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I PASSI AVANTI DELLA RISCRITTURA COSTITUZIONALE DELLA FORMA DI GOVERNO

NELLA RELAZIONE DEL MINISTRO UNA ESPOSIZIONE RAGIONATA DEI RISULTATI DEL GRUPPO DI LAVORO ISTITUITO PER DISEGNARE LA RIFORMA

Relazione svolta dal ministro per la Riforma istituzionale Gaetano Quagliariello al Senato, nella sessione pomeridiana del 15 ottobre 2013


Informativa del Ministro per le riforme costituzionali sulla relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali (ore 17,02)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Informativa del Ministro per le riforme costituzionali sulla relazione finale della Commissione per le riforme costituzionali».
Avverto che il dibattito sull’informativa del Ministro si svolgerà congiuntamente alla discussione del disegno di legge costituzionale n. 813-B, recante «Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali».
Ha facoltà di parlare il ministro per le riforme costituzionali, senatore Quagliariello.

QUAGLIARIELLO [1], ministro per le riforme costituzionali. Signor Presidente, onorevoli senatori, il tema delle riforme istituzionali rappresenta uno degli snodi centrali del programma sul quale il Governo ha ottenuto la fiducia dalle Camere lo scorso mese di maggio. Per adempiere in modo puntuale a tale mandato, il Governo, in data 11 giugno 2013, ha istituito una Commissione di esperti sulle riforme costituzionali, con l’obiettivo di istruire in modo completo ma rapido le tematiche inerenti alla riforma dei Titoli I, II, III e V della Parte II della Costituzione e la connessa riforma della legge elettorale. È per me un onore poter riferire oggi al Parlamento con un congruo anticipo rispetto alle scadenze prefissate sull’esito dei lavori della Commissione.
Vorrei subito dire che la Commissione ha svolto un’attività intensa e complessa, occupandosi di temi che sono da tanti anni al centro del confronto – e spesso dello scontro politico, senza mai perdere di vista il suo obiettivo, cioè quello di offrire senza alcun pregiudizio analisi ed elementi di riflessione quanto più possibile argomentati. Ovviamente il compito della Commissione è solo questo. Questi spunti di analisi potranno poi essere fatti propri o meno dal Parlamento, che resta assolutamente sovrano nella sua possibilità e nelle sue prerogative, per poi essere il vero protagonista della riforma.
Il compito non era certo quello di predisporre una proposta organica di riforma, la quale avrebbe potuto invece creare rigidità nel successivo sviluppo dell’iter istituzionale. Piuttosto, si trattava di agevolare l’esercizio del potere d’iniziativa e di deliberazione che spetta agli organi costituzionali e in primis al Parlamento, cui compete la responsabilità di varare le riforme necessarie per ammodernare le istituzioni repubblicane.
Con questo spirito, la Commissione, composta da giuristi e studiosi con diverse sensibilità culturali e politico-istituzionali, si è sforzata preliminarmente di enucleare gli elementi di condivisione più che i punti di frattura, al fine di contrastare quelle tentazioni al conservatorismo costituzionale e all’accanimento modellistico che da anni paralizzano qualunque tentativo di riforma.
Il primo risultato di questo metodo è rinvenibile in una diagnosi ampiamente condivisa dei problemi da risolvere e degli obiettivi da perseguire. In questo senso, la Commissione ha svolto i suoi lavori nella consapevolezza della gravità e del carattere per molti versi non congiunturale della crisi italiana e dell’intreccio indissolubile, e sempre più evidente, tra la solidità e la qualità dell’assetto istituzionale e il perdurare di una recessione che incide sulla stessa coesione sociale.
Alle difficoltà del Paese non è estranea la debolezza delle nostre istituzioni, concepite in una fase storica molto diversa da quella attuale e risultate progressivamente inadeguate a fronteggiare con efficacia tanto le sfide derivanti dal mutato contesto economico mondiale quanto quelle connesse al processo di integrazione europea.
A differenza delle altre grandi democrazie dell’Occidente, da tempo interessate da incisivi processi di riforma, il nostro Paese si è trovato privo di strumenti all’altezza delle decisioni da assumere in un contesto globale sempre più competitivo e in una cornice europea in cui gli Stati, oltre a rispettare le severe regole di bilancio, sono chiamati a concorrere alla definizione di strategie per lo sviluppo e l’occupazione e all’attuazione di politiche pubbliche che hanno un impatto crescente e pervasivo sulla vita dei cittadini e sull’operato delle imprese.
Politiche che si articolano oggi in un sistema di governo multilivello, tra Unione europea, Stato e autonomie territoriali – un sistema multilivello assai più complesso ed articolato rispetto al passato – e che necessitano pertanto di essere attentamente calibrate, anche al fine di salvaguardare il quadro dei valori e dei princìpi fondamentali della Costituzione del 1947, e di non vanificarne l’impianto posto a tutela delle importanti conquiste raggiunte sul piano dei diritti civili e sociali.
