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“PERCHÉ LE DONNE NON POSSONO FARE L’AVVOCATO E TANTO MENO IL GIUDICE”

GLI ARGOMENTI CONTENUTI NELLA SENTENZA DEL 1883 E IN UN SAGGIO DI ILLUSTRE GIURISTA DEL  1957 PER GIUSTIFICARE L’ESCLUSIONE DELLE DONNE DALLA PROFESSIONE FORENSE E DALLA MAGISTRATURA

Estratto dalla motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Torino 11 novembre 1883 che ha annullato l’iscrizione all’Albo degli Avvocati e Procuratori della dott.  Lidia Poet, laureata in Giurisprudenza nel 1881, prima donna avvocato (ma per breve periodo): il testo è tratto da un saggio di Celestina Tinelli, contenuto nel libro di Ilaria Li Vigni, Avvocate. Sviluppo e affermazione di una professione, Angeli, 2013, p. 167 – Segue un estratto da E. Ranelletti, La “donna-giudice” ovverosia la “grazia” contro la “giustizia”, Giuffrè, 1957 – In Italia le donne sono state ammesse per legge alla professione forense solo nel 1919, alla magistratura solo nel 1963 – La discriminazione sistemica nei confronti delle donne nasce e si mantiene più o meno in questo modo in tutti i settori in cui essa si manifesta: nella misura in cui l’accesso a una funzione è vietato o reso difficile a un gruppo di persone, queste sono indotte a non investire nelle proprie capacità di svolgerla, così alimentando la tesi di una loro incapacità genetica e un circolo vizioso che può essere vinto soltanto con azioni positive volte a spezzarlo

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SENTENZA 11 NOVEMBRE 1883 DELLA CORTE D’APPELLO DI TORINO

[…] La questione sta tutta in veder se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria (sic) […]. Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine […]. Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile  interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qual volta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra […]. Non è questo il momento, né il luogo di impegnarsi in discussioni accademiche, di esaminare se e quanto il progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati propri soltanto dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate. […]

 

E. RANELLETTI, LA DONNA GIUDICE OVVEROSIA LA “GRAZIA” CONTRO LA “GIUSTIZIA”, (1957)

Il Ministro Moro – Segretario di Stato per la grazia e la giustizia – vuol passare… alla storia, col chiamare le donne alle funzioni giudiziarie, cioè col sacrificare la “Giustizia” alla… “grazia femminile”!

La tremenda difficoltà e responsabilità del “giudicare”

1. Evidentemente il Ministro Moro, o non conosce la donna, o si dimentica della tremenda gravità e difficoltà della funzione del giudicare!

Funzione, che richiede intelligenza, serietà, serenità, equilibrio; che va intesa come “missione”, non come “professione”; e vuole fermezza di carattere, alta coscienza, capace di resistere ad ogni influenza e pressione, da qualunque parte essa venga, dall’alto o dal basso; approfondito esame dei fatti, senso del diritto, conoscenza della legge e della ragione di essa, cioè del rapporto – nel campo penale – fra il diritto e la sicurezza sociale; ed, ancora, animo aperto ai sentimenti di umanità e di umana comprensione, ed equa valutazione delle circostanze e delle ragioni che hanno spinto al delitto, e della psiche dell’autore di esso; coscienza della gravità del giudizio, e della gravissima responsabilita del “giudicare”.

Elementi tutti, che mancano – in generale – nella donna, che – in generale – “absit injuria verbis” – è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal “pietismo”, che non è la “pietà”; e quindi inadatta a valutare obbiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.

Il Ministro Moro, che è valoroso Professore di “Diritto Penale”, deve avere constatato, coi suoi Colleghi delle altre branche del Diritto che – ad es. – la donna-studentessa della Facoltà di giurisprudenza ripete quasi sempre a memoria, incapace di penetrare l’essenza della norma, o dell’istituto giuridico su cui è interrogata.

Già il fatto che, fra le tante professioni o mestieri, pure onorevoli, e per i quali è più adatta, la donna voglia scegliere e chieda proprio quella del “giudice”, che è la più difficile, quella per la quale essa è assolutamente inadatta, quella che fa tremare le vene e i polsi a chi è cosciente della sua gravità ed altissima importanza, già questo fatto – dico – dimostra quanta poca dimestichezza la donna abbia con la… logica! Essa difetta, in particolare, di quel senso logico e giuridico, che è indispensabile per ben giudicare.

Le ottocento laureate in giurisprudenza (tante sono in Italia su 48 milioni di abitanti) – riunite in associazione (non sappiamo con quali finalità) – si sono audacemente auto-qualificate “donne giuriste”, come se a formare il “giurista” bastasse un povero diploma di laurea, molte volte strappato coi denti! La loro Associazione, infatti, è da esse chiamata, pomposamente, “Associazione delle donne giuriste”.

