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DUE SENTENZE DI CASSAZIONE SULLA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI

INTERPRETANO UNA DISPOSIZIONE COMUNE ALLA LEGGE FORNERO DEL 2012 E ALLA NUOVA DISCIPLINA, EQUIPARANDO LA CONTESTAZIONE DI UN COMPORTAMENTO LECITO ALLA INSUSSISTENZA DEL FATTO CONTESTATO, AI FINI DELLA REINTEGRAZIONE: UN ORIENTAMENTO RAGIONEVOLE (SE LA CONDOTTA CONTESTATA È DAVVERO LECITA)

Nota tecnica sulle sentenze della Corte di Cassazione 13 ottobre 2015 n. 20540 e n. 20545 – In argomento v. anche Licenziamenti: la questione del controllo di proporzionalità [1].

Hanno suscitato qualche apprensione, tra i sostenitori della riforma del lavoro, le due sentenze recentissime della Corte di Cassazione (indicate in epigrafe) che in via incidentale hanno enunciato un primo criterio di interpretazione di una disposizione cruciale della nuova normativa, già presente nella legge n. 92/2012. Apprensione, a mio avviso, fuori luogo, almeno in linea di principio. Vediamo più da vicino la massima enunciata dalla Corte e perché essa non attenta all’effettività della riforma.

La massima enunciata dalla Corte – Le due sentenze, emanate in altrettante controversie relative all’applicazione dell’articolo 1 della legge Fornero del 2012, contengono un inciso riferito a una disposizione già contenuta in quella legge di tre anni or sono, che ricompare – con alcune precisazioni – nel decreto n. 23/2015: la norma che prevede la reintegrazione del lavoratore nel caso di licenziamento disciplinare motivato con un fatto insussistente. La Corte, dunque, afferma incidentalmente che la contestazione al lavoratore di un fatto lecito. cioè di un fatto che non costituisce mancanza contrattuale, va trattata come la contestazione di un fatto inesistente. Per consentire anche ai non addetti ai lavori di comprendere meglio la portata di questa massima, consideriamo due esempi concreti: la datrice di lavoro contesta al lavoratore di avere avuto contatti con una impresa diversa in vista di una possibile assunzione, oppure di essere stato visto in stato di ebbrezza in un locale pubblico una sera (fuori dell’orario di lavoro), e sulla base di questa contestazione lo licenzia. In entrambi i casi si deve senz’altro escludere che il comportamento contestato costituisca inadempimento di un obbligo contrattuale. Il giudice, in applicazione della massima enunciata dalla Cassazione, dovrà dunque annullare il licenziamento e reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro.

Perché questo orientamento giurisprudenziale non attenta all’effettività della riforma – Il decreto n. 23/2015 si è proposto di rendere effettivo un altro principio già contenuto nella legge Fornero del 2012, che però nei tre anni passati è stato diffusamente disatteso dalla giurisprudenza: quello in base al quale la reintegrazione del lavoratore si applica soltanto sulla base dell’accertamento di un abuso della facoltà di recesso da parte del datore di lavoro (discriminazione, rappresaglia, insussistenza del fatto contestato), mentre non si applica in tutti i casi in cui la qualificazione del licenziamento come scorretto dipende da una valutazione discrezionale del giudice circa il motivo addotto, in sé lecito: è quest’ultimo il caso della valutazione giudiziale circa l’idoneità delle esigenze economiche od organizzative addotte dal datore di lavoro a costituire giustificato motivo oggettivo del licenziamento, oppure circa la gravità della mancanza contestata al lavoratore. Ora, nel caso in cui al lavoratore venga contestato un comportamento che non costituisce inadempimento contrattuale, non entra in gioco una valutazione discrezionale del giudice circa l’interesse oggettivo dell’impresa al licenziamento, bensì un mero accertamento di liceità/illiceità del comportamento in questione del lavoratore: non siamo dunque nell’area in cui il giudice esercita per legge un’amplissima discrezionalità, come nel caso in cui gli è demandata la valutazione circa la sufficienza della gravità di una mancanza per la giustificazione di un licenziamento (o circa l’entità della perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto necessaria affinché si configuri la giustificazione obiettiva). Per altro verso, mi sembra ragionevole ricomprendere nella nozione di abuso della facoltà di recesso, sanzionato con la reintegrazione, il licenziamento fondato sulla contestazione disciplinare di un comportamento del lavoratore perfettamente lecito e non contrastante con i suoi doveri contrattuali.

L’obiezione (e la replica) – A questo ragionamento viene obiettato che anche la decisione circa la liceità o illiceità del comportamento contestato al lavoratore può presentare dei margini di opinabilità. È vero; come è vero che un margine di opinabilità c’è anche nell’accertamento del carattere discriminatorio o di rappresaglia di un licenziamento. Ma è molto diverso il caso in cui l’incertezza circa l’esito del giudizio dipende dal margine di modificabilità di una massima giuridica generalmente condivisa (per esempio: “il lavoratore può, in costanza di rapporto con un’impresa, cercare attivamente un altro lavoro”; oppure: “la datrice di lavoro non può sanzionare disciplinarmente un comportamento tenuto dal lavoratore nella sua vita privata, che non abbia riflesso sulla prestazione di lavoro o comunque sui legittimi interessi dell’impresa”), rispetto al caso in cui l’incertezza deriva invece da una discrezionalità che l’ordinamento stesso in via generale e ordinaria attribuisce al giudice circa la valutazione del caso concreto. Sta di fatto che con il decreto n. 23/2015 si è voluto ridurre drasticamente gli effetti riconducibili a questa discrezionalità; e su questo punto la massima enunciata dalle due sentenze della Corte di Cassazione segnalate non interferisce significativamente con l’intendimento del legislatore (salvo confidare che i giudici di merito e la stessa Cassazione si attengano davvero a questa massima, evitando di far passare per “comportamento lecito” ciò che lecito non è, quale che ne sia il grado di gravità).

Conclusione: le imprese che non vogliono rischiare la reintegrazione del dipendente licenziato motivino il licenziamento disciplinare con la contestazione di comportamenti di cui il carattere di inadempimento contrattuale sia pacifico e incontrovertibile. Questo vale sia per i licenziamenti cui si applica la legge Fornero del 2012, sia quelli cui si applica il decreto n. 23/2015.

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