Su queste premesse di fondo, che rendono non più eludibile il tema delle riforme, la Commissione ha approfondito le ragioni sottese alla fragilità del nostro sistema politico-istituzionale, rinvenendo nell’incapacità di esprimere nel lungo periodo un indirizzo politico stabile e radicato nel consenso del corpo sociale uno dei più rilevanti elementi di criticità, che è apparso, a sua volta, direttamente connesso ad un processo di indebolimento del sistema dei partiti politici, che in Italia ha assunto caratteristiche più gravi che in altri contesti europei.
Come afferma nelle premesse la relazione finale della Commissione, approvata il 17 settembre scorso, i partiti – senza i quali, è bene sottolinearlo, un sistema democratico non è neppure concepibile – sono apparsi in seria difficoltà nell’assolvere le loro principali funzioni costituzionali di raccordo tra la società e le istituzioni, di selezione della classe dirigente e di elaborazione e attuazione di strategie politiche pubbliche di ampio respiro.
La crisi dei partiti, quali strumenti insostituibili attraverso cui i cittadini concorrono a determinare la politica nazionale, si è riverberata direttamente sulle attribuzioni del Parlamento e del Governo, pregiudicandone il corretto funzionamento in termini di efficienza dei circuiti decisionali, stabilità dei Governi, efficacia delle politiche pubbliche e autorevolezza delle istituzioni e del corpo politico nel suo insieme.
La storia di questi ultimi anni testimonia con nettezza come tali difficoltà siano andate nel tempo ampliandosi, e la situazione di stallo istituzionale, che si è determinata dopo le ultime elezioni politiche, ne ha offerto una plastica e drammatica rappresentazione.
Stiamo vivendo un paradosso: da un lato, lo stato di crisi dei partiti richiederebbe un incisivo intervento di riforma delle istituzioni, in grado di restituire loro forza e legittimazione; dall’altro lato, quella stessa debolezza costituisce un formidabile ostacolo alla realizzazione di questa riforma.
Negli ultimi vent’anni in Italia abbiamo coltivato l’illusione che per costruire una moderna democrazia decidente fosse sufficiente riformare in senso maggioritario la legge elettorale. L’effetto ultimo di tale approccio è stato quello di sospingere il quadro politico verso forme di alternanza, senza tuttavia guadagnare nulla in termini di efficienza, equilibrio e resa complessiva del sistema. Siamo così passati dalla immobile instabilità della cosiddetta prima Repubblica alla frenetica instabilità della fase attuale, dove i Governi durano forse un po’ di più (ma nemmeno tanto: diciannove mesi in media), ma la loro capacità realizzativa è anche minore di quella che si registrava in passato quando, pur in presenza di Esecutivi brevi ed instabili, la sostanziale fissità degli equilibri politici generali consentiva strategie di riforma di più ampio respiro.
Occorre sgombrare il campo dall’illusione di poter porre rimedio ai gravi deficit di capacità decisionale, di stabilità e di rappresentatività con un ennesimo intervento sul solo sistema elettorale, oppure affidandosi alle esclusive dinamiche spontanee dei partiti politici. Le riforme servono anche a promuovere un processo di rafforzamento e di rigenerazione dei partiti, che li renda capaci di dialogare al proprio interno e tra loro stessi, facendo prevalere le ragioni dell’unità piuttosto che quelle del conflitto, della sterile e talvolta aprioristica contrapposizione.
Sul punto, mi permetterete una notazione schiettamente politica. Nelle ultime settimane è stato da alcuni posto con forza il tema della difesa del bipolarismo, che sarebbe minacciato dall’esperienza delle larghe intese su cui si fonda il Governo presieduto da Enrico Letta. Ebbene, anche io sono convinto che il bipolarismo – e con esso l’alternanza al Governo tra i diversi schieramenti politici – sia, non solo un elemento acquisito in modo irreversibile dalla nostra cultura politica, ma anche un fattore di trasparenza e di democraticità del sistema. Sono anche io convinto che l’esperienza del Governo di larga intesa costituisca una parentesi dovuta alle circostanze politiche, economiche e sociali nelle quali si trova oggi l’Italia.
Credo, però, che il problema non sia quello di difendere il bipolarismo che abbiamo sperimentato negli ultimi venti anni; il problema è piuttosto quello di disegnare le nostre istituzioni in modo tale da rendere possibile un bipolarismo ben temperato, nel quale a fronteggiarsi non siano due fazioni armate con l’unico obiettivo di distrugge il nemico, ma due schieramenti politici alternativi, reciprocamente rispettosi ed uniti quando sono in discussione i valori fondanti della nostra comunità. Tale obiettivo richiede, da un lato, un’evoluzione delle culture politiche e, dall’altro, una riforma delle istituzioni che le favorisca.
Abbiamo bisogno di un percorso che restituisca forza ed autorevolezza alla rappresentanza politica e che, senza intaccare l’alternanza tra schieramenti diversi alla guida del Paese, agevoli il confronto sulle cose da fare nell’interesse del Paese stesso e la costruzione del consenso sulla base di principi, ideali e proposte di governo contrapposte, ma comunque concrete e lungimiranti.
