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LA MIA RELAZIONE SUL DECRETO POLETTI IN SENATO

IL NESSO TRA IL DECRETO E IL DISEGNO DI RIFORMA ORGANICA CHE PREVEDE IL CODICE SEMPLIFICATO E L’INTRODUZIONE DEL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO INDETERMINATO A PROTEZIONE CRESCENTE – L’IMPATTO DELLA NUOVA DISCIPLINA DEL CONTRATTO A TERMINE SULL’APPARATO SANZIONATORIO  

Relazione introduttiva della discussione sul  disegno di legge n. 1464/2014, di conversione in legge del d.-l. n. 34/2014, svolta in apertura della seduta pomeridiana del Senato, 6 maggio 2014 – E on line anche la mia replica conclusiva [1] della stessa discussione – In argomento v. pure il mio editoriale telegrafico del 5 maggio, Perché quel “preambolo è importante [2],  e gli emendamenti al decreto-legge n. 34/2014 [3] concordati tra i partiti di maggioranza e presentati venerdì dal Governo in Commissione Lavoro del Senato

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PRESIDENTE – L’ordine del giorno reca discussione sul  disegno di legge n. 1464/2014, di conversione in legge del d.-l. n. 34/2014. Il relatore, senatore Ichino, ha chiesto di poter svolgere la relazione orale. Ne ha facoltà.

ICHINO – Signor Presidente, colleghi, il decreto-legge alla cui discussione ci stiamo accingendo costituisce la prima tappa di un disegno ambizioso di trasformazione del mercato del lavoro italiano.

1. Il disegno complessivo

Con la riforma delineata nel disegno di legge-delega – A.S. 1428/2014 -, il cui esame da parte della Commissione Lavoro è già in corso, il Governo si propone di semplificare incisivamente l’impianto della nostra legislazione di fonte nazionale in materia di lavoro e di modificarne il contenuto essenziale secondo il modello della flexsecurity, oggetto delle raccomandazioni ripetutamente rivolte negli anni recenti dall’Unione Europea agli Stati membri: un modello che implica essenzialmente la coniugazione del massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza professionale ed economica delle persone coinvolte nelle crisi occupazionali e nei processi di mobilità dai vecchi posti di lavoro ai nuovi. Sicurezza, dunque, non più costruita sull’ingessatura del rapporto di lavoro, bensì sull’efficacia del sostegno del reddito e dell’assistenza assicurata alle persone interessate dagli inevitabili passaggi tra posti di lavoro diversi, che già costituiscono e sempre più costituiranno eventi fisiologici, del tutto normali, nella vita professionale di ciascuno.
Nell’immediato, in via provvisoria e d’urgenza, il decreto-legge al cui esame ci stiamo accingendo mira essenzialmente ad anticipare gli effetti di questa riforma, allentando subito i vincoli concernenti la costituzione dei rapporti di lavoro secondo i nuovi principi cui si ispirerà l’ordinamento delineato nel disegno di legge-delega. Esso, dunque, rimuove in parte il diaframma di natura normativa che oggi ostacola indebitamente l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, con l’intendimento di produrre fin d’ora uno shock positivo sul mercato, un aumento sensibile del flusso delle assunzioni di lavoratori nelle aziende. Se è vero, infatti, che le norme non hanno il potere di “creare lavoro”, è altrettanto vero, però, che esse hanno il potere di impedire l’incontro fra domanda e offerta nel mercato dell’occupazione. E proprio questo appare oggi il caso del nostro Paese, dove un diritto del lavoro ancora strutturato nella sua parte centrale secondo le caratteristiche del tessuto produttivo di cinquant’anni or sono mal si adatta alla fluidità – e persino, in alcuni suoi segmenti, volatilità – del tessuto produttivo attuale.
Alle imprese italiane oggi si prospettano le opportunità straordinarie offerte dal combinarsi dell’incipiente uscita del Paese dalla recessione con una ripresa economica già avviata nel resto del Continente e con gli effetti benefici di Expo 2015; ma le imprese stesse si trovano a operare in condizioni di altrettanto straordinaria incertezza riguardo al futuro, anche a breve termine. Un’incertezza che non ha l’uguale in alcun altro periodo precedente nell’ultimo secolo, perché essa deriva non soltanto dall’imprevedibilità del quando e del quanto dell’inversione del trend congiunturale nazionale, ma anche dall’imprevedibilità di variabili geopolitiche globali che mai quanto oggi hanno avuto il potere di sconvolgere i mercati interni e internazionali. D’altra parte, l’accelerazione del ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate, dei materiali utilizzati per la produzione, degli stessi prodotti, induce a pensare che anche per questo aspetto la maggiore incertezza riguardo al futuro prossimo caratterizzerà stabilmente il contesto in cui le nostre imprese dovranno operare, pur in presenza di prospettive nettamente migliori rispetto al recente passato.
