavoro che impedisce la crescita occupazionale nel nostro Paese?
Il costo del lavoro è uno degli elementi del diaframma che tiene lontane tra loro domanda e offerta di lavoro. A questo vanno aggiunti gli ostacoli burocratici e l’enorme complessità delle norme in vigore, oltre all’assenza di una rete capillare di servizi efficienti nel mercato del lavoro, sempre più personalizzati, sempre meno indirizzati ad aggregati indistinti.

Perché il lavoro costa così tanto in Italia?

Il primo motivo sono i sistemi di assicurazione che accompagnano il rapporto di lavoro, che sono come un sistema idraulico con molte falle, in cui l’acqua si perde in mille rivoli. Un esempio su tutti è la cassa integrazione per la quale impieghiamo tanti soldi spesi malissimo. Si deve capire che un lavoratore in cassa integrazione da sette anni è un enorme spreco, sia per quel che costa il sostegno del suo reddito, sia per i sette anni durante i quali lo si è tenuto fuori dal tessuto produttivo regolare. Poi ci sono i costi del sistema pensionistico con, ad esempio, degli eccessi evidenti nel riconoscimento delle pensioni di invalidità. O anche i trattamenti di disoccupazione erogati senza condizionalità, cioè senza che siano accompagnati da effettiva disponibilità al lavoro da parte del lavoratore. Spendiamo soldi in grande quantità col risultato di disincentivare la ricerca del lavoro: è il contrario di quello che dovrebbe fare una politica attiva per il lavoro. Tutte queste falle determinano un maggior costo del lavoro. Basti pensare che il contributo pensionistico in Italia è al 33%, mentre in Germania è al 25 per cento. O che il contributo per la cassa integrazione è al 3%, ma potrebbe essere ridotto allo 0,5 per cento. Si deve intervenire presto per ridurre drasticamente il cuneo fiscale, anche a costo di ridurre in un primo tempo alcune prestazioni assicurative: torneranno a crescere quando avremo bonificato il sistema.

Ecco, la cassa integrazione è un’altra delle emergenze che il governo Letta dovrà affrontare. Servono 1,5 miliardi per la copertura della cassa in deroga per 700mila lavoratori. Perché siamo arrivati a una tale emergenza? Cosa c’è di sbagliato in questo meccanismo?
La cassa integrazione, in generale, non è lo strumento giusto per affrontare le crisi occupazionali. Quando viene utilizzata per nascondere una situazione effettiva di disoccupazione, costituisce un forte incentivo a starsene con le mani in mano, oltre che un incentivo al lavoro nero, che è precario per definizione. La cassa dovrebbe essere usata solo quando c’è una ragionevole prospettiva che il lavoratore riprenda a lavorare nell’azienda. La cassa in deroga, poi, che è quella per cui oggi manca la copertura finanziaria, è tutta sbagliata. La sola idea che una forma di previdenza funzioni in deroga rispetto alle leggi vigenti implica la non prevedibilità dei trattamenti; il che contraddice l’essenza stessa della previdenza. Il godimento di questo sostegno del reddito dipende dalla discrezionalità assoluta dell’assessore al Lavoro regionale. Dunque non genera sicurezza. Un rapporto assicurativo gestito in deroga alle norme è un rapporto senza regole. Di fatto è pura distribuzione di denaro a pioggia. Un conto è attivarla in una situazione di emergenza grave, come un terremoto o una forte crisi imprevista; ma ormai sono quattro anni che stiamo utilizzando questo strumento.

La legge Fornero nelle intenzioni ha provato a migliorare il mercato del lavoro. Ma i numeri sulla disoccupazione dicono tutt’altro. Di quali modifiche ha bisogno la legge sul lavoro Fornero?
La legge Fornero ha alcuni difetti tecnici nelle norme di contrasto al precariato, che vanno corretti. Ma la sostanza di queste norme va conservata: occorre completare il disegno con quello che nella legge Fornero manca. In Italia ci sono centinaia di migliaia di lavoratori in posizione di sostanziale dipendenza ma con contratti di collaborazione autonoma continuativa. Contratti che con la legge Fornero non possono essere rinnovati. Nella maggior parte dei casi le imprese non hanno alcuna intenzione di trasformare queste collaborazioni in contratti di lavoro dipendente regolare perché questa trasformazione avrebbe produrrebbe per l’impresa uno choc di costi e di rigidità. La soluzione è delineare una forma di contratto di lavoro dipendente meno costoso, con minori oneri fiscali e retributivi, e meno rigido, che possa quindi assorbire centinaia di migliaia di posizioni fin qui gestite in forma di collaborazione autonoma senza perderne due terzi per strada. Non si può risolvere il problema tornando indietro, riproponendo il sistema del mercato del lavoro duale, l’apartheid fra protetti e non protetti. Ci sono poi una serie di complicazioni normative nella legge che vanno modificate, come quelle che riguardano le dimissioni in bianco.