Se la diagnosi dei problemi e l’analisi degli obiettivi costituiscono il filo rosso intorno al quale si sono dipanati i lavori della Commissione, le diverse sensibilità istituzionali e culture giuridiche in essa presenti hanno fatto emergere, nei diversi ambiti di riforma, posizioni talvolta unanimi o lievemente divergenti, talaltra differenziate sulla base di opzioni alternative subordinate a talune scelte di fondo.
In particolare, la relazione finale della Commissione, articolata in sei capitoli, su cui ora mi soffermerò brevemente, ha individuato quattro principali ambiti di riforma costituzionale, la cui attuazione è stata unanimemente ritenuta necessaria. Questi ambiti sono i seguenti.
In primo luogo, il rafforzamento del Parlamento attraverso la riduzione del numero dei parlamentari; il superamento del bicameralismo paritario; una più completa regolazione dei processi di produzione normativa e, in particolare, una più rigorosa disciplina della decretazione d’urgenza.
In secondo luogo, il rafforzamento delle prerogative del Governo in Parlamento attraverso la fiducia monocamerale, la semplificazione del processo decisionale e l’introduzione del voto a data fissa per i disegni di legge.
In terzo luogo, la riforma del sistema costituzionale delle Regioni e delle autonomie locali, che riduca significativamente le sovrapposizioni delle competenze e si fondi su una maggiore collaborazione e una minore conflittualità.
In quarto luogo, la riforma del sistema di governo, che è stata prospettata in tre diverse, possibili opzioni. La prima: la razionalizzazione della forma di governo parlamentare esistente. La seconda: il semipresidenzialismo sul modello francese. La terza: una forma di governo che, cercando di farsi carico delle esigenze sottese ad entrambe le prime due soluzioni, conduca al governo parlamentare del Primo Ministro.
La relazione non tratta delle tematiche relative alla riforma della giustizia, che pure costituisce una parte importante del disegno di riforma dello Stato, considerato che gran parte del lavoro di attuazione del principio del giusto processo, di cui al relativamente nuovo articolo 111 della Costituzione, deve essere ancora compiuto. Tale scelta deriva innanzitutto dalle indicazioni che sono venute dal Parlamento, che con le mozioni approvate il 29 maggio scorso ha delimitato l’ambito del processo speciale di revisione costituzionale, disciplinato dal disegno di legge attualmente all’esame delle Camere per la seconda deliberazione. Occorre inoltre considerare come il nucleo centrale della riforma della giustizia consista in interventi che riguardano prevalentemente la legislazione ordinaria.
Naturalmente tali considerazioni non intaccano in alcun modo la centralità del tema, che dovrà costituire il necessario completamento del processo di riforma delle istituzioni, sul quale siamo impegnati. A tal proposito, ho già avviato i necessari contatti con il Ministro della giustizia per istituire un tavolo di coordinamento che conduca il Governo a sottoporre al Parlamento le proprie proposte di riforma, nel solco delle indicazioni formulate dal gruppo di lavoro istituito dal presidente Napolitano nello scorso mese di maggio.
Torniamo dunque alla relazione. Non mi soffermerò sulle articolate valutazioni contenute in ciascuna delle sezioni. È stata mia cura trasmettere alla Presidenza del Senato copia della relazione e, in vista della discussione odierna, inviarla anche a tutti i colleghi senatori. In questa sede ritengo piuttosto opportuno soffermarmi solo sui punti politicamente più sensibili.
Inizio con il capitolo dedicato al superamento del bicameralismo paritario. Per quanto concerne la riforma dell’assetto del nostro Parlamento, la Commissione si è infatti pronunciata in modo unanime in favore del superamento dell’attuale bicameralismo paritario e simmetrico, che costituisce ormai un unicum nel panorama costituzionale e comparato e rappresenta un potente fattore di rallentamento dei processi decisionali e, spesso, anche di destabilizzazione della forma di governo. Le virtù del bicameralismo perfetto, voluto dall’Assemblea costituente affinché nessuno potesse essere escluso del tutto dall’indirizzo politico, si sono nel tempo trasformate in criticità. Due Camere che devono entrambe votare la fiducia al Governo, con sistemi elettorali non coincidenti e un elettorato attivo e passivo differenziato, rendono precaria qualsiasi maggioranza. Quasi 1.000 parlamentari che devono votare identici testi normativi rendono frequenti defatiganti navette, favorendo il ricorso a un ostruzionismo snervante, che impedisce l’approvazione dei provvedimenti in tempi fisiologici.
In questo quadro, nel corso dei lavori della Commissione è risultata prevalente l’ipotesi di introdurre una forma di bicameralismo differenziato, nella quale alla seconda Camera venga assegnata la funzione essenziale di rappresentanza e di raccordo con le autonomie regionali e territoriali. Peraltro, ha raccolto alcuni consensi anche l’ipotesi di unificare le due Camere, secondo il modello del monocameralismo, in cui le istanze di raccordo con le autonomie territoriali sarebbero soddisfatte mediante la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze Stato-Regioni-enti locali e che, ad avviso dei suoi sostenitori, avrebbe il vantaggio di semplificare il sistema istituzionale e di stabilizzare maggiormente la forma di governo, nonché il pregio di rendere più agevole un processo di riforma che, senza una scelta di prevalenza tra le due Camere, incontrerebbe presumibilmente meno resistenze.
