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LE PRIME RISPOSTE DAL CARCERE SUL 41-BIS

IL REGIME DI ISOLAMENTO NON PUÒ MAI GIUSTIFICARSI COME AGGRAVIO DI PUNIZIONE, NEPPURE PER IL DELITTO PIÙ EFFERATO – IL PROBLEMA È SE E IN QUALE MISURA POSSA GIUSTIFICARSI COME MISURA DI LEGITTIMA DIFESA CONTRO LA POSSIBILITÀ DEL RIPETERSI DI AGGRESSIONI MORTALI DA PARTE DI PERSONE CHE NON ABBIANO RECISO I PROPRI LEGAMI CON LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI DI CUI HANNO FATTO PARTE

A seguito della mia Lettera aperta alla rivista Ristretti Orizzonti [1] di lunedì scorso ho ricevuto le risposte che seguono (22 novembre 2015) – Le riporto integralmente, con l’aggiunta di un mio intervento che non vuole essere una replica, ma soltanto un intervento problematico in questo dibattito straordinariamente importante e interessante.

“VOI VORRESTE CHE SACRIFICASSI LA MIA LIBERTÀ PER LA SICUREZZA. MA LA VOSTRA È UNA BATTAGLIA PERSA
di Ornella Favero, direttrice del mensile Ristretti Orizzonti

Gentile professor Ichino, proverò a rispondere alla sua lettera aperta, e a discuterne anche in redazione, in particolare con i detenuti che arrivano da anni di 41 bis. Questa estate ho iniziato una inchiesta nelle sezioni di Alta Sicurezza 1, quelle dove ci sono “i capi” delle organizzazioni criminali, e ricordo in particolare l’incontro con un uomo di 46 anni, Gaetano P. Un uomo condannato all’ergastolo per l’omicidio di un giudice, commesso quando aveva poco più di vent’anni; poi 18 anni trascorsi in 41 bis, 18 anni di solitudine, di isolamento, senza nulla a umanizzare quella condizione disumana di privazione di qualsiasi relazione. Lui mi ha descritto efficacemente con poche parole come si vive al 41-bis: “Eravamo solo noi con noi stessi. Per cui se dovevi fare delle riflessioni sulla tua vita, o ci arrivavi da solo, o continuavi quello che stavi facendo prima”. Pensare che le persone appartenenti ad organizzazioni criminali, cresciute in ambienti criminali, arrivino da sole alla consapevolezza del male fatto credo che sia un’illusione, un pensiero del tutto irrealistico. E tanto più lo è se uno entra nell’inferno del 41 bis: perché quando si è isolati per anni e si parla, come mi hanno raccontato in tanti, con i ragni e con gli scarafaggi, è quasi impossibile che un essere umano cominci a rivedere il suo passato e ad assumersi la responsabilità delle sue azioni. Io non so quindi se Giovanni Donatiello ai tempi del 41-bis era un delinquente e basta, io sinceramente dubito che fosse, da solo, arrivato alla consapevolezza del male fatto, però, mi scusi non voglio sembrarle cinica, non lo sono affatto, ma  non credo che sia questo il punto fondamentale del ragionamento. Io di punti ne vedo almeno due, e provo a spiegarli: il primo è fino a che punto può arrivare una democrazia per tutelare i suoi cittadini, può arrivare per esempio a torturare? Io credo di no, credo che una democrazia che usi i mezzi dei criminali sia una democrazia malata. Non ho mai visto nessun delinquente cambiare per effetto di trattamenti disumani e degradanti, e un Paese che li usa, comunque, fosse anche per fermare il terrorismo, degrada se stesso. Ha presente le immagini delle torture di Abu Ghraib? A me hanno fatto orrore, e non credo si possa dire che tutto è giustificato dal fatto che, forse, quei regimi e quei sistemi fermano tanti terroristi e mafiosi, perché il rischio è un degrado complessivo della società: quando ci si sente in guerra e si risponde al male con il male, è difficile poi ritrovare la propria umanità e tornare a mostrare la faccia mite.  E non credo nemmeno che si possa fare a finta che ci sia un 41-bis “civile, normale, umano”: quando le persone stanno dieci, quindici, anche vent’anni fuori dal mondo, con un’ora di colloquio al mese attraverso un vetro, costrette al nulla di una vita vuota di relazioni e di umanità, non è allora più onesta la pena di morte? Lo so che ci sono stati dei morti, che delle persone sono state uccise, e così come è successo negli anni del terrorismo, sono nate le leggi emergenziali, la sospensione dei diritti in nome della sicurezza. Ma quanto può durare un regime così poco umano, unito spesso alla condanna all’ergastolo ostativo e alla cancellazione di ogni speranza, quanto può essere compatibile con la democrazia? Non sono credente, ma riconosco al Papa di avere fatto il discorso più alto sulle pene che cancellano la speranza, definendo l’ergastolo “pena di morte nascosta”.