La metà in espansione delle nostre imprese incomincia dunque finalmente ad avere la possibilità di aumentare in misura assai rilevante la propria domanda nel mercato del lavoro, consentendo al Paese di recuperare rapidamente le quote di occupazione perdute nell’ultimo quinquennio; ma essa è frenata dal rischio che il contesto generale, o quello particolare che riguarda ciascuna impresa, possa mutare in senso negativo anche nel breve giro di pochi anni, se non addirittura di pochi mesi. Anche il sistema dei servizi nel mercato del lavoro e delle norme che regolano questo mercato deve adattarsi a un tessuto produttivo più mobile e fluido; e questo adattarsi deve avvenire molto rapidamente, se vogliamo consentire alla parte più vitale del nostro sistema produttivo di approfittare della ripresa già in atto nel resto del continente e al sistema Italia di recuperare il più rapidamente possibile il terreno perduto nel corso della crisi, sfruttando ogni occasione di incremento del lavoro. Anche i rivoli più deboli ed esposti a un rischio di inaridimento.
Il nesso genetico e funzionale tra il decreto oggi al nostro esame e il disegno di legge-delega (A.S. 1428/2014), che delinea la riforma compiuta e organica dell’ordinamento del mercato del lavoro, è esplicitato nella proposizione che apre il primo comma dell’articolo 1 del decreto stesso, nel testo approvato ieri dalla Commissione Lavoro. Dove si precisa che le disposizioni  recate dal provvedimento d’urgenza sono destinate a collocarsi nel quadro di una riforma complessiva mirata a costruire la sicurezza economica e professionale delle persone che lavorano non mediante l’ingessatura dei singoli rapporti di lavoro, i quali dovranno invece essere tutti – sia quelli a termine, sia quelli a tempo indeterminato – caratterizzati dalla necessaria flessibilità, bensì mediante una congrua garanzia della continuità del reddito e di un investimento sulla efficace riqualificazione delle persone che per qualsiasi motivo perdano un lavoro, mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti.
L’esplicitazione di questo nesso tra il decreto e la riforma organica già in cantiere è necessaria anche per escludere che l’intendimento del legislatore oggi sia quello di fare del contratto di lavoro a termine il solo strumento a disposizione delle imprese per rispondere alla situazione di forte incertezza di cui si è detto. Al contrario, il carattere di una marcata adattabilità ai mutamenti di contesto e di esigenze del tessuto produttivo dovrà riguardare tutti i tipi contrattuali del rapporto di lavoro, anche a tempo indeterminato, secondo i migliori esempi che ci si offrono soprattutto nel centro e nord-Europa. In questa prospettiva si colloca l’impegno del Governo e della maggioranza, esplicitato nel primo comma del primo articolo del decreto, per la sperimentazione del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente.
La riforma dovrà inoltre rispondere incisivamente all’esigenza di una drastica semplificazione della legislazione del lavoro, oggi caoticamente ipertrofica e scritta in maniera illeggibile anche per gli esperti (su questo punto tornerò alla fine di questa relazione). E di una drastica semplificazione degli adempimenti burocratici richiesti agli imprenditori, che contribuiscono ad aumentare indebitamente i costi di transazione nel nostro mercato del lavoro. In questa prospettiva si colloca l’impegno del Governo, questo pure esplicitato nel primo comma del primo articolo del decreto, per l’emanazione di un codice semplificato del lavoro; e a questa esigenza si è ispirata nei giorni scorsi la Commissione nel selezionare gli emendamenti da accogliere tra quelli proposti, anche da parte dell’opposizione. Su alcuni di questi, riferiti in particolare agli articoli 4 e 5 del decreto, il Governo ieri si è riservato una riflessione e essere oggetto di una attenta valutazione da parte di questa Assemblea.