Nell’ipotesi del bicameralismo differenziato, una sola Camera sarebbe titolare del rapporto di fiducia e dell’indirizzo politico; la seconda Camera sarebbe rappresentativa degli enti territoriali, intesi sia come territorio sia come istituzioni. Questa opzione è motivata sia dalla necessità di garantire al Governo nazionale certezza di disporre di una maggioranza politica, maggiore rapidità nelle decisioni e dunque maggiore stabilità, sia dall’esigenza di portare a compimento il processo di costruzione di un sistema autonomistico coerente con una Camera che sia espressione delle autonomie territoriali e garantisca l’effettività del principio di leale collaborazione tra i diversi livelli di governo.
In questo quadro, il Parlamento continuerebbe ad articolarsi in Camera e Senato, ma i due organi avrebbero funzioni e composizioni differenziate. Entrambe le Camere voterebbero le leggi, secondo un diverso riparto dei poteri legislativi definito nella Costituzione. Inoltre, entrambi i rami del Parlamento eserciterebbero le funzioni di controllo dell’operato del Governo e di valutazione delle politiche pubbliche, anche se alla Camera, titolare in via esclusiva del rapporto di fiducia, si registrerebbe una prevalenza nell’esercizio della funzione legislativa (salvo le ipotesi di leggi bicamerali) e al Senato invece una prevalenza nell’esercizio delle funzioni di controllo.
Per quanto concerne la composizione del Senato, la Commissione si è soffermata in primo luogo sull’alternativa tra elezione diretta e elezione indiretta dei senatori. Non si è espressa, valutando però le opzioni tra loro differenti in una chiave di complessiva coerenza del sistema ed alla luce dell’assesto delle funzioni e delle competenze legislative ed amministrative tra Stato ed autonomie. In ogni caso, la Commissione ha ritenuto in via assolutamente prevalente che i Presidenti di Regione debbano far parte del Senato come membri di diritto, senza tuttavia il riconoscimento di alcuna retribuzione (salvo il rimborso delle spese), né la possibilità di accesso, per l’impegno nell’istituzione di provenienza, alle cariche interne al Senato (Presidenza, Uffici di Presidenza dell’Assemblea, delle Commissioni e delle Giunte).
Per quanto attiene al numero dei parlamentari, la Commissione ha rilevato in via preliminare come occorra distinguere il tema del costo delle attività politiche da quello dei costi della democrazia, sottolineando in particolare come la questione della riduzione del numero dei parlamentari discenda in realtà dalla moltiplicazione delle sedi della rappresentanza rispetto all’epoca della Costituente, nonché dalla necessità di rafforzare la competenza, il prestigio e la reputazione delle Assemblee legislative.
In ogni caso, la Commissione ha rilevato che, in ragione delle specificità della rappresentanza che sono chiamati ad assicurare i senatori, il loro numero debba essere stabilito Regione per Regione, in proporzione agli abitanti, ritenendo congruo un numero complessivo dei senatori non inferiore a 150 e non superiore a 200.
Quanto alla Camera dei deputati, si potrebbe passare dall’attuale criterio di un deputato ogni 95.000 abitanti ad un parametro più in linea con gli standard europei di un deputato ogni 125.000 abitanti, dal quale deriverebbe un numero complessivo di 480 deputati. Qualora si intendesse seguire un criterio più restrittivo, si potrebbe invece prendere a riferimento ed usare il parametro spagnolo e quindi definire in Costituzione una composizione della Camera di 450 deputati.
Per quanto concerne la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, la relazione della Commissione conferma il giudizio critico sugli effetti del decentramento legislativo attuato con la riforma del 2001: ad una devoluzione non inferiore, almeno sulla carta, a quella che caratterizza Paesi ad alto tasso di federalismo non hanno corrisposto idonei strumenti di coordinamento e di raccordo tra il Governo centrale e il sistema delle autonomie. La gestione politica della complicata ripartizione di competenze legislative è rimasta appannaggio del sistema delle Conferenze; soluzione sufficiente per un decentramento solo amministrativo, non certo bastevole per un decentramento anche di tipo legislativo.
La mancanza di un’autentica sede di raccordo con le autonomie territoriali ha così favorito l’esplosione di uno spaventoso contenzioso costituzionale, con il conseguente prevalere della frammentazione e dell’incertezza del diritto. Si è così determinato una sorta di policentrismo anarchico, privo di un coordinamento efficace, dove il diritto di veto rischia di bloccare la più parte delle decisioni.
Nella prospettiva della razionalizzazione dell’attuale Titolo V della Parte II della Costituzione, la relazione propone, unanime, una significativa riduzione delle sovrapposizioni delle competenze, una maggiore cooperazione e una minore conflittualità. È stata ad esempio condivisa la necessità di riportare alla competenza del legislatore statuale alcune materie di interesse nazionale impropriamente attribuite alla legislazione concorrente: dalle grandi reti di trasporto e di navigazione, alla produzione trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, fino all’ordinamento della comunicazione.