Ma c’è una seconda questione che mi interessa approfondire: io non sono certo tenera con i criminali, ma da tante testimonianze che ho sentito di “mafiosi” di una cosa mi sono resa conto, che può essere una banalità ma serve a fare un po’ di chiarezza: se sono nata in una città del nord del nostro Paese, padre medico, famiglia colta e benestante, credo che la mia scelta di essere una persona onesta sia stata più facile di quella di chi nasce al sud in certi ambienti degradati e saturi di illegalità. Questo non può essere un alibi, ma è senz’altro “un’attenuante della vita”. Io poi non sono più così sicura che la lotta alla mafia si debba fare con il carcere duro e l’infierire su quei settecento detenuti che sono in 41 bis, alcuni addirittura da 23 anni, da quando quel regime è nato, o che dal 41 bis sono passati a nuovi ghetti, i circuiti dell’Alta Sicurezza, e poi sulle loro famiglie, sui loro figli. Perché se quei figli vedono solo la faccia dura delle Istituzioni, credo che finiranno per odiarle, e più d’uno rischierà di fare la fine di suo padre. E non si uscirà mai da quella pericolosa “subcultura” per cui in intere regioni del nostro Paese le Istituzioni sono il nemico.

Io non mi sento e non voglio sentirmi in guerra, né rispetto alla mafia né rispetto al terrorismo, perché anche la guerra può diventare un alibi per giustificare la violenza dei “buoni”. E vorrei che facessimo nostre le parole del marito di una giovane donna uccisa negli attentati di Parigi: “Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa”.

 

NON SI DEVE RISPONDERE AL CRIMINE CON UN ARRETRAMENTO CULTURALE
di Carmelo Musumeci
, condannato all’ergastolo, detenuto attualmente nel Carcere di Padova

In questi giorni sto pensando che dopo i bruttissimi fatti di Parigi credo che ci sarà un arretramento culturale “fisiologico” nella società. Capisco, purtroppo, che è difficile continuare a essere umani con persone disumane che in nome del Dio di turno ammazzano e uccidono gente innocente. E sinceramente trovo molta difficoltà a rispondere alle parole che il professor Pietro Ichino scrive alla redazione di Ristretti Orizzonti. Penso comunque che sia giusto che ci provo.

Professor Ichino, io penso che se è solo una questione di sicurezza e non di vendetta sociale, sia più sicura per la collettività la pena di morte che il regime di tortura del 41-bis. Le sembrerà strano, ma anch’io sono convinto che questo duro regime abbia impedito a breve termine “che altre lastre di marmo separino altre persone dal mondo a cui hanno appartenuto”, ma a che prezzo? A lungo andare credo che il regime di tortura del 41-bis abbia rafforzato la cultura mafiosa perché ha creato odio, rancore e devianza anche nei familiari dei detenuti. Poi mi creda, è difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami neppure per quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo stato e le istituzioni come nemici da odiare e c’è il rischio che i tuoi stessi figli diventeranno dei mafiosi in futuro. Che fare? Non lo so neppure io. Ho molti dubbi e poche certezze, ma credo che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Forse si potrebbe trovare la via di mezzo e il regime di tortura del 41-bis applicarlo in casi eccezionali. E non certo per anni e anni come accade adesso. Mi ricordo che ai miei tempi veniva applicato anche ai giovani adulti e in maniera indiscriminata, più per avere il consenso politico e sociale che per sicurezza. Professor Ichino, sinceramente, per me è stato molto più “doloroso” e rieducativo fare parte della redazione di “Ristretti Orizzonti” e rispondere alle “terribili” domande degli studenti durante il progetto “Scuola-Carcere”, che gli anni passati murato vivo in isolamento totale durante il regime di tortura del 41-bis. In quel regime, mi sentivo innocente del male fatto, ora, invece, che sono trattato con un po’ più di umanità mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo possa accadere anche alla maggioranza dei prigionieri che sono ancora detenuti in quel girone infernale.

Professor Ichino, il mese scorso mia figlia è stata in vacanza a Parigi con i miei due nipotini e dopo i tragici attentati accaduti in Francia ho pensato con terrore come avrei ragionato e cosa avrei augurato ai terroristi, se fosse accaduto qualcosa per colpa loro ai miei cari. Non ho avuto dubbi, avrei forse voluto per loro la pena di morte ma non la tortura del regime del 41-bis e neppure la pena di morte al rallentatore dell’ergastolo ostativo. Le confido che però subito dopo ho pensato, con sconforto, che forse non sono ancora cambiato e sono ancora quel criminale di una volta, perché non riuscirei a perdonare ma neppure a essere una persona “perbene” e a “limitarmi” a torturare una persona nel regime di tortura del 41 bis o murarla viva per il resto dei suoi giorni senza neppure la sensibilità e l’umanità di ammazzarla prima, neppure per salvare delle vite umane innocenti. Un sorriso fra le sbarre.