Anche l’apprendistato, che avrebbe dovuto essere il contratto per eccellenza nel mercato del lavoro, stenta a decollare…
Già il fatto che l’apprendistato sia un tipo contrattuale che richiede un consulente per essere praticato è come l’imposizione di una tassa di 100 o 200 euro sull’assunzione del giovane lavoratore: il costo del consulente. È una disciplina troppo complicata, astrusa: per questo motivo l’apprendistato non decolla. In più, occorre semplificare il sistema delle sanzioni previste per le irregolarità nella formazione impartita, che danno luogo a una eccessiva incertezza circa l’esito delle controversie giudiziarie. È una materia che va ampiamente degiuridificata.

Lei dice che in Italia ci sono posti di lavoro che però non si vedono. Giacimenti occupazionali inutilizzati che basterebbero a dare lavoro a tutti. Com’è possibile?
Decine di migliaia di posti di lavoro in ogni regione restano scoperti per mancanza di manodopera dotata delle qualifiche necessarie, in tutti i settori. Sono quelli che si chiamano skill shortages. I servizi di collocamento dovrebbero attivare iniziative di formazione mirate a soddisfare questa domanda di manodopera. È quello che dovrebbero fare i centri per l’impiego, ma non lo sanno fare. Non serve metterci altri soldi: perché sarebbe come mettere acqua in un secchio bucato. Occorre che i soldi vengano usati attivando i servizi che funzionano, i buoni servizi di mediazione tra domanda e offerta di lavoro offerti dalle imprese che ne hanno la capacità. Ad esempio, con un sistema di voucher e un sistema di accreditamento delle imprese più efficienti, con una remunerazione commisurata alla qualità e difficoltà del servizio reso. In Olanda, ad esempio, si applicano quattro classi di collocabilità dei lavoratori, con tariffa a carico del sistema pubblico differenziata: perché un conto è ricollocare il 50enne fermo da un anno, un altro conto collocare un 23enne appena laureato con 110 e lode. Il lavoratore ha un voucher di entità che varia a seconda della sua classificazione sul piano del grado di collocabilità. Alle agenzie viene pagato uno importo fisso per le prime attività di screening e di orientamento, ma ricevono anche una remunerazione aggiuntiva in base al numero dei successfull placings. Molti dicono che questo in Italia non si può fare perché costa molto. Costa molto di più mantenere centinaia di migliaia di persone in cassa integrazione per anni. I soldi ci sono, ma vanno spesi meglio.

Scelta Civica, il partito di cui fa parte, ha proposto un nuovo disegno di legge sul lavoro. Cosa prevede?
Il disegno di legge 555 [2] prevede che l’impresa che licenzia sia esentata dal controllo giudiziale sul motivo economico-organizzativo del licenziamento, ma, dal terzo anno di rapporto in avanti, se licenzia il dipendente, abbia l’onere del trattamento complementare di disoccupazione, ovviamente entro limiti determinati, più l’onere del servizio di outplacement. In questo modo, l’impresa sarebbe incentivata a segliere il miglior servizio di outplacement disponibile, e controllare che sia svolto come si deve, perché più presto il lavoratore viene ricollocato, minore è il costo per il trattamento complementare di disoccupazione. Quando il rapporto assume maggiore anzianità, può aumentare il costo di separazione.

Vista la sua profonda esperienza nel campo del diritto del lavoro, sarà stato contattato dal nuovo ministro del Lavoro Giovannini per approntare nuove norme sul lavoro.
Sì, abbiamo stabilito un contatto che mi sembra molto positivo.

È ottimista sul ministero Giovannini?
La speranza è che, essendo un economista e statistico, avrà un approccio pragmatico ai problemi del lavoro, un approccio sperimentale: l’unico che può consentire di superare i contrasti ideologici che paralizzano la nostra cultura del lavoro.

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