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PERCHÉ UN SENATO NON ELETTIVO

LA SUA NUOVA FUNZIONE È STA NEL RAPPRESENTARE LE AUTONOMIE TERRITORIALI: PER QUESTO SONO ESSE, E NON I CITTADINI, CHE DEVONO ELEGGERLO

Intervento di Linda Lanzillotta nella discussione generale sul disegno di legge costituzionale n. 1429/2014, nella sessione antimeridiana del Senato del 17 luglio 2014

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Lanzillotta. Ne ha facoltà.

LANZILLOTTA [1] (SCpI). Signor Presidente, abbiamo apprezzato l’understatement e la sobrietà con cui la relatrice Finocchiaro ha introdotto la discussione sulla modifica della seconda parte della Costituzione, che approda in Senato finalmente con la credibile prospettiva di una definitiva approvazione entro i tempi tecnici della revisione costituzionale. Si tratta di un evento atteso da oltre 30 anni, nel corso dei quali si sono sviluppate infinite quanto inconcludenti discussioni. Lo ricordava il presidente Casini, evocando il mito di Sisifo, e qualche tempo fa Gian Antonio Stella ricordava come già nel 1985 Pietro Ingrao nel carteggio con Bobbio auspicava la soluzione monocamerale e scriveva: «Mantenendo l’impianto pluralistico della Costituzione si può e si deve andare a uno snellimento e a una razionalizzazione del sistema di Governo parlamentare. Qui vi è una riforma chiave che è addirittura simbolica: mi riferisco alla soluzione monocamerale. È dinanzi agli occhi di tutti l’assurda ripetitività di dibattiti, decisioni legislative, interventi ispettivi, l’esorbitanza del numero dei parlamentari (circa 1.000!), i difetti pesanti di coordinamento nell’azione dei due rami del Parlamento, l’arcaicità delle suddivisioni e del numero delle Commissioni». Lo vorrei ricordare anche al mio amico Tocci, che in quell’epoca era molto vicino a Pietro Ingrao.
Credo quindi che vada sottolineato con adeguata enfasi il fatto che siamo alla vigilia di un cambiamento importante della cultura del nostro sistema politico; una cultura troppo a lungo caratterizzata dalla paura del cambiamento, dallo spirito di conservazione che, anche nella materia costituzionale, ha riguardato la sinistra che, nascondendosi dietro l’alibi dell’incombente rischio autoritario, ha costantemente, se non osteggiato, sicuramente rinviato qualsiasi modifica del sistema istituzionale che andasse nella direzione della semplificazione, dell’efficienza, di un rafforzamento della capacità decisionale, che fosse coerente con i mutamenti e la complessità dei fenomeni da governare e dell’interazione tra la pluralità dei livelli di Governo nei quali veniva articolandosi la sovranità.
Il risultato è stato un immobilismo che ha avuto l’unica e assai imperfetta eccezione nella modifica del Titolo V che, approvata però senza un contestuale adattamento dell’organizzazione costituzionale del livello statale di Governo, ha avuto l’effetto di accentuare la frammentazione delle decisioni, il localismo, la dilatazione della spesa, fiaccando la già debole competitività del nostro sistema economico, con il risultato che la presunta difesa della Costituzione ha prodotto l’effetto di una grave delegittimazione proprio di quel sistema costituzionale che si voleva difendere e che invece è stato sempre più percepito dai cittadini come incapace di rispondere alle esigenze dell’economia e della società. Anche oggi vediamo riemergere in quest’Aula quella stessa cultura con la riproposizione della paura della sopraffazione e del rischio autoritario, quando è sotto gli occhi di tutti che il problema italiano è stato esattamente l’opposto, ossia quello dell’impotenza decisionale prodotta dai reciproci poteri d’interdizione. Ed è questa incapacità di decidere e di rispondere ai bisogni sociali che ha reso intollerabile per i cittadini il costo delle istituzioni e trasformato ai loro occhi tutto il ceto politico in parassiti che consumano risorse pubbliche senza produrre risultati utili per il Paese. È una opinione questa che pesa su tutti noi e che credo dovrebbe far sentire, prima di tutto a noi esponenti di quella classe politica così poco rispettata, l’urgenza di un riscatto che, al di là della buona volontà dei singoli, non può che derivare da una riforma che renda funzionali ed utili le istituzioni, che solo così diventeranno davvero rappresentative della volontà e degli interessi del popolo.
Dunque l’accelerazione che il Governo ha impresso all’iter della revisione costituzionale non è sintomo di superficiale frettolosità, ma esprime l’urgenza di recuperare il tempo perduto.
Ciò detto e riconosciuto al Governo il merito della forte spinta alla concretizzazione del processo riformatore, va detto tuttavia che è mancata, almeno nella proposta iniziale, una visione forte, coerente e convincente del bicameralismo differenziato da cui far discendere le funzioni del Senato e, di conseguenza, la sua composizione. Su questo ha lavorato utilmente la Commissione la quale, abbandonate le possibili suggestioni di un Senato delle competenze, ha invece delineato un Senato di raccordo legislativo tra Stato, Regioni ed istituzioni europee, con una contenuta presenza di sindaci in grado di rappresentare le esigenze del Governo locale, Governo che rimane la vera cerniera tra istituzioni e cittadini.
