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I PARADOSSI DELL’ARTICOLO 18

NON SI DEVE LICENZIARE L’INFERMIERE CHE GETTA A TERRA E PRENDE A CALCI UN PAZIENTE? È IL PRIMO DEI DIECI CASI GIUDIZIALI RECENTI, UTILIZZATI NE IL LAVORO RITROVATO PER SPIEGARE PERCHÉ OCCORRE UNA DISCIPLINA GENERALE DIVERSA DEL LICENZIAMENTO

Incipit del primo capitolo del libro Il lavoro ritrovato (Mondadori, 2015) – Sono disponibili on line anche l’indice-sommario, l’indice dei nomi e degli argomenti e la copertina [1] del libro

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CAPITOLO I – COME NASCONO LE SENTENZE PARADOSSALI E PERCHÉ

Se il licenziamento è considerato come una pena di morte, è ovvio che il giudice tenda a non convalidarlo mai. In Italia il licenziamento, nel regime instauratosi all’inizio degli anni ’70 e presidiato dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, è considerato dalla dottrina e dalla giurisprudenza come extrema ratio: una misura estrema, eccezionale, che però, appunto, in casi estremi può essere adottata dall’imprenditore. Tuttavia, poiché dall’opinione prevalente i licenziamenti sono stati a lungo considerati addirittura come una pena capitale, una parte consistente dei giudici del lavoro si è sentita in dovere di annullarli anche in casi davvero estremi, cioè in presenza di mancanze gravissime: siamo o non siamo contrari alla pena di morte, anche di fronte al reato più abominevole?

Non si deve licenziare l’infermiere che getta a terra e prende a calci un paziente

È un caso di cui si sono occupati i giudici romani. La causa riguardava l’infermiere professionale di un reparto psichiatrico che, dopo avere spinto a terra un paziente affetto da gravissima insufficienza mentale, aveva preso a colpirlo ripetutamente con calci al torace e allo stomaco; a una collega che lo aveva invitato a fermarsi aveva risposto di non averne alcuna intenzione. Questi fatti, addotti a motivazione del licenziamento, erano pacifici in causa: nessun dubbio che l’infermiere avesse tenuto questo comportamento. Ma il giudice ha annullato il provvedimento disciplinare. Perché, come si legge nella motivazione della sentenza del Tribunale di Roma 19 ottobre 2001,

“si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione ad un paziente particolare, che non integra alla luce delle circostanze del caso concreto neanche gli estremi del notevole inadempimento […] l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni […] non può giustificare quella che rimane una extrema ratio […]”.

Certo, altri giudici del lavoro non avrebbero annullato questo licenziamento; l’ospedale avrebbe potuto impugnare la sentenza in appello e avrebbe avuto buone carte da giocare per tentare di raddrizzare la causa. Il fatto è che davanti alla Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Roma una causa dura normalmente due o tre anni; e nel frattempo l’ospedale deve reintegrare l’infermiere violento nel suo posto, per di più con il premio del pagamento di tutte le retribuzioni mancate dal momento del licenziamento fino alla sentenza; deve inoltre pagare all’Inps i contributi su quelle retribuzioni, con le sanzioni per l’omissione; in attesa della sentenza d’appello è costretto a pagare retribuzioni e contributi per anni; e, con la reintegrazione, è costretto a comunicare a tutti gli altri infermieri provvisoriamente, in attesa della sentenza d’appello, che… sì, gettare a terra un paziente e prenderlo a calci si può fare senza rischiare di perdere il posto. Questo spiega perché l’ospedale in questione – come apprendiamo da Andea Del Re, che segnala questo caso e altri casi in una interessante rassegna del 2012 (v. i riferimenti bibliografi a p. 221) – abbia preferito chiudere la vicenda senza impugnare la sentenza, al prezzo di una transazione che ha letteralmente ricoperto d’oro l’infermiere violento: la gravissima violazione dei doveri contrattuali, rilevante anche sul piano penale, ha finito col valere a quest’ultimo quanto una vincita al totocalcio.

Il poliziotto incensurato può rubare, purché una sola volta e in misura modica

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