2. La parte del decreto riguardante la disciplina del contratto a termine (articolo 1)

Il decreto al nostro esame si fa dunque carico in via di urgenza dell’esigenza di consentire alle imprese lo sfruttamento di qualsiasi opportunità di aumento del volume produttivo e degli organici, intervenendo con effetto immediato in modo incisivo ed efficace sulla possibilità di utilizzare lo strumento del contratto a termine. Il primo comma dell’articolo 1 rimuove drasticamente il vincolo della motivazione non soltanto per il primo contratto a tempo determinato con cui una persona viene ingaggiata entro il limite temporale di dodici mesi (come già consentito dalla legge n. 92 del 2012), ma anche per i rinnovi o proroghe fino a un limite massimo complessivo di trentasei mesi. Il dettato della direttiva europea n. 70 del 1999 viene rispettato col mantenere, insieme al limite complessivo triennale di cui si è detto, l’imposizione di un limite percentuale massimo – pari al 20 per cento dell’organico stabile censito al 1° gennaio dell’anno in corso – di rapporti di lavoro a termine in ciascuna azienda. L’abbassamento del numero massimo delle proroghe del contratto a termine da otto a cinque, con cui la Camera dei Deputati ha ritenuto di imporre una durata media non inferiore a sei mesi di ciascun periodo contrattuale convenuto tra le parti, nei casi in cui il rapporto copra l’intero triennio consentito (lettera b del comma 1), non sembra alterare significativamente la portata dell’innovazione normativa.
Con questo intervento legislativo, dunque, l’Italia sfrutta quasi integralmente – sia pure con un buon margine di sicurezza costituito dall’applicazione di due su tre dei vincoli previsti come alternativi tra loro dalla direttiva – lo spazio consentito dall’ordinamento europeo per la diffusione del contratto a termine. Con questo si compie una svolta assai rilevante nel nostro diritto del lavoro (della quale vedremo tra breve le conseguenze anche sul piano dell’apparato sanzionatorio): il contratto a termine non è più considerato dal nostro ordinamento nazionale come “socialmente pericoloso”; esso non richiede, dunque, più una “giustificazione” che gli consenta di superare la presunzione negativa che dal 1962 per mezzo secolo lo ha accompagnato. La sola cautela che circonda il suo utilizzo d’ora in poi – secondo uno standard che accomuna tutti i Paesi europei più progrediti, dalla vicina Svizzera alla Gran Bretagna, dai Paesi Bassi alla Germania e alla Svezia – è mirata a evitare che il contratto a termine diventi la forma normale del lavoro nell’impresa, ovvero il tipo negoziale predominante fra i contratti di lavoro di cui l’impresa è titolare: questo e solo questo è ciò che il limite del 20 per cento riferito all’organico aziendale si propone di evitare.
Per tranquillizzare chi nelle ultime settimane ha ha ritenuto di denunciare il dilagare del contratto a termine come forma normale di impiego nel nostro Paese, va ricordato che in Italia a fine 2013, in termini di stock, i rapporti di lavoro a termine erano il 13,8 per cento, a fronte del 15 per cento della Francia, del 14,7 della Germania e di una media europea che si aggira intorno al 15 per cento.
Se un difetto può essere ravvisato in questa parte del provvedimento al nostro esame, esso consiste semmai nel fatto che essa finisce coll’offrire alle imprese e ai lavoratori un solo sotto-tipo legale del rapporto di lavoro dipendente ordinario per far fronte alla straordinaria incertezza anche nel breve periodo: quello del contratto a termine. Un contratto, questo, che paradossalmente presupporrebbe per sua natura, al contrario, l’accordo programmatico tra le parti su di una collaborazione della quale fosse prevedibile tanto il perdurare dell’utilità per l’impresa per un periodo precisamente predeterminato, quanto il venir meno dell’utilità medesima alla fine del lasso di tempo convenuto. A ben vedere, la forma giuridica di rapporto di lavoro che, invece, per sua natura meglio si adatterebbe all’incertezza circa il futuro, a breve e medio termine, sarebbe quella di un contratto a tempo indeterminato dal quale ciascuna delle parti potesse almeno nei primi anni, sopportando un costo di separazione predeterminato e ragionevole, recedere dal rapporto nel momento in cui venisse meno l’interesse alla prosecuzione della collaborazione, essendo garantito in tal caso al lavoratore il necessario sostegno nel mercato; questa forma giuridica resta invece regolata secondo uno schema – inaugurato nel settore privato circa mezzo secolo fa, sostanzialmente sul modello dell’impiego pubblico – corrispondente a un tessuto produttivo nel quale era normale che una persona entrasse in azienda in giovane età e ivi rimanesse a lavorare per trenta o quarant’anni, fino al momento del pensionamento. Nell’ultimo quindicennio questa forma tradizionale di rapporto di lavoro a tempo indeterminato è divenuta sempre più inaccessibile per le nuove generazioni; ed è venuta progressivamente perdendo terreno nei flussi delle assunzioni regolari documentati dalle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, rispetto alle altre forme di rapporto di lavoro, caratterizzate dalla fissazione di un termine finale: il 21,4 per cento di assunzioni a tempo indeterminato sul flusso totale dei contratti del 2009 si è ridotto al 16,5 per cento nel 2013 (mentre la frazione delle assunzioni a termine, sempre in termini di flusso, è nello stesso periodo aumentata dal 62,7 al 68 per cento).
È certamente positivo che, in questo passaggio cruciale per la nostra economia, il ricorso al contratto a termine da parte delle imprese per la prima fase di inserimento di una persona nel tessuto aziendale venga molto facilitato; ma l’obiettivo della facilitazione dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro dovrà, in sede di riforma organica, essere perseguito anche attraverso una facilitazione del contratto a tempo indeterminato, che costituisce e deve continuare a costituire la forma normale del rapporto di lavoro, recuperando terreno anche in termini quantitativi rispetto a quello a termine. Questo è il disegno cui allude – come si è visto – il “preambolo” inserito nel primo comma dell’articolo 1, là dove esso menziona l’introduzione del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente.
Sul testo dell’articolo 1, come modificato in prima lettura dalla Camera dei Deputati, la Commissione Lavoro del Senato ha apportato ieri – su iniziativa del Governo –  tre emendamenti.

2.1. – Il primo (comma 1, lettera b-sexies) mira a chiarire che l’obbligo di informazione gravante sul datore di lavoro nei confronti della persona assunta con contratto a termine, circa il suo diritto di precedenza nella riassunzione, può e deve essere assolto con il richiamo del diritto in questione nello stesso documento contenente il nuovo contratto di lavoro, non essendo necessaria la consegna di un documento apposito.

