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L’UTOPIA DELLA MOBILITÀ NELL’IMPIEGO PUBBLICO

LA LEGGE C’È, MA DA TREDICI ANNI NON È MAI STATA APPLICATA – RIUSCIRÀ IL GOVERNO RENZI A INCOMINCIARE AD APPLICARLA?

Articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul Corriere della Sera del 26 settembre 2014

Ci vorrebbe «una sana mobilità obbligatoria…», ha detto ieri Marianna Madia, cercando di sdrammatizzare la denuncia del commissario alla spending review Carlo Cottarelli di 85.000 esuberi nel comparto pubblico.
Parole d’oro. Dice infatti il dossier Government at a Glance dell’Ocse del novembre scorso che, rispetto al totale degli occupati, l’Italia non ha affatto un numero eccessivo di dipendenti pubblici. Anzi, non solo sta sotto i soliti paesi nordici o post-comunisti come l’Ungheria, l’Estonia o la Slovenia, ma anche la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna e la stessa media Ocse. Solo che ce ne sono troppi in certi settori e in certe aree e troppo pochi altrove. Poterli muovere, insomma, consentirebbe di risolvere un mucchio di problemi.
Il guaio è che, storicamente, è sempre stata un’impresa titanica non solo portare uno «statale» da Lampedusa a Vipiteno, e si può capire, ma anche spostare chi non lo desidera da un comune a quello confinante o addirittura da un ufficio all’altro, magari sullo stesso corridoio.
Lo ricorda , un’interrogazione di Pietro Ichino [1] alla stessa Madia: «Le amministrazioni statali avrebbero urgente necessità di spostamenti ingenti di personale, nell’ambito di ciascuna provincia, dalle numerose sedi che fanno registrare evidentissime situazioni di “overstaffing” a quelle dove si registrano gravi carenze di organico. In primis le cancellerie dei Tribunali, dove mancano 7.000 persone; ma anche gli Ispettorati del lavoro e delle Asl, dove dotare ogni ispettore di uno o due assistenti consentirebbe di colmare gravi gap rispetto alle esigenze; e l’elenco potrebbe continuare…» Il bello è che l’articolo 33 del Testo unico sul pubblico impiego prevede la mobilità d’ufficio del personale delle amministrazioni pubbliche dal lontano 2001. Solo che da allora ad oggi «questa procedura non ha mai avuto alcuna applicazione».
Il Governo Monti, ricorda Ichino, ci provò. Intimando alle amministrazioni di fornire entro una certa data il numero dei dipendenti in esubero. E quella data fu più volte prorogata. Macché. «A tutt’oggi nessuna amministrazione ha dichiarato alcuna eccedenza di personale». La stessa legge «stabilisce che “la mancata attivazione delle procedure di cui al presente articolo da parte del dirigente responsabile è valutabile ai fini della responsabilità disciplinare”». Per capirci: il funzionario che non ammette gli esuberi va sottoposto a sanzioni.
Insomma, chiedeva maliziosamente il senatore già collaboratore del Corriere al neo-ministro della Funzione Pubblica: «Le risulta almeno un caso in cui si sia proceduto disciplinarmente, anche nei confronti di un solo dirigente? Se la risposta è negativa, le sembra che possa dirsi “civile” un Paese in cui la legge dello Stato è così platealmente disapplicata dallo Stato stesso?» La risposta alla prima domanda era implicita: manco uno. E implicita era anche la risposta alla seconda: no, un Paese così civile non è.