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CHE COSA LIBERA E PROTEGGE DAVVERO IL LAVORO

PERCHÉ UN MERCATO DEL LAVORO MENO VISCHIOSO E PIÙ INNERVATO DA SERVIZI EFFICACI PROTEGGE LA GENERALITÀ DEI LAVORATORI MEGLIO DI QUANTO FACCIA L’INGESSATURA DEI POSTI DI LAVORO

Intervista a cura di Gisella Desiderato, in corso di pubblicazione sul settimanale Visto, 5 marzo 2015

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Perché è così utile il Jobs Act?
Perché abbiamo un mercato del lavoro che funziona malissimo: mentre da un lato i giovani hanno enormi difficoltà a inserirsi nel tessuto produttivo e chi perde il posto non lo ritrova, dall’altro le imprese stentano a trovare il personale qualificato di cui hanno bisogno. La riforma si propone di rendere il mercato meno vischioso e al tempo stesso di innervarlo di servizi efficienti.

Davvero le imprese cercano e non trovano?
Si stima che ci sia mezzo milione di situazioni di skill shortage, cioè di posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di persone adatte a ricoprirli. E circa ventimila imprese artigiane ogni anno chiudono per pensionamento del titolare, senza riuscire a trasmettere alle nuove generazioni il know-how produttivo e l’avviamento aziendale.

Resta il fatto che la domanda di lavoro è complessivamente fiacca. Se manca il lavoro, perché dovrebbero aumentare gli occupati?
Oggi in Italia per aumentare l’occupazione le leve principali sulle quali possiamo agire sono due. La prima e più importante consiste nello sfruttamento dei giacimenti occupazionali inutilizzati di cui ho appena parlato, che presuppone servizi più efficienti di informazione e di formazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali esistenti.

E la seconda?
È l’apertura del Paese agli investimenti stranieri. Oggi attiriamo investimenti diretti esteri pari complessivamente a circa l’uno per cento circa del nostro prodotto interno lordo ogni anno; la media europea è intorno al quattro e mezzo per cento. Se riuscissimo ad allinearci alla media, questo porterebbe un afflusso di molte decine di miliardi ogni anno, con molte centinaia di migliaia di posti di lavoro aggiuntivi. Per questo è necessario, certo, ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa, ridurre gli ostacoli burocratici, migliorare l’efficienza della giustizia; tre cose sulle quali il Governo è impegnato in modo prioritario. Ma occorre anche un diritto del lavoro allineato ai migliori standard europei, e un mercato del lavoro capace di mettere in comunicazione domanda e offerta.

Facciamo un po’ di conti: col contratto a tutele crescenti quanto risparmia il datore di lavoro rispetto a un cococo, a un contratto a termine e anche rispetto al vecchio contratto a tempo indeterminato?
Con lo sgravio contributivo e fiscale previsto dalla legge di stabilità 2015, il risparmio è di circa 7.000 euro all’anno per ogni nuovo rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato rispetto a un rapporto di collaborazione continuativa autonoma; e di poco meno di 9.000 euro rispetto a un rapporto di lavoro dipendente a termine. L’impegno del Governo è a far sì che lo sgravio diventi permanente, cioè applicabile anche ai rapporti che verranno costituiti dopo il 2015, utilizzando i margini che deriveranno dal tasso di crescita, che si profila più alto rispetto alle previsioni.

I contrari alla riforma dicono che ora tutti diventano più “schiavi”, più precari, cioè più licenziabili.
Più precari di un lavoratore a termine o “a progetto”, oppure di un co.co.co., no di certo. A fine 2014 le assunzioni a tempo indeterminato erano circa il 15 per cento del totale dei nuovi contratti; se per effetto delle nuove norme le assunzioni a tempo indeterminato passeranno dal 15 al 50 per cento, questo segnerà un netto aumento della protezione per milioni di neo-assunti in Italia. Ma, soprattutto, occorre abbandonare l’idea molto provinciale secondo cui chiunque lavori senza la garanzia dell’articolo 18 sarebbe un precario, in condizioni di non libertà e non dignità. Forse che i quattro milioni di dipendenti italiani delle imprese sotto i 16 dipendenti, e le centinaia di milioni di lavoratori europei che non hanno mai conosciuto disposizioni del tipo dell’articolo 18, possono considerarsi come lavoratori precari, deprivati della libertà e della dignità?

Una forma di dualismo però rimane: da una parte ci sono i vecchi assunti a tempo indeterminato, blindati, dall’altra i nuovi assunti a tutele crescenti. Nel caso di difficoltà dell’impresa a farne le spese saranno sempre gli ultimi.
Oggi questo accade in modo molto più accentuato con i lavoratori a temine e “a progetto”. Ma con la riforma non avremo più un regime di apartheid tra protetti e non protetti: avremo una transitoria convivenza del vecchio regime di protezione con un regime di protezione nuovo, più efficace perché non più basato sull’ingessatura del posto di lavoro, e destinato a estendersi progressivamente per effetto del turnover, fino a sostituire integralmente il vecchio.

Ma ora possono aumentare anche gli stipendi?
Un mercato del lavoro più fluido è anche un mercato che agevola lo spostamento delle persone verso i posti dove esse sono più produttive. Oggi invece ognuno tende a fermarsi nel primo posto nel quale raggiunge la stabilità: anche questo contribuisce alla bassa produttività che caratterizza il lavoro in Italia. Con l’aumento della produttività, aumenteranno pure le retribuzioni. Anche se avranno un andamento diverso rispetto a oggi.

Perché un andamento diverso?
Perché oggi, in corrispondenza con un modello di rapporto caratterizzato da una rigida stabilità, la contrattazione collettiva determina, con gli scatti di anzianità, un aumento continuo delle retribuzioni lungo tutto l’arco della vita lavorativa, indipendentemente da un aumento corrispondente della produttività. Col risultato che, il cinquantenne, se perde il posto, ha solitamente grande difficoltà a ritrovarne uno con un livello retributivo pari. In tutti gli altri Paesi la curva della retribuzione individuale raggiunge normalmente il suo punto più alto intorno ai 45 o 50 anni, per poi scendere fino all’età della pensione. Ora accadrà così anche da noi. E sarà un bene per tutti.

Renzi ha detto che questa “È una riforma attesa da una generazione”. È vero? Che intendeva dire?
È da circa un quarto di secolo, il tempo di una generazione appunto, che nel nostro Paese si discute della questione del dualismo fra lavoro protetti e non protetti, del come superare questo regime di vero e proprio apartheid, Da quando si è incominciato a parlarne, né i Governi di centrodestra, né quelli di centrosinistra hanno fatto neppure un solo passo avanti sulla via della soluzione di questo problema. Le riforme Treu del 1997 e Maroni del 2001 e 2003 sono state importanti, ma hanno operato soltanto al margine; non hanno dunque aumentato, ma neppure ridotto il precariato. La riforma di cui stiamo parlando è la prima intervenire sul cuore del diritto del lavoro, cioè sulla disciplina del rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato, che per la sua rigidità è strutturalmente produttiva del precariato. Se questo intervento produrrà finalmente il ritorno all’assunzione a tempo indeterminato come forma normale di assunzione, avremo conseguito il risultato “atteso da una generazione” di cui parla Matteo Renzi.