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LIBERO: I GIACIMENTI OCCUPAZIONALI CHE NON SAPPIAMO SFRUTTARE

IL FENOMENO DELLO SKILL SHORTAGE CHE AFFLIGGE LE IMPRESE NELL’ITALIA DEI TRE MILIONI DI DISOCCUPATI E DEL 43 PER CENTO DI GIOVANI CHE NON RIESCONO A ENTRARE NEL TESSUTO PRODUTTIVO

Intervista a cura di Tobia Destefano, pubblicata sul quotidiano Libero il 28 novembre 2014.

Dalle slides della sua conferenza dei giorni scorsi [1], on line sul suo sito, emerge un dato di fondo: il problema principale oggi in Italia è la mancanza di lavoro eppure ci sono molti posti disponibili che restano inoccupati. Ci spiega perché?
Perché il nostro mercato del lavoro non è innervato dai servizi indispensabili in un tessuto produttivo moderno.

Quali servizi?
Innanzitutto quello di orientamento scolastico e professionale, che nei Paesi del centro e nord-Europa raggiunge capillarmente ogni adolescente all’uscita da un ciclo scolastico, fa il bilancio delle sue attitudini e aspirazioni, e soprattutto lo informa in modo dettagliato su tutte le opportunità che il mercato gli offre, in relazione a quelle attitudini e aspirazioni, e sugli strumenti di formazione specifica necessari per accedervi.

Ma disoccupati non sono solo i giovani
Certo che no. Ma anche gli adulti che cercano una nuova occupazione hanno bisogno di informazioni qualificate sulle opportunità offerte dal mercato del lavoro, a cominciare dai posti che restano scoperti a lungo per mancanza di manodopera che abbia le competenze necessarie, e sulle iniziative di formazione mirata a risolvere questo scompenso, lo skill shortage. In Italia manca sia l’informazione, sia la formazione mirata, cioè quella strutturata proprio in funzione dello sbocco occupazionale specificamente individuato.

Quanti sono oggi gli skill shortages (personale qualificato che si vorrebbe assumere ma che non si trova) in Italia?
Il censimento Unioncamere Excelsior ne censisce più di centomila uno per uno, attraverso gli annunci e i dati forniti dalle agenzie di ricerca e selezione di personale; ma gli esperti ci avvertono che per ognuno di questi casi di impresa che spende tempo e soldi per cercare personale difficile da trovare, ce ne sono altre quattro o cinque “scoraggiate”, che avrebbero bisogno ma rinunciano a cercare.

Un fenomeno simmetrico a quello dei “disoccupati scoraggiati”, che smettono di cercare lavoro per la difficoltà di trovarlo.
Proprio così. Poi ci sono i dati relativi a singole regioni, forniti da censimenti di osservatori del mercato del lavoro molto qualificati come quello della CGIA di Mestre, che ne individua 45.000 nel solo Veneto. Se rapportiamo questo dato all’intero territorio nazionale, si arriva a più a un mezzo milione. E questo dato è confermato, sia pure in modo un po’ grossolano, per un’altra strada.

Quale?
Se partiamo dal dato delle ricerche di personale in corso in un giorno qualsiasi in Italia, che si contano in più di 1,3 milioni, e sottraiamo i circa 800mila contratti di lavoro censiti ogni mese dal sistema delle comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, ne risulta mezzo milione di ricerche di personale che restano insoddisfatte per periodi rilevanti.

800mila assunzioni al mese?
Sì: nell’ultimo anno di cui abbiamo il dato complessivo, cioè il 2013, sono state 9,6 milioni. Per due terzi sono contratti di breve o brevissima durata, che magari si ripetono per decine di volte tra la stessa impresa e la stessa persona. Ma un terzo di queste assunzioni durano almeno sei mesi; e un sesto, 1,6 milioni, sono a tempo indeterminato. È un flusso enorme, che si verifica nonostante la congiuntura economica pessima. Ma questo flusso è totalmente ignorato dai Centri per l’Impiego: vi accedono soltanto coloro che dispongono delle reti amicali, parentali o professionali indispensabili. Gli altri ne restano esclusi, proprio per la carenza dei servizi di cui dicevo prima.

Come colmare questo gap?
Occorre incominciare col responsabilizzare i dirigenti dei servizi di collocamento e di formazione professionale su obiettivi precisi di efficienza ed efficacia. Per esempio: numeri di persone collocate, tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi. Poi, il dirigente che non raggiunge gli obiettivi perde il posto, viene sostituito. Per questo, naturalmente, occorre anche che i dirigenti statali e regionali si riapproprino delle prerogative manageriali a cui fin qui hanno comodamente rinunciato.

Ma nessuno sembra avere intenzione di farlo.
Beh, il Jobs Act prevede proprio questo: l’agenzia nazionale dovrà stabilire gli obiettivi di efficienza ed efficacia dei servizi per l’impiego e controllare che ciascuna Regione li rispetti. E prevede che l’agenzia stessa si surroghi a quelle che non li rispettano. Il problema, però, non è tanto la norma, quanto la volontà e la capacità di attuarla.

Chi ha le maggiori responsabilità di tutto questo?
Le ripartirei in parti uguali; una parte sul movimento sindacale, che si è sempre occupato sostanzialmente soltanto delle politiche passive del lavoro, cioè del sostegno del reddito ai senza lavoro, ma non delle politiche attive, cioè delle misure per l’inserimento e reinserimento nel tessuto produttivo; l’altra parte sul ministero e gli assessorati regionali del Lavoro, dove nessun dirigente risponde del conseguimento di obiettivi precisi e misurabili. Col risultato che l’efficienza dei servizi è a un livello assolutamente inaccettabile. Come dimostrano i risultati dei primi sei mesi del programma Garanzia Giovani.

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