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I DIFETTI DEL DECRETO SUL LAVORO

PERCHÉ ACCADE CHE ANCHE LEGGI IMPORTANTISSIME, COME IL DECRETO POLETTI, ESCANO DALLA DISCUSSIONE PARLAMENTARE CON ERRORI TECNICI BEN INDIVIDUATI DA CHI LE HA DISCUSSE E TUTTAVIA NON CORRETTI

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, nella rubrica Lettera sul lavoro,  il 19 maggio 2014.

Solo un osservatore un po’ fazioso può negare che il decreto Poletti, convertito definitivamente in legge giovedì, costituisca una svolta importante nel nostro diritto del lavoro. Non è forse importante stabilire, per la prima volta in mezzo secolo, che il contratto di lavoro a termine non può più essere considerato “socialmente pericoloso”? Tuttavia il decreto, oltre a essere scritto in modo illeggibile per la quasi totalità dei suoi destinatari (su questo punto torno più avanti), contiene diverse disposizioni scritte in modo difettoso: dei veri e propri errori tecnici.

Non sarebbe il caso di scriverne per il grande pubblico, se non fosse per questo: la Commissione parlamentare che ha approvato il testo definitivo era pienamente consapevole di questi difetti; eppure non ha voluto o potuto correggerli. Conoscere questa vicenda dal di dentro aiuta a capire perché le leggi italiane sono così frequentemente mal fatte.

Il più vistoso dei difetti contenuti nel decreto sta nella norma che commina la nuova sanzione per i contratti a termine stipulati in violazione dell’unico limite rimasto: quello per cui i lavoratori assunti in questo modo non possono essere più del 20 per cento rispetto ai lavoratori stabili. Fino a ieri – essendo il contratto a termine considerato “in sé cattivo”, in assenza di adeguata motivazione – il rimedio per la stipulazione irregolare era pacificamente costituito dalla conversione in contratto a tempo indeterminato. Ora che, con questo decreto, il contratto a termine non  è più considerato intrinsecamente pericoloso, la Commissione Lavoro del Senato,  modificando una scelta compiuta su questo punto in prima lettura dalla Camera, decide di prevedere per il caso di superamento del limite del 20 per cento soltanto un’ammenda a carico del datore di lavoro, che non incide sulla validità del termine apposto al contratto. Non c’è pieno consenso su questa scelta tra i partiti della maggioranza; ma, a scanso del rischio che il decreto decada per mancata conversione in legge entro il termine di 60 giorni, il compromesso viene raggiunto con l’aumento dell’ammenda. Il Governo si incarica di presentare l’emendamento [1]. Senonché nel corso del suo esame ci si accorge di un difetto di chiarezza: esso non dice esplicitamente che la sanzione pecuniaria sostituisce la vecchia sanzione della conversione in contratto a tempo indeterminato, cosicché qualcuno potrebbe intendere che ora si applichino entrambe le sanzioni. Basterebbe un subemendamento che contenesse il chiarimento; ma se il Governo o il relatore lo presentasse, occorrerebbe differire ulteriormente la chiusura dei lavori per consentire la presentazione di eventuali sub-subemendamenti, col rischio di sforare rispetto ai tempi previsti. D’altra parte la correzione non potrà essere fatta in sede di assemblea plenaria, perché il Governo – per accelerare l’approvazione ed evitare sorprese – porrà la questione di fiducia sul testo uscito dalla Commissione.

Si opta dunque per la soluzione di inserire il chiarimento nella relazione che viene svolta in Aula [2] dal relatore a nome della maggioranza, prima della discussione generale e del voto di fiducia: così si esplicita l’intendimento del legislatore.  Già, ma il chiarimento resta solo negli atti parlamentari: non nel testo che andrà nella Gazzetta Ufficiale. E di difetti di chiarezza come questo, corretti soltanto da un passaggio contenuto nella relazione in Aula (oppure non corretti neppure in quel modo, perché il compromesso politico è consistito proprio nel lasciare la norma ambigua), ce ne sono altri tre o quattro, di non secondaria importanza. Con tutto il rischio di contenzioso che ne consegue, per la gioia dei soli avvocati.

Poi c’è un difetto di forma del testo legislativo, che è davvero imperdonabile. Il decreto è scritto nella forma dell’“intarsio”. Per esempio: <<Nell’articolo 4, comma 1, del d.lgs. n. 368/2001, le parole da … a … sono sostituite con le seguenti: … >>. Risultato: nessuno, tranne i funzionari del ministero che hanno scritto la norma, può capirne immediatamente il significato e la portata pratica, se non dopo un paziente lavoro di taglia e incolla sulla base del vecchio testo. Non sarebbe costato nulla scriverla così: <<L’articolo 4 del d.lgs. n. 368/2001 è sostituito dal seguente: “…”>>. Gli stessi parlamentari lavorerebbero assai meglio su di un testo scritto in questo modo. E forse, anche nelle situazioni di emergenza, si eviterebbero molti errori.

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