2.2. – Il secondo emendamento (comma 1, lettera b-septies) riguarda la sanzione civile destinata ad applicarsi nel caso in cui il contratto a termine sia stato stipulato in eccedenza rispetto al limite del 20 per cento dell’organico aziendale. La sanzione prevista consiste in una ammenda amministrativa, pari a un quinto della retribuzione complessiva oggetto del contratto in questione per il primo caso di superamento nella singola unità produttiva, che aumenta alla metà della retribuzione complessiva per i casi successivi. Questa scelta è stata vivacemente contestata nei giorni scorsi in Commissione dai Colleghi del Movimento 5 Stelle e di Sinistra Ecologia e Libertà, e fuori dal Parlamento da Cgil, Cisl e Ugl – ma non dalla Uil – per il suo contenuto innovativo rispetto alla sanzione tradizionalmente applicabile, nel nostro ordinamento giuslavoristico, nei casi di questo genere, cioè rispetto alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. Ciò che ha indotto Governo e maggioranza a questo nuovo orientamento è una triplice considerazione.
–      Viene in rilievo innanzitutto l’evidente irrazionalità di una sanzione che comporti la stabilizzazione non del contratto a termine stipulato in azienda da maggior tempo, ma di quello stipulato per ultimo.
–      Va considerato inoltre il mutamento del presupposto negoziale tipico che giustifica il vecchio orientamento giurisprudenziale nel senso della conversione a tempo indeterminato. Questo orientamento tradizionale si è sempre fondato sulla presunzione secondo la quale il termine finale pattuito costituisce, nell’intendimento dell’imprenditore stipulante, soltanto un espediente per eludere la disciplina del licenziamento, ma non un elemento essenziale del contratto, poiché l’imprenditore stesso lo avrebbe comunque stipulato anche senza quella clausola, cioè a tempo indeterminato (se si prescindesse da questo presupposto non si giustificherebbe che, essendo dichiarata nulla l’apposizione del termine, il contratto venga tuttavia conservato in vita e stabilizzato). Se, invece – come nella situazione di incertezza enormemente maggiore rispetto al passato in cui oggi operano le nostre aziende –, si deve ritenere che il termine apposto costituisca per lo più elemento essenziale del contratto, poiché senza quel termine esso non sarebbe stato stipulato, allora la sanzione per l’irregolarità del termine apposto non può evidentemente più consistere nella nullità dell’apposizione del termine accompagnata dalla conversione del contratto stesso in contratto a tempo indeterminato.
–      Va infine considerato che, se il contratto a termine – come si è visto – non è più considerato in sé una anomalia che necessita una specifica giustificazione per essere ammessa dall’ordinamento, bensì un tipo contrattuale di cui l’impresa può avvalersi liberamente per il primo inserimento di un lavoratore in azienda, la sanzione correlata a una circostanza estrinseca rispetto al singolo contratto (ovvero il fatto che ci sia già un 20 per cento di dipendenti assunti in quella forma) non può evidentemente più consistere come in passato nella conversione a tempo indeterminato, ma può e deve consistere in un altro disincentivo, efficace ma non sconvolgente rispetto all’assetto negoziale dei rapporti tra le parti. In altre parole, la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato genera una discrasia tra sanzione e interesse leso: quest’ultimo non è infatti l’interesse del singolo lavoratore ultimo entrato in azienda, bensì l’interesse generale a che almeno quattro quinti degli organici aziendali siano con contratto a tempo indeterminato.Il discorso si sposta così dalla ratio della scelta di una tecnica sanzionatoria diversa rispetto al passato alla ratio della quantificazione della sanzione pecuniaria. La sua determinazione nel 20 per cento della retribuzione lorda corrisponde all’intendimento, per un verso, di collocare l’esborso al di sopra del “ricarico” normalmente praticato dalle agenzie specializzate nella somministrazione di manodopera, il quale si aggira per lo più intorno al 15 per cento della retribuzione lorda; all’intendimento, per altro verso, di non penalizzare in modo eccessivo il primo sforamento rispetto al limite, che può essere causato da mera imprecisione nel computo degli organici aziendali. Quando invece il contratto a termine eccedente il limite non sia il primo, la sanzione aumenta al 50 per cento della retribuzione: un aumento di costo evidentemente idoneo a scoraggiare efficacemente qualsiasi abuso, senza generare la distorsione e l’irrazionalità della stabilizzazione del solo “ultimo contratto stipulato”. È mirata a precisare gli intendimenti del legislatore nell’emanare l’articolo 1, con l’importante emendamento del Governo di cui ho detto, e dunque l’interpretazione corretta della nuova disposizione, una serie di ordini del giorno ieri accolti dal Governo stesso nel corso dell’esame del decreto in Commissione:

–      gli o.d.g. n. 1/11 e n. 3/11, i quali chiariscono, con particolare ma non esclusivo riferimento ai settori del commercio, del turismo e dello spettacolo, che i limiti posti dall’articolo 1 non si applicano alla successione di anno in anno di nuovi contratti a termine tra lo stesso datore e lo stesso prestatore di lavoro (lo stesso, ovviamente, vale in riferimento al settore agricolo, per il quale resta in vigore l’esclusione disposta dall’articolo 10, comma 2 del d.lgs. n. 369/2001): la materia dei rinnovi, in attesa della sistemazione organica della materia demandata alla già citata legge-delega (d.d.l. n. 1428/2014) e al decreto legislativo che ne seguirà, resta regolata dalle disposizioni dettate in proposito dall’articolo 5 del d.lgs n. 368/2001, così come ;