Riguardo alle ulteriori prospettive di riforma si sono invece registrate due posizioni alternative: la prima ritiene opportuno semplificare con decisione i criteri di riparto delle competenze legislative, superando la competenza concorrente, assegnando alle Regioni tutte le materie non attribuite espressamente alla competenza statuale e prevedendo al contempo una clausola di salvaguardia a tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica. Ciò anche affinché la distribuzione della potestà legislativa tra Stato e Regioni si ponga in termini di funzioni e di obiettivi, piuttosto che secondo il criterio, ritenuto da alcuni anacronistico, delle materie.
Una seconda posizione, invece, propone di conservare la competenza concorrente per un limitato spettro di materie, come ad esempio il governo del territorio. Si confermerebbe così in determinati ambiti, dove non è possibile prescindere da un intreccio di esigenze di regolazione sia statali che regionali, il più tradizionale esercizio delle competenze concorrenti. Anche in questa prospettiva, in ogni caso, alla competenza residuale delle Regioni su tutte le materie non nominate, si accompagnerebbe comunque la previsione di una clausola di salvaguardia.
Naturalmente la Commissione ha esaminato anche ulteriori profili di grande rilevanza, anche se forse di minore impatto politico mediatico: la migliore regolamentazione dei rapporti finanziari tra Stato ed enti territoriali; la definitiva affermazione del meccanismo dei costi e dei fabbisogni standard quale principale criterio di perequazione, superando così sia la logica della spesa storica sia quella dei tagli lineari; la soppressione delle Province e la fissazione di una soglia dimensionale minima per i Comuni. Non posso naturalmente ora soffermarmi su ciascuno di essi, ma credo che nello sviluppo del lavoro parlamentare occorrerà dedicare grande attenzione a tali profili.
Naturalmente il tema di maggiore delicatezza è stato rappresentato dalla rivisitazione della forma di governo, che ha visto registrare opinioni differenti; non solo però quelle, ma anche importanti presupposti comuni nella diagnosi dei problemi. La Commissione è stata unanime nel segnalare la necessità di introdurre quegli elementi di razionalizzazione e di stabilizzazione della nostra forma di governo che i Costituenti, pur ritenendoli necessari (ordine del giorno Perassi), non poterono adottare per la presenza di vincoli politici interni e internazionali. Si tratta di meccanismi istituzionali che assicurino all’Esecutivo maggiore stabilità e effettiva capacità di decisione, favorendo al contempo l’autorevolezza del Parlamento e l’efficacia della sua azione.
A tal fine, le due principali opzioni discusse in tema di forma di governo,sono state la forma di governo parlamentare razionalizzata e il cosiddetto semipresidenzialismo. I diversi auspici sui quali ciascuna di esse si fonda sono richiamati nelle premesse della relazione. Nel primo caso, i sostenitori del parlamentarismo razionalizzato confidano che i partiti politici siano in grado di superare l’attuale crisi e di tornare a svolgere presto e correttamente una funzione di collegamento tra la sfera della società civile e quella delle istituzioni politiche, in un quadro costituzionale da rinnovare, ma che conservi i necessari elementi di flessibilità propri della forma di governo parlamentare.
La seconda linea invece, quella dei semipresidenzialisti, presuppone che i problemi possano risolversi innanzitutto con la creazione di istituzioni ad investitura popolare diretta e l’eliminazione dei troppi poteri di veto, anche come presupposto della rigenerazione del sistema dei partiti. In particolare, i componenti della Commissione che hanno sostenuto la forma di governo semipresidenziale ritengono che questo modello istituzionale riesca, più e meglio del tradizionale modello parlamentare, a garantire unità, stabilità, continuità, flessibilità e responsabilità al sistema. Nel sistema semipresidenziale, infatti, è l’elezione del Presidente, quindi la scelta di una persona, che dà unità al sistema politico. Il semipresidenzialismo assicurerebbe dunque continuità (la durata in carica del Capo dello Stato è fissata in Costituzione e non può essere abbreviata), stabilità (in quanto il sistema elettorale crea maggioranze sufficientemente coese), flessibilità (che si consegue sostituendo il Primo Ministro, per sedare tensioni politiche e per rispondere ad esigenze manifestate nell’opinione pubblica), nonché, aspetto non trascurabile, l’individuazione certa di un vincitore. Il modello semipresidenziale presenterebbe inoltre un significativo «tasso di innovazione», che potrebbe essere particolarmente gradito a un’opinione pubblica che chiede la rigenerazione della politica.
Per quanto concerne i limiti derivanti dalla mancata presenza di una figura neutrale al vertice dello Stato, spesso invocati dagli oppositori di un’evoluzione in senso semipresidenziale anche all’interno della Commissione, si è sottolineato come potrebbero essere superati con adeguati meccanismi e contrappesi, idonei a fugare timori di cosiddette derive plebiscitarie, considerando anche che l’inserimento di gran parte delle democrazie del vecchio continente nella trama istituzionale dell’Unione europea rappresenta il più efficace antidoto contro i rischi di abuso di potere da parte della maggioranza.
