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RIDURRE (ALMENO UN PO’) LA PARTE NON GUADAGNATA DELLE PENSIONI PIÙ ALTE È GIUSTO E NECESSARIO

LA DIFFERENZA TRA LE RENDITE EROGATE E LA RELATIVA CONTRIBUZIONE EFFETTIVA COSTITUISCE UN TRASFERIMENTO DI ENORME ENTITÀ CHE SI GIUSTIFICA SOLTANTO IN FAVORE DEI CITTADINI BISOGNOSI 

Articolo di Alberto Bisin pubblicato su la Repubblica del 22 aprile 2015 – In argomento v. anche la mia Lettera sul lavoro pubblicata dal Corriere della Sera il 13 agosto 2013: Le pensioni d’oro che vanno tosate e come farlo [1]

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Si torna a parlare di pensioni. Per quanto delicato sia il tema, è necessario farlo perché nonostante le riforme la spesa previdenziale in Italia è ancora alta rispetto alla media dei Paesi sviluppati (circa il 30% della spesa pubblica, nel 2011, la più alta tra i Paesi Ocse; nuovi dati sugli effetti delle recenti riforme non sono disponibili) ma soprattutto è mal distribuita. Non solo, ma ad oggi la struttura previdenziale è uno dei meccanismi fondamentali che rende il nostro “non un Paese per giovani”.
Non è facile parlare in modo informato ed intelligente di pensioni, però, per varie ragioni: la contrapposizione di interessi al riguardo (tra giovani e anziani, appunto, ma anche tra dipendenti privati e pubblici, tra classi sociali più e meno agiate, e così via); la intrinseca difficoltà del tema, che richiede una pur minima comprensione di matematica attuariale apparentemente non comune nel Paese; la mancanza di dati, in parte dovuta alla passata gestione Inps, che ne ha utilizzato il controllo come strategia politica esplicita addirittura in funzione anti-governativa nel corso della definizione della riforma Fornero (specie sulla questione esodati).
A questo proposito il dibattito aperto in questi giorni dal nuovo presidente Inps, Tito Boeri, è una gran boccata di aria fresca (full disclosure: Boeri è collega e amico, ma non sempre su posizioni che condivido). La questione politica, se cioè sia istituzionalmente appropriato che l’Inps svolga un ruolo di consulenza al governo sui temi della previdenza così come la Banca d’Italia su questioni monetarie e finanziarie, mi interessa meno. Quello che mi interessa è che il dibattito, nei suoi aspetti tecnici e politici, si prospetta finalmente essere di qualità. Le proposte di Boeri, anche se non ancora precisamente delineate, centrano le questioni fondamentali del tema previdenza in Italia, anche se ovviamente le soluzioni proposte sono discutibili.
Il primo punto è quello della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. La questione è come permettere uscite anticipate rispetto all’età pensionabile stabilita per legge senza gravare sulle casse della previdenza. In un sistema contributivo, come quello verso cui tende il sistema previdenziale italiano e in cui la pensione è commisurata ai versamenti effettuati nel corso della vita lavorativa, la soluzione è ovvia: come nel caso degli esodati, basterebbe applicare appropriati aggiustamenti attuariali alla pensione (uscite anticipate implicherebbero riduzioni della pensione, mentre uscite posticipate la aumenterebbero). In un sistema contributivo infatti, definire un’età pensionabile è relativamente inessenziale: il lavoratore deve poter decidere individualmente quando uscire dal mercato del lavoro sapendo quale sarà la sua pensione in seguito ad ogni sua possibile scelta. Perché questo possa avvenire, è necessario che l’Inps produca simulazioni individuali precise del trattamento pensionistico su varie ipotesi di uscita, che permettano al lavoratore scelte ben informate e razionali. Le dichiarazioni di Boeri rendono manifesto anche un cambiamento di strategia nel controllo dei dati dell’Inps in questa direzione, che è importante avvenga al più presto.
Il secondo punto è la questione delle pensioni in via transitoria ancora calcolate col metodo retributivo. Il cuore di questa questione è l’enorme redistribuzione dei redditi che ha comportato e in parte ancora comporta in Italia il metodo retributivo, caratterizzato da pensioni in media ben superiori a quanto versato in termini di contributi. Se questa redistribuzione avviene a favore di pensioni minime o molto basse essa è giustificata in principio come un trasferimento tipico di ogni sistema fiscale sviluppato (se sia efficiente farlo attraverso il sistema previdenziale o attraverso una fiscalità progressiva è altra questione, ancora più complessa). Ma se il trasferimento avviene anche a favore di pensioni elevate e tra settori, ad esempio dal privato al pubblico, non c’è davvero ragione di sostenerlo né di mantenerlo. In mancanza di dati accurati, il fatto che le obiezioni più virulente alle proposte di Boeri a questo proposito siano arrivate dalle confederazioni sindacali dei Dirigenti Scuola e dei Dirigenti Quadri e Direttivi della Pubblica Amministrazione, dimostra proprio quanto le pensioni retributive costituiscano un trasferimento soprattutto a favore di pensioni elevate e nel settore pubblico.
Infine, la questione assistenza ha giustamente un ruolo fondamentale nella discussione. Anche un sistema previdenziale contributivo può e deve essere disegnato in modo da provvedere assistenza a individui in condizioni disagiate o comunque difficili sul mercato del lavoro. Io temo l’idea del reddito minimo garantito per gli individui sopra i 55 anni, cui accenna Boeri, per la sua difficile implementazione e i possibili effetti perversi sugli incentivi individuali in un Paese come il nostro abituato a manipolare il welfare. Non v’è dubbio però che un sistema di protezione a chi perda il lavoro in età avanzata sia un elemento importante del welfare stesso ed è importante parlarne.
In conclusione, le critiche che le proposte di Boeri ricevono in questi giorni mi paiono strumentali, a difesa di privilegi (non diritti!) acquisiti. In realtà quella che si delinea sulle pensioni mi pare l’unica patrimoniale che abbia senso in Italia, in termini di efficienza economica e di giustizia sociale. È un po’ deprimente vedere la sinistra alzare gli scudi quando finalmente qualcuno “dice qualcosa di sinistra”.