–      l’o.d.g. n. 2/11, che esplicita ulteriormente quanto già disposto dall’articolo 10, comma 7, del d.lgs. n. 368/2001 circa il carattere sussidiario dell’intervento legislativo rispetto alla contrattazione collettiva e quindi la facoltà stabilmente attribuita in via prioritaria dall’ordinamento all’autonomia collettiva di regolare diversamente i limiti in materia di contratti di lavoro a termine; questo vale, in particolare, per l’esenzione degli start up – ovvero delle imprese in fase nascente – dai limiti riferiti alla percentuale di contratti a termine in organico;

–      gli o.d.g. n. 4/11 e n. 18/11, il quale ribadisce quanto già stabilito dal d.lgs. n. 368/2001 e dalla direttiva europea n. 2008/1004 nel senso della esclusione dal campo di applicazione della disciplina del contratto a termine di tutti i rapporti inerenti al lavoro in somministrazione tramite agenzia;

–      l’o.d.g. n. 21/11, che impegna il Governo a operare in sede di interpretazione e applicazione della nuova norma in modo da evitare che ne risulti una compressione della possibile durata del contratto a termine per sostituzione di persona in congedo a norma dell’articolo 33 del d.lgs. n. 151/2001;

–      infine l’o.d.g. n. 22/11, che, a tutela di entrambe le parti del rapporto, esplicita la delimitazione della portata della sanzione comminata per il contratto a termine eccedente il limite di organico: sanzione che opera soltanto sul piano amministrativo, comportando l’esborso pecuniario a carico del datore di lavoro ed escludendosi qualsiasi sanzione ulteriore sul piano civilistico: il contratto resta valido ed efficace, produce tutti i propri effetti fino al termine pattuito, e nessun risarcimento è dovuto al singolo prestatore interessato, poiché nel nuovo contesto ordinamentale l’apposizione del termine al contratto, se stipulata nella forma dovuta, è in sé legittima, non necessitando di alcuna giustificazione.

2.3. Il terzo emendamento all’articolo 1 consiste nell’aggiunta al comma 1 di una lettera b-octies contenente l’esonero dal limite massimo del 20 per cento di persone assunte a termine nell’organico aziendale per i ricercatori e il personale tecnico degli istituti pubblici o privati di ricerca scientifica (primo periodo); consente inoltre che il contratto a termine in questo caso possa avere corso fino al compimento del progetto di ricerca in funzione del quale esso è stato stipulato (secondo periodo).
Entrambe le disposizioni si giustificano in considerazione del fatto che nel settore della ricerca scientifica l’ingaggio a termine secondo lo schema del triennio, quadriennio o quinquennio eventualmente suscettibile di raddoppio costituisce uno standard comunemente applicato e rispettato sul piano internazionale e come tale già praticato – in questo settore – anche nel nostro Paese.
È stata sottolineata in Commissione, a questo proposito, l’opportunità che la (sola) seconda disposizione – ovvero l’esenzione dal limite di durata complessiva del rapporto a termine – sia estesa anche ai contratti stipulati con ricercatori in funzione di progetti di ricerca da imprese o fondazioni che non abbiano la ricerca come propria attività prevalente. Giova sottolineare, a questo proposito, che nella maggior parte dei casi di progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea i bandi stessi ne prevedono la durata quinquennale; e appare davvero inopportuno che la partecipazione a questi bandi sia preclusa alle imprese italiane soltanto a causa del limite ordinario dei 36 mesi posto dall’articolo 1 del decreto. Osservo a questo proposito che la seconda disposizione contenuta nell’emendamento del Governo già ora, nella formula approvata dalla Commissione, va interpretata in questo senso; la separazione delle due proposizioni in due alinea distinti può rendere più chiara e inequivocabile la diversità dei campi di applicazione delle due disposizioni.
Va anche ricordato, al riguardo, che – se si esclude il settore dirigenziale – soltanto nel settore della ricerca le imprese sono disponibili a stipulare contratti a termine di durata superiore a tre anni, che configurano un rapporto assai rigido, escludendo drasticamente la facoltà di recesso per un periodo relativamente lungo. Sarebbe davvero irragionevole vietarlo.

3. Le nuove disposizioni riguardanti l’apprendistato (articolo 2)

L’articolo 2 del decreto al nostro esame interviene sulla materia del contratto di apprendistato, apportando alcune novelle al testo unico in vigore (d.lgs. n. 167/2011). Il comma 1, lettera a), numero 1 di questo articolo, come modificato dalla Camera dei Deputati e approvato dalla Commissione Lavoro del Senato, prevede che il contratto scritto contenga il piano formativo individuale

fin dall’inizio, mentre la disciplina previgente prevedeva un termine di 30 giorni dall’inizio del rapporto per la sua redazione, e il testo originario del decreto al nostro esame eliminava del tutto questo obbligo;

– ma in forma sintetica, mentre la disciplina previgente prevedeva la necessità di una sua definizione dettagliatamente compiuta, che favoriva il sorgere di contenzioso giudiziale ex post circa la perfezione dell’adempimento dell’obbligo formativo.

