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CHARTER SCHOOLS: L’ESEMPIO DI “BUONA SCUOLA” DA SEGUIRE

L’ESPERIENZA DELLE CHARTER SCHOOLS STATUNITENSI (NO PROFIT), CON LA LORO PIENA AUTONOMIA GESTIONALE, MA ANCHE PIENA RESPONSABILIZZAZIONE RIGUARDO AI RISULTATI, INDICA LA VIA CHE DOVREBBE ESSERE SEGUITA ANCHE DAL GOVERNO ITALIANO PER LA RIFORMA DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA 

Fondo di Andrea Ichino e Guido Tabellini pubblicato sul Sole 24 Ore del 31 marzo 2015.

Incrementare l’autonomia dei singoli istituti. È questo uno dei principali obiettivi del nuovo disegno di legge “La buona scuola”. L’obiettivo è giusto e ampiamente condiviso, ma gli strumenti indicati per raggiungerlo sono inadeguati ed è facile prevedere che falliranno. Eppure l’esperienza internazionale è chiara nell’indicare strade percorribili, che il governo ha scelto invece di ignorare.

L’autonomia scolastica è indispensabile per almeno due ragioni. Innanzitutto perché non esiste “una” scuola che vada bene a tutti. Gli italiani hanno preferenze e opinioni molto diverse tra loro su come istruire i propri figli. È naturale ed è un bene che sia così: lo è in tutto il mondo. Una buona offerta scolastica, quindi, deve essere differenziata e orientata dalle scelte delle famiglie, il che presuppone ampi margini di autonomia a livello di singolo istituto.

Inoltre, un’ampia evidenza empirica mostra che, più ancora dei contenuti e delle strutture, contano gli insegnanti, la loro preparazione e motivazione. Sono quasi un milione i docenti in Italia, dislocati in migliaia di scuole. Senza un’effettiva autonomia scolastica, è impensabile che essi possano essere scelti e gestiti in modo efficiente dal centro. Non ci riuscirebbe un’impresa efficiente, figuriamoci lo Stato italiano.

Per realizzare una vera autonomia, all’estero si osservano nuove forme di scuole gestite da privati ma regolate e finanziate dallo Stato, con fondi che seguono le scelte delle famiglie. L’esempio più noto è quello delle Charter Schools americane, i cui gestori no-profit operano con obiettivi definiti e limiti alla discrezionalità (ad esempio, non possono scegliere gli studenti, ma sono liberi di reclutare i docenti preferiti a condizioni di mercato). Non sono scuole private, quindi, perché la collettività le controlla (e a volte le chiude) avendo un ovvio interesse a garantire una buona qualità del sistema educativo. Né sono scuole per ricchi, anzi hanno ottenuto i risultati migliori proprio nei contesti più disagiati (http://seii.mit.edu/ [1]).

Una Charter School risolverebbe meglio i problemi che il nostro Stato non sa affrontare. Ad esempio, per sopperire alla drammatica carenza di insegnanti per le materie scientifiche, offrirebbe condizioni retributive migliori rinunciando con flessibilità a quel che è meno necessario. La “Buona scuola” invece, a colpi di concorsi, circolari ministeriali e assenza di selezione, non ci riuscirà, causando un danno irreparabile alle competenze scientifiche di un’intera generazione di giovani italiani.

Non basta scrivere un obiettivo educativo in una norma perché esso si realizzi, se il corpo docente, soprattutto a parità di condizioni contrattuali, non è adatto allo scopo. Quale educazione musicale potranno impartire gli attuali insegnanti delle elementari che non abbiano alcuna competenza di questo tipo? E chi non conosce lingue straniere potrà davvero insegnare la sua materia in inglese, come auspica la “Buona Scuola? La formazione non basta a riqualificare i docenti: i più anziani, delusi e poco motivati non cambieranno facilmente abitudini.

Nulla, nel disegno del governo, lascia sperare che la scuola italiana riuscirà ad attirare docenti migliori. L’idea di far dipendere meccanicamente la retribuzione degli insegnanti da parametri oggettivi è illusoria. Nessun indicatore misurabile può descrivere adeguatamente la complessità dei compiti di chi opera nella scuola. Non sorprende quindi che il governo abbia fatto marcia indietro su questo, confermando solo gli scatti di anzianità.

Ancor più preoccupante è che non si sappia nulla su come saranno reclutati e incentivati i presidi, nonostante tutto il potere che essi avranno. Nei sistemi che consentono una vera autonomia scolastica, sono gli utenti, con le loro scelte, a valutare i dirigenti, soprattutto riguardo a quali insegnanti assumere e a come retribuirli. Per poterlo fare, però, le famiglie devono essere ben informate. Il compito prioritario dello Stato dovrebbe essere garantire questa informazione, non gestire le scuole.

I nuovi modelli di autonomia scolastica sperimentati all’estero ci consentirebbero di fare un uso migliore delle risorse finanziarie disponibili e di attirare docenti capaci di offrire quel che le famiglie (non il ministro di turno) davvero desiderano per i loro figli.

Perché il governo ha scelto di ignorare le migliori esperienze internazionali? Forse per diffidenza istintiva nei confronti del privato, ma certamente ha anche influito un calcolo politico. La riforma della scuola è stata un’occasione per risolvere i problemi occupazionali dei docenti, anteponendo i loro interessi al diritto degli studenti a una buona istruzione. I precari italiani, imbrogliati da anni di insensate politiche di reclutamento, meritano di essere risarciti dallo Stato (come richiesto dalla UE) e di essere assistiti in caso di perdita dell’impiego. Ma non dovrebbero insegnare se non hanno le capacità per farlo o se quel che conoscono è obsoleto.

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