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VERO E FALSO IN TEMA DI CAPORALATO

OCCORRE DISTINGUERE I FENOMENI DI SFRUTTAMENTO, PARTICOLARMENTE FREQUENTI AI DANNI DEI LAVORATORI IMMIGRATI E NEL SETTORE AGRICOLO, DA QUELLO DIFFUSISSIMO DEGLI APPALTI DI SERVIZI LABOUR INTENSIVE CHE POSSONO SVOLGERE UN RUOLO SOCIO-ECONOMICO POSITIVO

Intervista a cura di Marzio Fatucchi pubblicata sul Corriere Fiorentino, 3 ottobre 2015.

Professore Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd. Il fenomeno del caporalato è ormai «sbarcato» in Toscana?
«Toglierei l’“ormai”. Il fenomeno è non solo diffuso, ma profondamente radicato, non soltanto in Toscana ma su tutto il territorio nazionale. E non soltanto nel settore agricolo: anche nel terziario, nella sanità, e in qualche misura anche negli enti pubblici a tutti i livelli, e in tutti gli altri settori».

A che cosa si riferisce, in particolare?
«Non ha mai sentito parlare di ospedali e case di cura in cui non c’è un solo infermiere o inserviente dipendente, perché tutti dipendono da imprese appaltatrici? E i servizi di pulizia o di portineria “appaltati” a imprese terze da una miriade di imprese di medie e grandi dimensioni, comuni, regioni, amministrazioni statali? E i servizi informatici retribuiti in relazione alle ore-uomo?».

Dire che c’è caporalato dappertutto non significa, alla fine, rinunciare a combatterlo?
«No. Significa solo che dobbiamo cercare di mettere meglio a fuoco la parte del fenomeno che intendiamo combattere, distinguendola da quella che consideriamo accettabile, se non addirittura molto utile, come effettivamente talvolta è».

Qual è il criterio corretto di distinzione, secondo lei?
«È un discorso molto complesso: impossibile esaurirlo in una battuta. Osservo solo che i giudici e gli ispettori, molto ragionevolmente, dove non riescono a distinguere l’appalto di servizi vero dall’interposizione, controllano almeno che il ricorso alla fornitura esterna non sia utilizzato per eludere gli standard minimi di trattamento. È già molto. C’è poi sempre la corresponsabilità solidale del committente con l’appaltatore per tutte le obbligazioni, sia retributive, sia contributive, sia tributarie, sia prevenzionistiche».

Resta il fatto che un lavoro stagionale, quindi per sua natura precario, per lo più nel settore agricolo, che è più difficilmente controllabile dagli ispettori, e con il ricorso sistematico a lavoratori stranieri, che non conoscono né la nostra lingua né le nostre leggi, diventa terreno di coltura per ogni tipo di elusione o violazione della legge.
«Questo oggi è il nocciolo del problema che, confusamente e impropriamente, indichiamo con il termine “caporalato”. È importante metterlo bene a fuoco, se non vogliamo sbagliare il bersaglio. Bollare e condannare indistintamente come “caporali” tutti gli appaltatori di servizi labour intensive può servire a far bella figura in un talk show; ma è la migliore premessa per non far niente, perché impedire indiscriminatamente tutti gli appalti labour intensive sarebbe un’operazione impossibile, prima ancora che sbagliata. Molti di questi appaltatori, e non soltanto nei settori tecnologicamente avanzati, svolgono un servizio utile nel mercato del lavoro, esprimendo professionalità e conoscenze senza le quali, semplicemente, il lavoro non si attiverebbe».

Anche le agenzie che aiutano piccole imprese agricole — prive dei mezzi per occuparsi da sole di procedure complesse di assunzione — a trovare personale fanno un servizio utile?
«Qualche volta sì. E ne traggo la conclusione che ciò che dobbiamo combattere non è il servizio reso da quell’agenzia, se è svolto alla luce del sole e nel rispetto di tutti gli standard di trattamento dei lavoratori. Dobbiamo combattere il lavoro nero e lo sfruttamento. Dobbiamo offrire ai lavoratori coinvolti ciò di cui hanno veramente bisogno: informazione, scuole di lingua, assistenza e consulenza gratuita nei rapporti sia con l’appaltatore da cui dipendono, sia dal committente. Ma eliminare l’appaltatore in molti casi equivarrebbe a privarli del tutto della possibilità di lavorare».

Lei ha posto, quando ha parlato di introdurre la flexsecurity come modello per il mercato del lavoro italiano, una precondizione: la civicness diffusa. In altre parole, un radicato e diffuso senso civico, rispetto della legge. Semplificare il rapporto di assunzione, il licenziamento, le forme di ammortizzatori sociali, in assenza delle civic attitudes necessarie, non è un azzardo?
«Qui, però, non stiamo discutendo della flexsecurity, che costituisce la nuova frontiera delle politiche del lavoro: il problema di cui stiamo discutendo è vecchio di almeno due secoli, e si pone a tutte le latitudini e longitudini».

Diciamo, allora, che in questi anni sono stati tagliati i fondi all’Inps proprio per il personale che dovrebbe controllare…
A me risulta, invece, che i servizi ispettivi nel mercato del lavoro li si stanno potenziando: il decreto n. 149/2015 [1], entrato in vigore proprio dieci giorni fa, li unifica e ne ridefinisce la governance proprio per consentirne un maggiore coordinamento e maggiore efficacia. Certo, li si potrebbe potenziare di più trasferendo un po’ di impiegati che sono di troppo in tanti uffici pubblici a fare da assistenti agli ispettori; ma i sindacati, che tuonano contro il caporalato, sarebbero d’accordo su questo trasferimento?

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