Le disposizioni che compaiono sotto i numeri 2 e 3 della stessa lettera a) modificano la regola previgente che condizionava la possibilità di assunzione di nuovi apprendisti da parte di imprese con più di 10 dipendenti a una percentuale del 30 per cento (50 per cento dal 19 luglio 2015) di conversione di rapporti di apprendistato in contratti di lavoro ordinario nel periodo precedente. In particolare, mentre il testo originario del decreto dispone la soppressione di quella condizione, il testo al nostro esame la ripristina:
– elevando a 50 dipendenti la soglia dimensionale al di sopra della quale la condizione si applica (la soglia, fissata a 30 dipendenti nel testo della Camera, è stata così aumentata da un emendamento approvato dalla Commissione Lavoro);
– abbassando al 20 per cento la percentuale minima di conversione di rapporti di apprendistato precedenti in contratti di lavoro ordinario per l’assunzione di nuovi apprendisti;
– riferendo la suddetta percentuale al triennio precedente la costituzione di nuovi contratti di apprendistato;
– resta invece invariata rispetto alla previgente la disciplina, invero assai complessa, dei criteri di computo dei rapporti di apprendistato convertiti in lavoro ordinario e delle franchigie per l’impresa.

Sotto la lettera b) dello stesso articolo 2 compare una disposizione che fissa un criterio per la determinazione della retribuzione dell’apprendista, applicabile per default laddove manchi una disposizione collettiva applicabile.

La disposizione di cui alla lettera c) concerne la formazione del lavoratore assunto con contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere. Questa la sua evoluzione:

la normativa vigente fino al 20 marzo 2014 prevedeva che tale formazione oggetto del contratto fosse integrata, nei limiti delle risorse annualmente disponibili, dalla formazione di iniziativa pubblica (da svolgersi all’interno o all’esterno all’azienda), intesa all’acquisizione di competenze di base e trasversali, per un monte complessivo non superiore a 120 ore per la durata del triennio e disciplinata dalle regioni, sentite le parti sociali e tenuto conto dell’età, del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista;

   la novella nel testo originario del decreto era intesa a rendere facoltativa tale componente pubblica della formazione;

nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla Camera, la componente in esame era posta come obbligatoria, ma si introduceva una fattispecie di esclusione dall’obbligo per il datore di lavoro: l’esenzione era riconosciuta qualora la Regione non provvedesse a comunicare al datore di lavoro, entro 45 giorni dall’ordinaria comunicazione della costituzione del rapporto al Centro per l’impiego competente per territorio, le modalità per usufruire dell’offerta formativa pubblica, secondo le linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome il 20 febbraio 2014;

nel testo risultante dall’emendamento approvato dalla Commissione Lavoro, la Regione ha in ogni caso l’obbligo di comunicare entro 45 giorni all’impresa che avvia contratti di apprendistato lo specifico calendario dell’attività formativa che essa organizza; la Regione stessa può, nell’adempimento della propria funzione di erogazione del servizio formativo, avvalersi anche dell’impresa stessa o dell’associazione cui questa aderisce, se disponibili.

Una disposizione ulteriore qui inserita dalla Camera dei Deputati come comma 2-bis prevede che i contratti di apprendistato, facenti parte del programma sperimentale – da definirsi con decreto del Ministro dell’istruzione, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’economia e delle finanze – per lo svolgimento di periodi di formazione in azienda per gli studenti degli ultimi due anni delle scuole secondarie di secondo grado per il triennio 2014-2016, possano essere stipulati anche in deroga ai limiti di età stabiliti per i contratti di apprendistato di alta formazione e di ricerca. Va osservato che per questi ultimi il limite minimo di età è pari a diciotto anni (oppure diciassette anni, per i soggetti in possesso di una qualifica professionale, conseguita nell’ambito del sistema educativo di istruzione e formazione), mentre il limite massimo di età è pari a ventinove anni. Considerato che il programma concerne le scuole secondarie (di secondo grado), potrebbe essere opportuno esplicitare che la deroga va intesa come riferita al solo limite di età minimo.

Un ulteriore emendamento opportunamente apportato, sempre su iniziativa del Governo, in materia di apprendistato consiste nel ripristino della possibilità dell’apprendistato stagionale nelle Regioni, o Province autonome, che abbiano attivato il sistema di apprendistato cosiddetto “duale”, consistente nell’alternanza scuola-lavoro.

Anche in riferimento alle nuove disposizioni in materia di apprendistato un ordine del giorno (n. 19/11) accolto dal Governo esplicita l’impatto prodotto dalla nuova disciplina del contratto a termine sul sistema sanzionatorio, anche per ciò che riguarda l’eventuale inadempimento dell’obbligo formativo da parte del datore di lavoro nel contratto di apprendistato: esso produce la conversione in contratto di lavoro ordinario, con le relative conseguenze in materia di differenze retributive e contributive, ma con termine corrispondente al periodo di apprendistato originariamente pattuito tra le parti.

Altri tre ordini del giorno identici (n. 5-6-7/11) sono stati accolti dal Governo, in materia di Libretto elettronico formativo dell’apprendista.

4. La norma transitoria relativa ai limiti di applicabilità delle nuove disposizioni in materia di contratto a termine e di apprendistato (articolo 2-bis)

L’articolo 2-bis, inserito nel decreto dalla Camera dei Deputati, definisce alcuni profili transitori relativi alle modifiche della disciplina in materia di contratti di lavoro a termine e di contratti di apprendistato, di cui, rispettivamente, agli articoli 1 e 2 esaminati sopra.