Più grave è un altro fatto, che dà la misura della superficialità ed inconsistenza del giudizio della donna.

In un convegno della loro Associazione, tenuto mesi or sono a Roma, una delle così dette “giuriste”, nel sostenere a spada tratta che la donna laureata in legge può e deve essere chiamata anche all’esercizio delle funzioni giudiziarie, ebbe a dire testualmente, a sostegno della sua tesi: “se gli uomini ritengono che noi donne non siamo capaci di comprendere la loro psicologia, e quindi non adatte a giudicarli, ebbene lascino a noi almeno il giudizio sulle donne, chè la psicologia di queste siamo bene in grado di capire”!

Così almeno riferirono i giornali; e le donne… “giuriste” non… zittirono, ma applaudirono!

Quella gentile “giurista” chiedeva dunque, con la massima tranquillità e consenzienti le sue colleghe, nientemeno che “il foro speciale” per le donne; e non pensava – nel suo debole senso logico e giuridico – che per la stessa ragione gli ecclesiastici dovrebbero poter chiedere ancora il foro ecclesiastico, e i commercianti quello dei commercianti, e così via: si dovrebbero cioè ricostituire i fori speciali dei secoli passati, che furono soppressi, perché repugnanti al naturale, elementare, necessario principio della unità della giurisdizione, principio che la suddetta signorina “giurista” deve per certo avere appreso nel corso dei suoi studi universitari.

Ma v’è di più: chè la strana teoria delle donne “giuriste” – portata alle sue logiche, estreme conseguenze – potrebbe essere invocata anche dai… briganti, per chiedere una Corte di Assise composta dai… loro, perché evidentemente anche la loro psicologia è… alquanto diversa da quella dei galantuomini!

[…]

Ed allora domandiamo: che cosa sarà della “Giustizia” in Italia, la “Patria del Diritto”, se domani – come sarà fatale (chè le donne elettrici sono ahimè! la maggioranza del corpo elettorale) – il “cinquanta per cento” dei posti di giudice sarà occupato – che Dio ce ne scampi e liberi! – da “giudici” in gonnella, che “non hanno il senso del diritto”?

“La Costituzione”

3. Ma le donne, così dette “giuriste” – e con esse il Ministro Moro – invocano l’articolo della Costituzione, che proclama che le donne possono anch’esse coprire uffici pubblici al pari degli uomini (art. 51).

Ma la disposizione va interpretata cum grano salis, nella sua esatta portata logica e giuridica.

Se è vero, ed è giusto, che la donna abbia il godimento di tutte le libertà e dei diritti fondamentali dell’uomo, è vero pure che non si può non tener conto, nel supremo interesse della società civile, giuridicamente organizzata, e della stessa donna, – sia delle differenze organiche della costituzione fisica e psichica della donna, sia delle particolari funzioni e mansioni ad essa affidate, soprattutto nella famiglia.

La disposizione della Costituzione va dunque intesa in armonia con queste superiori esigenze e necessità; e non si può, e non si deve quindi chiamare la donna a funzioni, per le quali essa non è adatta per la sua stessa costituzione organica, o che le impediscano di attendere e di compiere le altre mansioni di sua specifica competenza.

E come non si può – ad es. – chiamare, e non si chiama, la donna al servizio militare, per il quale è fisicamente inadatta, così non la si deve chiamare ad altre funzioni non confacenti alla sua personalità – fisica e spirituale; e fra queste principalmente – noi pensiamo – alle funzioni giudiziarie, ed a quelle diplomatiche, che Palazzo Chigi le ha purtroppo aperte con non lodevole precipitazione e con poca saggezza.

Non si invochi la “uguaglianza e parità dei sessi”!

Se i sessi sono diversi, diverse sono le funzioni ad essi demandate; e l’uno non può pretendere di esercitare le funzioni dell’altro. La donna soprano non potrà certo pretendere di cantare da tenore o da… basso, ed il tenore ed il basso non potranno certo voler cantare da soprano: e le donne, che, in generale, sono costituzionalmente più deboli, non potranno pretendere di fare i lavori di… Maciste.

Dio creò la donna quale collaboratrice dell’uomo; e diede ad essi organi, e costituzione, e psicologia diverse, appunto peché diverse sono le mansioni e funzioni a cui ciascuno è chiamato. La donna è chiamata a collaborare con l’uomo al raggiungimento dei fini spirituali e materiali della nostra povera vita terrena, specialmente nella creazione e nel governo della famiglia, e non perché diventi la concorrente, l’antagonista, o il doppione dell’uomo, che ne usurpi le funzioni ed i lavori, diventi cioè la sabotatrice di lui.

[…]

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