A tale riguardo vorrei inoltre rilevare come l’argomento del ruolo neutrale e di garanzia del Capo dello Stato non sia, a mio avviso, in realtà ancorato a solide basi storiche e giuridiche. Il Presidente della Repubblica, infatti, non venne affatto disegnato dai Padri costituenti italiani come figura neutra, quasi notarile, priva di poteri di natura politica. Egli dispone infatti di alcuni poteri spiccatamente politici: dal potere di autorizzare la presentazione in Parlamento dei disegni del Governo, al potere di rinviare in Parlamento le leggi approvate dalle Camere, fino al penetrante potere di intervento nella risoluzione delle crisi eventualmente decidendo di sciogliere le Camere. Il punto è se mai comprendere fino a che punto i Presidenti che ci sono succeduti abbiano esercitato i poteri che la Carta fondamentale riconosce loro. Non c’è dubbio che nella prima parte della prima Repubblica i Presidenti hanno fatto un esercizio assai misurato di tali poteri. In quel periodo la presenza di un sistema di partiti forte, strutturato e pervasivo rispetto alla dialettica istituzionale ha posto in secondo piano la funzione di indirizzo politico generale che la Costituzione indubitabilmente assegna al Presidente della Repubblica. Ma non è un caso che, non appena i partiti sono stati interessati dal vento del cambiamento e, da ultimo, sono stati travolti dalla tempesta dell’antipolitica, il ruolo del Presidente sia tornato ad espandersi pienamente, rendendo chiara a tutti la natura intrinsecamente politica della sua funzione.
Sotto l’altro punto di vista, i sostenitori della forma di governo parlamentare razionalizzata muovono da un’analisi solo parzialmente coincidente con quella appena espressa. Essi osservano infatti che sul piano istituzionale non vi è un fenomeno di endemica debolezza dall’Esecutivo, quanto piuttosto di complessivo squilibrio e confusione nei rapporti tra Esecutivo e Legislativo. Il deficit di capacità decisionale effettiva del sistema deriverebbe, insomma, per lo più da altri fattori: sul piano politico, dai conflitti all’interno delle maggioranze e soprattutto, sul piano attuativo, dai caratteri assunti dalla dimensione amministrativa, che non dipendono dalla forma di governo ma dalla debolezza del «comando» politico e dal moltiplicarsi delle sedi di influenza degli interessi particolari o corporativi; aspetti, questi, su cui appaiono decisivi i processi di effettiva riforma della pubblica amministrazione.
Il Governo parlamentare avrebbe inoltre il pregio di assicurare l’omogeneità di indirizzo generale tra potere esecutivo e legislativo nell’ambito di un sistema equilibrato e flessibile, capace di funzionare in presenza di contesti politici diversi e di adattarsi alle circostanze senza esasperare i motivi di tensione. Il presupposto di fondo è che le elezioni determinino un Parlamento nel quale si esprima una maggioranza corrispondente all’opinione prevalente nell’elettorato, che a sua volta esprime un Governo sulla base di indirizzi programmatici coerenti ed espliciti.
Da questo punto di vista, i sostenitori di tale modello sottolineano l’importanza di un sistema elettorale che contemperi le istanze di rappresentatività con l’esigenza di facilitare convergenze ed evitare l’eccesso di frammentazione partitica. Gli eventuali mutamenti di Governo durante la legislatura rispondono al costituirsi di nuovi indirizzi della maggioranza o al formarsi di una diversa maggioranza esplicita, mentre in assenza di tali condizioni lo scioglimento anticipato della Camera (da configurare, secondo i sostenitori di questo modello, come prerogativa duale, che richieda, cioè, il concorso sia del Presidente della Repubblica sia del Presidente del Consiglio) consentirebbe di risolvere la crisi con il ricorso all’elettorato.
Il corretto funzionamento del sistema e l’equilibrio tra le ragioni di conflitto e le ragioni di unità sono, infine, garantiti dalla figura di un Presidente della Repubblica dotato di poteri di controllo, di coordinamento e di influenza, legittimati dalla sua posizione super partes, che gli consentirebbero altresì di operare un raccordo con gli altri poteri propriamente di garanzia (sia il potere giudiziario, sia gli organi di giustizia costituzionale), nel rispetto dell’equilibrio costituzionale e dell’indipendenza reciproca dei poteri.
Naturalmente, anche la prospettiva del Parlamento razionalizzato, come dimostra l’esperienza comparata, può essere in grado di soddisfare le esigenze di stabilità dei Governi e di coerenza degli indirizzi politici. Ciò, però, a condizione che rispetto al modello del parlamentarismo puro vengano introdotti efficaci fattori di razionalizzazione. Quali? La riserva alla sola Camera del compito di dare e revocare la fiducia al Governo, con il vincolo della mozione di sfiducia costruttiva, approvata a maggioranza assoluta; il rafforzamento del vincolo fiduciario con il Parlamento, attribuendo esplicitamente al Governo idonei poteri nell’ambito del procedimento legislativo che gli garantiscano tempi certi per le deliberazioni parlamentari rilevanti ai fini dell’attuazione del programma; il rafforzamento della posizione di primazia rivestita dal Presidente del Consiglio nell’ambito del Governo; la disciplina dello scioglimento della Camera secondo linee di chiarezza e responsabilità.