Il comma 1 di questo articolo specifica che le disposizioni di cui ai due articoli precedenti si applicano ai rapporti di lavoro costituiti successivamente all’entrata in vigore del decreto e che sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalle norme recate dal decreto stesso e poi modificate o soppresse in sede di conversione in legge. Qui un emendamento ha corretto un’imprecisione nella formulazione originaria della disposizione, chiarendo il dies a quo dell’applicabilità della nuova disciplina.

Il comma 2 stabilisce che, in sede di prima applicazione, conservano la loro efficacia le clausole collettive di livello nazionale le quali dispongano limiti quantitativi diversi, per la stipulazione di contratti a termine, rispetto a quello del 20 per cento dell’organico aziendale, previsto nell’articolo 1. La disposizione si riferisce soltanto alla contrattazione collettiva di livello nazionale, in quanto per quella di livello aziendale o territoriale vale la regola posta dall’articolo 8 del d.-l. n. 138/2011.

Il comma 3, opportunamente corretto dalla Commissione Lavoro al solo fine del chiarimento del suo significato e contenuto pratico, dispone in via transitoria che qualora un datore di lavoro si trovi, all’entrata in vigore della nuova disciplina, con un numero di contratti a termine superiore al limite del 20 per cento dell’organico aziendale complessivo, ed entro la fine dell’anno in corso tale eccedenza non si riassorba, non sarà consentita l’assunzione di altro personale a termine fino a che il numero dei contratti a tempo determinato in azienda non rientri nel limite. La norma fa salvi comunque gli effetti del contratto collettivo che stabilisca un limite più largo.

 

5. Le disposizioni in materia di iscrizione all’elenco anagrafico (articolo 3)

Il comma 1 dell’articolo 3 – nel quale la Camera ha operato modifiche esclusivamente formali – specifica che nell’elenco anagrafico dei servizi pubblici per l’impiego possono iscriversi anche i cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea e i soggetti extracomunitari regolarmente soggiornanti in Italia. Ricordo in proposito che nell’elenco anagrafico possono iscriversi tutti i soggetti aventi l’età prevista per l’ammissione al lavoro, indipendentemente dallo stato di occupazione o disoccupazione e dal luogo di residenza. L’unico rilievo, su questo punto, riguarda il fatto che il comma in esame novella un atto di rango regolamentare, così legificando una materia che dovrebbe essere per sua natura riservata alla discrezionalità del Governo in sede di applicazione della regola generale posta dalla legge: poco male in questo caso, salvo osservare che l’ordinamento del lavoro nel nostro Paese soffre di una grave ipertrofia legislativa cui contribuiscono numerosissime disposizioni che – al pari di quella qui in esame – non dovrebbero essere oggetto di provvedimenti di natura legislativa, ma di provvedimenti di rango inferiore, quando non dovrebbero essere riservate all’autonomia collettiva.

Anche nel comma 2 la Camera ha operato modifiche esclusivamente formali. Esso prevede che, ai fini della sussistenza dello “stato di disoccupazione” (a norma del d.lgs. n. 181/2000), la dichiarazione dell’interessato, che attesti l’eventuale attività lavorativa precedentemente svolta, nonché l’immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa, può essere resa presso qualsiasi servizio pubblico per l’impiego competente, mentre la norma previgente faceva riferimento al solo servizio pubblico nel cui ambito territoriale si trovi il domicilio attuale del soggetto. La disposizione – che va nella direzione di una semplificazione burocratica per il lavoratore interessato e che prepara il terreno a un regime di concorrenza (anche) tra Centri pubblici per l’impiego nell’offerta di servizi utili ai disoccupati – trova un precedente conforme nell’articolo 4, comma 38, della legge n. 92/2012, il quale prevede che la stessa dichiarazione, quando sia finalizzata a una domanda di indennità ASpI, possa essere resa dall’interessato all’INPS, il quale trasmette la dichiarazione al servizio competente per territorio mediante il sistema informativo relativo agli ammortizzatori sociali.

Un emendamento approvato dalla Commissione Lavoro prevede che la comunicazione di cui al comma 2 possa avvenire anche per mezzo della posta elettronica certificata (PEC).

 

6. Le disposizioni in materia di verifica telematica della regolarità contributiva (articolo 4)

I commi da 1 a 4 e i commi 5-bis e 6 dell’articolo 4 prevedono la costituzione di un sistema telematico di verifica della regolarità contributiva. Il comma 5 concerne invece le erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, di natura pubblica, nei casi di inadempimento degli obblighi di contribuzione previdenziale ed assistenziale.

La definizione di un sistema telematico di verifica della regolarità contributiva è demandata a un decreto del ministro del Lavoro da emanarsi nel rispetto dei termini temporali e della procedura di cui all’alinea del comma 2. La suddetta verifica della regolarità contributiva, operante a decorrere dall’entrata in vigore del decreto ministeriale, sostituisce (comma 1) il documento unico di regolarità contributiva (DURC) per tutte le fattispecie che richiedono quest’ultimo, tranne le ipotesi di esclusione individuate dal medesimo decreto ministeriale. Per le imprese edili, la verifica in questione concerne, oltre alla contribuzione da versare all’INPS e all’INAIL, quella da corrispondere alle Casse edili. L’interrogazione telematica può essere effettuata da chiunque vi abbia interesse, compresa – secondo una specificazione introdotta nella disposizione dalla Camera – la medesima impresa. La risultanza dell’interrogazione telematica ha una validità di 120 giorni.

