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INDICIZZAZIONE DELLE PENSIONI: QUANDO LA CONSULTA PREDICA BENE MA RAZZOLA MALE

LA CORTE COSTITUZIONALE NON RISPETTA UNA REGOLA IMPORTANTISSIMA, CHE ESSA STESSA SI È DATA MENO DI TRE MESI FA

Terzo editoriale per la Nwsl n. 343, 4 maggio 2015.

Nel dicembre 2011 l’Italia era già tecnicamente in bancarotta. Se non fosse andata come poi per fortuna è andata, altro che blocco temporaneo dell’indicizzazione delle pensioni! Per salvare il Paese in quel momento drammatico il Governo Monti chiese un sacrificio a tutti: ai proprietari di immobili una patrimoniale, agli imprenditori l’eliminazione di molte agevolazioni e “incentivi”, ai lavoratori in attività un brusco aumento dell’età pensionabile e il passaggio anche per i cinquantenni e i sessantenni al sistema contributivo di calcolo delle pensioni (già dal 1995 applicabile alle nuove generazioni), ai dipendenti pubblici un blocco della contrattazione degli aumenti retributivi, agli alti dirigenti un taglio netto delle maxi-retribuzioni, ai politici una riduzione delle indennità. Restava fuori  la categoria dei pensionati. Si decise di non toccare i titolari di pensioni di entità fino a tre volte la minima, cioè entro il  limite di circa 19.000 euro annui, e di bloccare per due anni l’indicizzazione delle pensioni superiori. Date le circostanze eccezionalmente gravi, e il contesto dei provvedimenti in cui si collocava, tutti la considerarono allora una misura ragionevole ed equa. Non la pensa così la Corte costituzionale (sentenza n. 70/2015 [1] pubblicata giovedì scorso), che pure in passato per ben due volte aveva convalidato misure di contenuto analogo; certo, misure di minore entità, ma anche in circostanze meno drammatiche: ora la Corte ritiene che il diritto dei pensionati “risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

Senonché meno di tre mesi fa, con la sentenza n. 10/2015 [2], la stessa Corte si era auto-imposta il rispetto dell’articolo 81 della Costituzione, ovvero del principio per cui ogni modifica legislativa (e le sue sentenze abrogative sono né più né meno che modifiche legislative) deve farsi carico dell’esigenza della copertura finanziaria; e per rispettare quel principio la Corte stabilì allora che gli effetti dell’abrogazione di una norma fiscale si sarebbero prodotti soltanto dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. Questa volta la Corte non solo sembra essersene totalmente dimenticata, ma omette di considerare il contesto di sacrifici a cui tutti i cittadini italiani, in quel drammatico dicembre 2011, vennero chiamati dal Governo, per salvare il Paese dalla bancarotta. Vien fatto di obiettare alla Corte che dalla sua decisione, emanata con effetto retroattivo senza una parola circa il principio di cui all’articolo 81 della Costituzione, “risulta irragionevolmente sacrificato l’equilibrio di bilancio della Repubblica Italiana, essendo stata ignorata la necessaria parità di trattamento dei pensionati rispetto al resto della cittadinanza e non essendo state illustrate in dettaglio le conseguenze finanziarie della sentenza stessa”.

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