Il lavoro della Commissione non si è limitato solo ad un approfondimento di queste due principali forme di governo presenti in Europa. Nello sforzo di esaltare elementi di analisi e di proposta condivisi e di giungere, per quanto possibile, ad una sintesi, la Commissione ha approfondito anche una terza ipotesi, volta a coniugare le istanze organizzative di radicamento sociale della politica con le esigenze di efficienza e di stabilità, preservando al contempo il ruolo di garanzia e di arbitro del Presidente della Repubblica e restituendo al Parlamento funzioni e responsabilità perdute. Si tratta della proposta che potremmo definire «forma di governo parlamentare del Primo Ministro», diretta a fare emergere dalla consultazione elettorale non solo una chiara maggioranza parlamentare ma anche l’indicazione del Presidente del Consiglio, in modo da incorporare la scelta del Premier nella scelta della maggioranza. Tale opzione si prefigge di coniugare i vantaggi del modello semipresidenziale con quelli propri di un regime di tipo parlamentare, attraverso un connubio tra meccanismi costituzionali e regole elettorali tale da favorire l’affermazione sul continente di quel modello “Westminster” che l’Italia vanamente insegue da oltre vent’anni. Esso consentirebbe alla forma di governo parlamentare di stabilizzarsi, al corpo elettorale di scegliere veramente non solo chi lo rappresenterà in Parlamento ma anche chi eserciterà la funzione di governo, e a un Governo così fortemente legittimato di guidare effettivamente i processi istituzionali e quindi di realizzare la funzione sua propria.
In questo modello, a una legge elettorale da cui emerga la chiara indicazione del partito o della coalizione vincente e del leader che guiderà il Governo, sono associati meccanismi incisivi di stabilizzazione e razionalizzazione del governo parlamentare che riguardano sia la fase genetica del Governo (attraverso il rafforzamento del Premier al momento della nomina dei Ministri e dell’ottenimento della fiducia), sia l’attività del Governo durante il suo mandato (con il rafforzamento dei poteri del Governo in Parlamento, ad esempio rispetto alla formazione dell’ordine del giorno), sia la fase delle crisi politiche (con meccanismi di sfiducia costruttiva e di richiesta di ricorso anticipato alle urne, che rappresentano i migliori antidoti contro le degenerazioni del parlamentarismo e l’instabilità).
Così configurata, la forma di governo parlamentare del Primo Ministro rappresenta una variante del modello semipresidenziale, rispetto alla quale conserva la funzione di garanzia e di interprete delle emergenze propria del Presidente della Repubblica. L’analogia tra semipresidenzialismo e forma di governo del Primo Ministro è confermata dal fatto che il sistema elettorale che meglio si adatterebbe a tale modello è quello che prevede, dopo lo svolgimento del primo turno, un ballottaggio tra i primi due partiti o tra le prime due coalizioni, ciascuno dei quali indicherebbe il proprio candidato per la carica di Primo Ministro, il quale quindi otterrebbe dalla consultazione elettorale, di fatto, una legittimazione diretta.
Complementari rispetto alle considerazioni relative alla revisione della forma di governo sono le indicazioni contenute nella relazione in merito alla rivitalizzazione degli strumenti di democrazia diretta. La prospettiva di una razionalizzazione e stabilizzazione del sistema, con un rafforzamento del ruolo del Governo e del Parlamento, implica infatti anche un rafforzamento degli strumenti a disposizione dei cittadini per interagire e correggere le scelte operate dalle istituzioni rappresentative. Il rafforzamento dei circuiti della democrazia rappresentativa deve infatti accompagnarsi anche al rafforzamento dei meccanismi di partecipazione diretta dei cittadini.
Per quanto concerne la legge elettorale, la Commissione ha affrontato il tema esclusivamente nella prospettiva della nuova forma di governo e nella consapevolezza dello strettissimo rapporto di interazione che esiste tra di esse.
L’intervento legislativo a Costituzione vigente, indispensabile per assicurare al Paese l’agibilità democratica – cioè l’esistenza di una legge elettorale non soggetta a vizi di costituzionalità con la quale tenere le elezioni nel caso in cui ciò si renda necessario – non rientrava nei compiti di studio della Commissione. Personalmente, sono ben cosciente del fatto che è comunque urgente un intervento di correzione della legge elettorale vigente, per garantire la piena funzionalità istituzionale nel caso in cui la legislatura in corso dovesse interrompersi anticipatamente. Occorre però avere consapevolezza che tale intervento non potrà rappresentare una soluzione stabile ed efficace: solo una riforma elettorale connessa ad una più complessiva revisione della forma di governo può infatti garantire quella stabilità e quella efficacia istituzionale della quale il Paese ha bisogno.