Certo, è comprensibile e capisco che un Governo permeato dalla cultura dei sindaci, dalla loro tradizione e dalla cultura degli amministratori locali accetti con fatica l’idea che ai consiglieri regionali, il ceto politico forse meno qualificato e statisticamente più corrotto della Repubblica, possa essere affidato il rilancio delle nostre istituzioni parlamentari, un dubbio che personalmente condivido. Ma allora sarebbe stata necessaria una revisione ben più coraggiosa e radicale del Titolo V, un superamento definitivo di Regioni definite storicamente come entità statistiche e terminali di funzioni decentrate dello Stato, per approdare ad una revisione che rendesse la fisionomia delle Regioni coerenti con la diversa missione che la riforma del 2000 aveva loro affidato: una riduzione drastica allora del numero delle Regioni, che le configurasse come enti di programmazione strategica e di promozione dello sviluppo economico dei territori. Si pensi – solo per fare un esempio – alla Germania nella quale, con più di 80 milioni di abitanti, ci sono 16 Länder, mentre l’Italia con 60 milioni di abitanti ha 20 Regioni. Ma questa ipotesi, ovviamente, avrebbe trovato una formidabile resistenza: non solo l’opposizione del ceto politico regionale, ma ormai quella dei forti interessi politici, economici e amministrativi, coagulati intorno alla gestione regionale della spesa sanitaria, un sesto della spesa pubblica, che è stato il vero baricentro dell’istituzione Regione e la cui forza di attrazione ha di fatto impedito, dopo il 2000, una qualificazione dell’identità e del ruolo delle Regioni.
Badate: a chi ritiene che l’unico modo per legittimare le istituzioni sia l’elezione diretta vorrei far osservare che, nel caso delle Regioni, proprio l’elezione diretta dei Presidenti ha spinto l’istituzione regionale a continuare a svolgere un ruolo di amministrazione diretta a contatto diretto con i cittadini – ovviamente il contatto è essenziale per la raccolta del consenso elettorale – piuttosto che quello meno visibile di programmazione e legislazione che avrebbe dovuto invece assumere la Regione con la riforma.
In assenza allora di questo salto di qualità rimane oggi comunque indispensabile completare e rendere più razionale il Titolo V approvato nel 2000: innanzitutto per correggere il sistema delle competenze (pensiamo solo alle grandi infrastrutture a rete, all’energia e alle telecomunicazioni, la cui regionalizzazione ha rallentato investimenti strategici per il Paese o ai problemi che sono derivati dall’assenza di una efficiente clausola di supremazia nazionale); ma ancor di più per raddrizzare quella torsione esclusivamente intergovernativa che l’assenza di una partecipazione delle Regioni al processo di formazione della legislazione statale e la concentrazione nella Conferenza Stato-Regioni di tutte le funzioni di coordinamento interistituzionale ha determinato in questi anni. La Conferenza Stato-Regioni negli anni si è trasformata da luogo di coordinamento intergovernativo delle politiche pubbliche in opaca sede di codecisione legislativa, con l’ulteriore effetto, credo non secondario, di marginalizzare sempre di più le Assemblee elettive delle Regioni.
Se questa è la chiave per disegnare la fisionomia del nuovo Senato, cioè la chiave del completamento di uno Stato federalista sul modello di altre democrazie europee, certo, non tacciabili di vocazione autoritaria, occorre allora trarre fino in fondo le conseguenze di questa scelta. Una scelta che differenzia profondamente le due Camere per titolo di legittimazione, ragione di rappresentanza e funzioni. E peraltro, proprio l’articolo 1 della Carta costituzionale, tante volte – non sempre a proposito – invocato in questo dibattito, legittima questa scelta quando afferma che la sovranità popolare si esercita «nelle forme» e nei limiti indicati dalla Costituzione. Dunque l’esercizio della sovranità non si esaurisce in una sola forma, cioè nell’elezione diretta dei propri rappresentanti, ma può articolarsi in una pluralità di forme finalizzate al più efficace funzionamento dell’organizzazione istituzionale, dei poteri e delle prerogative dei diversi organi. Va sottolineato come sul piano finalistico la diversa configurazione del Senato rispetto a quella della Camera trae fondamento anche dall’articolo 5 della Costituzione che fissa tra i principi fondamentali la promozione delle autonomie locali prescrivendo che a tale scopo non solo «i principi», ma anche «i metodi della legislazione» debbano essere adeguati alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Dunque anche l’elezione indiretta dei senatori risponde ai criteri di differenziazione e di appropriatezza che rintracciamo nell’intera trama costituzionale dell’organizzazione della Repubblica e che la Carta utilizza per garantire una migliore coincidenza tra caratteristiche dell’organo ed esercizio delle funzioni.
