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ROMPERE IL PATTO TRA POLITICI MEDIOCRI E BUROCRATI ARROGANTI

LA MADRE DI TUTTE LE RIFORME, QUELLA DELLE AMMINISTRAZIONI, DOVREBBE ESSERE POSTA AL CENTRO DELL’AZIONE DEL GOVERNO – INVECE CONTINUIAMO A CONSIDERARE QUELLO DELLA FUNZIONE PUBBLICA COME UN DICASTERO DI SERIE B, SE NON ADDIRITTURA DI SERIE C

Editoriale di Gianantonio Stella, pubblicato sul Corriere della Sera del 17 maggio 2013

C’è una riforma che non costerebbe niente. Meglio: non costerebbe in soldi. Il prezzo da pagare sarebbe la rottura di quel patto sventurato che lega da decenni una classe politica per sua stessa ammissione sempre più mediocre e una struttura burocratica resa sempre più forte, fino all’arroganza, proprio dalla inferiorità del ceto dirigente. Via via diventato schiavo degli alti funzionari, gli unici capaci dentro questo meccanismo infernale di scrivere una legge, di infilarla nel groviglio legislativo esistente e poi di interpretarla.
Un servaggio, come è noto, pagato caro: non c’è Paese al mondo dove un segretario generale del Senato in pensione guadagni con l’aggiunta della prebenda di consigliere di Stato quasi il triplo del presidente della Repubblica. Da noi sì. Va da sé che i beneficiati di questa «abnormità» non hanno interesse a cambiare un sistema in cui un funzionario parlamentare prende più di un deputato.
L’ha scritto Max Weber: «Ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Lo hanno ripetuto Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: la prima cosa da fare, prima ancora di costruire strade e ponti, è cambiare la burocrazia perché quale «beneficio arreca a un’impresa risparmiare mezz’ora fra Civitavecchia e Grosseto se poi deve attendere dieci anni per la risoluzione di una causa civile» o almeno «un anno per essere pagata da un’amministrazione pubblica»? Aggiungiamo: è colpa solo della Fiom o del costo del lavoro se negli ultimi anni gli investimenti esteri in Italia si sono dimezzati (dal 2 all’1,2% del totale mondiale: dati Confindustria) o piuttosto di un quadro burocratico asfissiante dove, denuncia Confcommercio, «ci vogliono 41 procedure per far rispettare un contratto e 1.210 giorni per ottenere una sentenza che tuteli l’impresa»?
All’Aquila sono state emanate tra leggi speciali e direttive del Commissario, atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e dispositivi della Protezione Civile e bla-bla, 1.109 norme più allegati: non mancano solo i soldi per ricostruire, manca il buon senso. Al punto che, se non cambia qualcosa, c’è da scommettere che finirà col solito decreto d’emergenza che permetta di eludere l’eccesso di regole. Già visto: lo Stato che aggira lo Stato perché incapace di cambiare se stesso.
È dunque un peccato notare come, a scorrere agenzie ed archivi, l’emergenza delle emergenze non appaia al governo Letta una vera emergenza. Due accenni nel discorso d’investitura, due flashes dell’Ansa: e centrati più che altro contro la cappa della burocrazia europea.
La scelta degli uomini giusti per questa guerra che dovrebbe essere a tutti i costi vinta, del resto, dice tutto. Non vogliamo neppure entrare nel merito delle qualità e dei curriculum del ministro Giampiero D’Alia e dei suoi vice, Gianfranco Micciché e Michaela Biancofiore dirottata dalle Pari Opportunità dopo le sparate sui gay. Ma sfidiamo chiunque a sostenere che siano stati messi lì, a combattere la più difficile delle battaglie, perché individuati come i migliori che c’erano sulla piazza per ripulire, disboscare, semplificare.
La verità è che li hanno collocati lì, purtroppo, perché il bilancino degli equilibri tra i partiti prevedeva di dar loro una poltrona o almeno uno strapuntino. E quello è considerato, sventuratamente, un ministero di serie B. Se non di serie C. La revisione della Costituzione venne affidata al grande Concetto Marchesi. Senza offesa: vuoi mettere la differenza?