Negli ultimi venti anni tutto il peso della riforma del sistema politico istituzionale è stato caricato, di fatto, sulla legge elettorale per le Camere. Si tratta di un peso che il sistema elettorale, da solo, non poteva e non può sostenere, a maggior ragione in presenza di una grave crisi del sistema politico e della sua forte frammentazione, con tre schieramenti di consistenza quasi equivalente. Se aggiungiamo l’anomalia di un bicameralismo paritario con due Camere che, oltretutto, presentano un elettorato attivo e passivo differente, si può ben comprende come, a Costituzione vigente, sia illusorio affidare alla sola legge elettorale il compito di assicurare la governabilità ed evitare il rischio che il ricorso a Governi di larghe intese diventi un’opzione obbligata. Questo rischio – è bene che tutti lo abbiamo presente – può essere scongiurato solo attraverso una revisione costituzionale che riformi, ad un tempo, la forma di governo e il bicameralismo.
La scelta del sistema elettorale è strettamente connessa a quella relativa alla forma di governo. Così, mentre nella prospettiva semipresidenzialista il sistema elettorale più idoneo è certamente il doppio turno di collegio, con una soglia severa per accedere al secondo turno, la forma parlamentare razionalizzata è compatibile con diversi sistemi elettorali, dal modello tedesco, a quello spagnolo, a quelli basati sul collegio uninominale maggioritario.
Strettamente coerente con la terza ipotesi di forma di governo – quella parlamentare del Primo Ministro – è stato ritenuto un sistema elettorale di carattere proporzionale con clausola di sbarramento molto selettiva e con premio di maggioranza attributo al primo partito o coalizione, a condizione che abbia superato una soglia del 40 o del 50 per cento dei seggi e, in caso contrario, con il ricorso al ballottaggio tra i primi due partiti o coalizioni. Si tratta di un sistema attraverso il quale gli elettori scelgono direttamente e contestualmente la maggioranza e il relativo candidato alla carica di Primo Ministro. In ogni caso, tale opzione presupporrebbe il superamento del bicameralismo paritario e la forte razionalizzazione della forma di governo parlamentare.
In via generale, la Commissione ha convenuto sulla necessità di superare il sistema di cooptazione previsto dalla legge elettorale vigente e di restituire ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Al riguardo, sono state esaminate le diverse possibilità: in primo luogo, il collegio uninominale; in secondo luogo, il collegio plurinominale, nel quale sia eletto un numero molto contenuto di parlamentari che consenta di conoscere preventivamente le qualità e le caratteristiche dei candidati; in terzo luogo, il voto di preferenza (inclusa quella di genere) in circoscrizioni più o meno ampie.
La Commissione ha inoltre ritenuto che la scelta della legge elettorale debba essere sottratta alla discrezionalità delle maggioranze occasionali, fissando alcuni principi in Costituzione ovvero prevedendo che essa sia eventualmente approvata con legge organica.
La Commissione ha espresso altresì una unanime valutazione negativa sul funzionamento del voto degli italiani all’estero, proponendo la soppressione della circoscrizione Estero, ma garantendo comunque l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero mediante strumenti idonei ad assicurare la libertà e la segretezza del voto (ed eventualmente prevedendo, qualora il Senato fosse eletto direttamente, una rappresentanza al suo interno delle comunità degli italiani residenti all’estero).
Mi avvio alle conclusioni, Presidente. Vorrei segnalare che a breve il lavoro del Parlamento in tema di riforme istituzionali potrà giovarsi, oltre che delle indicazioni della Commissione di esperti qui illustrate, delle risultanze della consultazione pubblica in tema di riforme lanciata l’8 luglio e conclusasi lo scorso 8 ottobre. Essa ha fatto registrare una partecipazione elevatissima di cittadini, che ne fa la consultazione pubblica di maggiore successo fra quelle finora svolte in Italia e in Europa. Non appena sarà concluso il lavoro di verifica e di elaborazione statistica, i risultati confluiranno in un rapporto che sarà pubblicato online e consegnato alla Presidenza del Consiglio e alle Presidenze delle due Camere. A questo punto il Parlamento avrà a disposizione degli strumenti, che sono solo – desidero ripeterlo – degli strumenti per poter effettuare le sue scelte sovrane.
In conclusione, non posso che ribadire ancora una volta come solo con un’adeguata revisione della Parte II della nostra Costituzione sia possibile recuperare le condizioni necessarie a restituire credibilità e autorevolezza al corpo politico, inaugurando così una nuova stagione nella quale la maggiore stabilità ed efficienza complessiva dell’assetto dei pubblici poteri potrà consentire di affrontare con successo le nuove sfide che abbiamo di fronte e di agganciare in modo duraturo i segnali di ripresa dell’economia che, assai flebili, si profilano all’orizzonte.
Naturalmente, tocca ora al Parlamento e alla politica la responsabilità di assumere le decisioni fondamentali. Ciò che ritengo certo è che sarebbe estremamente grave un ennesimo fallimento: non ce lo possiamo permettere. Un fallimento sulle riforme produrrebbe con ogni probabilità il ripetersi della situazione di incertezza e di instabilità che ha caratterizzato l’inizio dell’attuale legislatura, e ostacolerebbe la rimozione di quelle anomalie e forzate coabitazioni tra forze politiche diverse e distanti che impediscono oggi al nostro Paese di divenire una normale democrazia dell’alternanza. Vi ringrazio. (Applausi dai Gruppi PdL, PD e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE).

PRESIDENTE. Ringrazio il Ministro per le riforme costituzionali per la disponibilità.
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