Si può essere contrari a questa riforma, ma bisogna con onestà dichiararne le ragioni. Perché il non detto di chi rifiuta la non elettività del Senato è la non accettazione di un Senato depotenziato sul piano politico. L’elettività è in realtà il cavallo di Troia attraverso il quale si pensa di poter gradualmente ritornare ad un bicameralismo tendenzialmente paritario; l’illusione trasformistica di una riforma che, alla fine, possa far ritornare tutto com’era prima, come tante volte è capitato in Italia.
Una volta però fatta la scelta della differenziazione, occorre seguirla con coerenza. E qui il testo presenta a nostro avviso parecchi punti critici su cui sarà bene intervenire ora, in questo dibattito e in questa discussione. Non ci possiamo permettere di sbagliare perché il nostro approccio alle riforme, e ancor di più, alle riforme della Costituzione non è pragmatico e sperimentale. La modifica della Costituzione è per noi un’operazione molto complessa, quasi drammatica, sul piano politico. Abbiamo visto cosa è accaduto con il Titolo V: ci sono voluti 14 anni (ammesso che questa sia davvero la volta buona) per introdurre alcune modifiche su cui da anni esiste un larghissimo accordo e la mancata introduzione di quei correttivi ha prodotto enormi guasti. Ecco perché non possiamo sbagliare, perché non possiamo permetterci una riforma a metà o una riforma che non funzioni.
Il primo punto allora è quello delle competenze del Senato. Vanno riviste e limitate le materie nelle quali le proposte del Senato possono essere superate dalla Camera solo a maggioranza assoluta: in primo luogo, le leggi di bilancio, ma non solo; i provvedimenti relativi all’attivazione della clausola di supremazia nazionale e l’esercizio dei poteri sostitutivi.
In questo caso, il potere d’interdizione del Senato indebolirebbe la capacità dello Stato di garantire l’interesse e l’unità nazionale, con il rischio di riproporre la situazione quo ante. E ancora, vi sono poi le leggi connesse al federalismo, da assimilare a quelle tributarie e di bilancio che incidono profondamente sull’indirizzo politico.
Altro punto è quello relativo alle norme in materia d’immunità dei senatori, la cui equiparazione a quella dei deputati non è coerente, a nostro parere, con la scelta della differenziazione. I senatori a differenza dei deputati, infatti, avranno un vincolo di mandato, perché eletti dai Consigli regionali per rappresentarne le istanze. Non rappresenteranno quindi l’intera Nazione, come gli eletti dal popolo, per l’esercizio di un mandato politico pieno. L’arresto del senatori non incide e non condiziona la maggioranza politica, né la stabilità del Governo. Difficilmente, peraltro, gli atti compiuti in qualità di senatori sarebbero distinguibili da quelli compiuti come consiglieri regionali che quindi, in quanto senatori, avrebbero un doppio status.
Ancora, com’è stato sottolineato più volte, andrà certamente riequilibrato il potere della maggioranza nell’elezione degli organi di garanzia, tenendo tuttavia presente che questo problema non nasce con l’attuale riforma, ma si pone da molto tempo, ossia da quando si è passati dal sistema elettorale proporzionale, su cui erano costruiti i quorum qualificati previsti dalla Costituzione, ai sistemi elettorali maggioritari il Mattarellum e il Porcellum. Sarà dunque anche la legge elettorale a dover garantire il pluralismo della rappresentanza e delle garanzie.
Infine, occorrerà mettere qualche paletto – e qui la mia opinione è esattamente opposta a quella della collega Bisinella – perché il sistema regionale, garantito ormai dal nuovo Senato, eserciti la propria autonomia nell’interesse dell’intera Nazione e vi siano quindi gli strumenti per prevenire i risultati nefasti sul piano finanziario dell’autoreferenzialità degenerativa che ha caratterizzato la gestione di alcune Regioni.
Colleghi, credo che il Senato in questi giorni sia chiamato, con questa decisione, ad una grande prova di responsabilità ed anche di generosità: dovrà dare prova di saper procedere alla propria autoriforma in nome di tali virtù, responsabilità e generosità. I cittadini, gli osservatori nazionali ed internazionali guardano a questa discussione ed all’esito del nostro lavoro per capire se è davvero possibile credere nella capacità di cambiamento del nostro Paese, a cui si guarda con sospetto, diffidenza e disincanto.
Per rimettere in moto l’Italia, per creare le condizioni della crescita, dell’attrazione di investimenti e della creazione di lavoro, ci attendono riforme altrettanto impegnative – se non addirittura di più – ma decisive per la ripresa economica: mi riferisco alla riforma del mercato del lavoro ed a quella della giustizia, temi su cui, come per le riforme costituzionali, da decenni la politica rinvia ogni decisione.
La credibilità di questo percorso sta oggi nelle nostre mani: per questo mi auguro che non deluderemo le speranze che si sono accese nel Paese. Un altro fallimento non sarebbe perdonato e credo che, prima di tutto, non potremmo perdonarcelo noi per primi. (Applausi dal Gruppo SCpI e della senatrice Finocchiaro).

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