Il menzionato decreto ministeriale definisce, secondo i criteri indicati nel comma 2, i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché, come detto, le ipotesi in cui essa non è sostitutiva del DURC. Il decreto può essere successivamente aggiornato sulla base delle modifiche normative o dell’evoluzione dei sistemi telematici (comma 4).

L’interrogazione telematica è valida (comma 3) ai fini della verifica circa l’eventuale sussistenza della preclusione della concessione di servizi, lavori e forniture pubblici e della partecipazione ad appalti e subappalti pubblici: preclusione derivante[4] [4] da violazioni gravi, definitivamente accertate, delle norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui i soggetti siano stabiliti.

Il comma 5-bis – inserito dalla Camera – prevede che il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, decorsi dodici mesi dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale, presenti una relazione alle Camere sull’attuazione del sistema telematico suddetto.

La novella di cui al comma 5, sopprimendo le parole “in quanto compatibile”, prevede in termini assoluti che dalle erogazioni di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici di qualunque genere, di natura pubblica (ivi comprese le risorse per investimenti derivanti dall’Unione europea), per i quali sia richiesta l’acquisizione del DURC, siano trattenuti gli eventuali importi di contribuzione che risultino (in base al medesimo DURC) non pagati.

Il comma 6 reca le clausole di invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica.

 

7. Le disposizioni in materia di contratti di solidarietà (articolo 5)

L’articolo 5 reca nuove disposizioni in materia di contratti di solidarietà, ispirate al caso recente di crisi aziendale della società Electrolux. Mentre il comma 1-ter reca una norma finale, valida per tutti i contratti summenzionati, i commi 1 e 1-bis modificano la disciplina di uno degli eventuali benefici connessi alla stipulazione di tali contratti, consistente nella riduzione provvisoria della quota di contribuzione previdenziale a carico del datore, con riferimento ai soli dipendenti interessati da una riduzione dell’orario di lavoro superiore al 20 per cento.

Il comma 1 prevede che, con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, siano stabiliti criteri per la concessione (entro i limiti delle risorse disponibili) del suddetto beneficio e dispone uno stanziamento per il medesimo; il finanziamento è pari a 15 milioni di euro annui, a decorrere dal 2014, ed è operato a valere sulle risorse disponibili del Fondo sociale per occupazione e formazione (va ricordato a questo proposito che negli ultimi anni, il beneficio non è stato più operativo per insussistenza di risorse). Il comma 1-bis – inserito dalla Camera – prevede una revisione della disciplina di tale riduzione provvisoria, fissando la misura della stessa in termini univoci al 35 per cento. Nella disciplina vigente, la misura percentuale è pari invece al 25 per cento nel centro-nord, al 30 per cento nelle regioni Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, ed è elevata, rispettivamente, al 35 ed al 40 per cento per i casi di riduzione dell’orario di lavoro (contemplata nei contratti di solidarietà) superiore al 30 per cento. Resta fermo che la riduzione in oggetto è riconosciuta per un periodo non superiore a 24 mesi.

Il comma 1-ter – anch’esso introdotto dalla Camera – prevede che i contratti di solidarietà (sottoscritti secondo la normativa vigente) siano depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro, gestito dal CNEL.

Le osservazioni svolte nel § 5 in riferimento all’articolo 3, circa l’indebito appesantimento della legislazione in materia di lavoro con disposizioni che dovrebbero trovare la loro sede naturale in provvedimenti di natura regolamentare, valgono anche in riferimento ad alcune delle disposizioni testé menzionate, contenute negli articoli 4 e 5 del decreto in esame. In sede di elaborazione dei criteri di semplificazione della normativa in materia di lavoro, nella legge-delega a ciò dedicata (d.d.l. n. 1428/2014), dovrà essere previsto un drastico sfrondamento delle norme legislative di questo genere e trasferimento del loro contenuto in provvedimenti di rango normativo inferiore.

Per finire, una osservazione che non riguarda il merito del provvedimento al nostro esame, ma la forma della sua redazione. Anche questo, come troppi provvedimenti legislativi che il Parlamento produce in materia di lavoro (e non soltanto), è illeggibile da parte dei milioni di persone cui esso è destinato e che dovranno applicarlo. Osservo che non sarebbe stato affatto difficile scriverlo in forma molto più leggibile, oltre che più conforme alle linee guida proposteci dall’Unione Europea con il Decalogue for Smart Regulation emanato a Stoccolma il 10 novembre 2009. Sarebbe stato già molto meglio, per esempio, che all’articolo 1 avessimo scritto: “gli articoli 1 e 4 del decreto legislativo n. 368/2001 sono sostituiti dai seguenti”, e avessimo riportato il nuovo testo per intero. L’auspicio è che il nuovo codice semplificato del lavoro il cui cantiere è stato aperto con il d.d.l. n. 1428 segni una svolta anche nel modo in cui scriviamo le leggi, almeno in materia di lavoro. (applausi dai Gruppi PD, SCpI e NCD)