 

IL CONTESTO DOVE SI VIVE FA LA SUA PARTE
di Tommaso Romeo, condannato all’ergastolo ostativo

Nasco e cresco in un quartiere della città di Reggio Calabria dove è situato il carcere San Pietro, la maggior parte di noi del quartiere fin da piccoli conoscevamo bene il carcere perché quasi tutti avevamo un parente detenuto, mi ricordo che quando frequentavo le scuole medie il preside ogni martedì ci faceva uscire un’ora prima in quanto quasi tutti in classe dovevamo andare a colloquio dai nostri parenti.

Vi racconto la giornata del martedì: siccome il carcere era antico le finestre di alcune celle si affacciavano sulla strada, la distanza poteva essere di venti metri. Tutti i martedì mattina prima di andare a scuola io e un altro mio amichetto avevamo il compito di andare sotto le finestre con il mio motorino ciao, quando arrivavo si affacciava un detenuto che mi elencava di cosa avessero bisogno, per esempio mi diceva: “Tommaso, digli a mia madre di portarmi due tute, digli alla moglie del tizio di portargli un pigiama, digli alla sorella del tizio di portargli le scarpe da calcio…”, poi io andavo da un ragazzo più grande e gli lasciavo la nota e lui andava dai famigliari dei detenuti, io invece entravo a scuola. Alle dodici in punto ci vedevamo tutti davanti al carcere per il colloquio che facevamo in una stanza grande divisa da un bancone. Anche negli altri giorni, quando si sentiva un fischio particolare, qualsiasi automobilista del rione si fermava e andava sotto le finestre del carcere per vedere cosa volessero i detenuti, perché tutti del rione sapevano che quel fischio era una richiesta di aiuto dei detenuti e che era un dovere fermarsi a vedere di cosa avevano bisogno.

Perciò il carcere diventa parte della nostra vita fin da piccoli e crescendo non ci fa paura. Certamente facevamo di tutto per non finirci dentro, tanto che fin da ragazzini imparavamo dagli errori dei grandi, e per esempio se un nostro parente veniva arrestato, appena sapevamo il suo errore subito lo commentavamo e ci ripromettevamo, se una volta grandi ci fosse capitato di trovarci nella sua stessa situazione, di ricordarci di non fare quel suo stesso errore. Perciò senza aver commesso dei reati sapevamo già come farli e non farci beccare e più gli anni passavano e più diventavamo esperti. E inoltre fin da piccoli con quei colloqui conoscevamo tutto il mondo criminale della città, sapevamo chi rubava, chi rapinava e anche quelli del crimine organizzato.

Diventati grandi, erroneamente abbiamo pensato che eravamo così in gamba, che non saremmo mai finiti in carcere, invece quasi tutti ci stiamo trascorrendo la maggior parte della nostra vita, più di una volta abbiamo commentato “Chissà, se eravamo nati in una città del nord, se la nostra vita sarebbe andata a finire così”; sicuramente siamo consapevoli che le scelte di vita sono personali, ma il contesto dove vivi influisce molto sulle tue scelte.

 

NON È VERO CHE IL FINE GIUSTIFICA I MEZZI
Estratto da Quattro interrogativi (e alcune considerazioni) sulla compatibilità costituzionale del 41-bis di Andrea Pugiotto, Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara

“E se i detenuti per reati efferati di criminalità organizzata sono sottoposti a un regime speciale particolarmente severo, poco male: se lo sono meritati. Viene in mente una vignetta di Altan, dov’è rappresentato il dialogo tra un mafioso e il piccolo dodicenne Di Matteo (ricorderete, rapito perché figlio di un pentito, poi strangolato e infine sciolto nell’acido da Giovanni Brusca). Dice il primo: «Il carcere duro è inumano». Risponde il secondo: «Vuoi fare cambio?».

È una tesi largamente diffusa. Non può però essere la tesi di un ordinamento democratico. La nostra Costituzione ammette la forza, ma vieta la violenza, specialmente da parte dei propri apparati. Vieta quel «puro esercizio di violenza», attestato alcuni giorni fa dalla Corte di Cassazione nella sua sentenza sul caso Diaz, che solo la perdurante inerzia del Parlamento impedisce di qualificare giuridicamente per quella che è: tortura. Avrà pure un significato se – al pari della nostra Costituzione – tutte le Carte internazionali dei diritti la vietano, senza eccezione alcuna. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sul punto, è categorica nell’escludere qualunque deroga al divieto di tortura (e a trattamenti disumani e degradanti), neppure nelle circostanze più difficili, quali la lotta al terrorismo e al crimine organizzato, giusta la previsione dell’art. 15, 2° comma, della CEDU.

Perché non è vero che il fine giustifica i mezzi. È semmai vero il contrario: in una democrazia costituzionale, sono i mezzi a prefigurare i fini”.

 

UN MIO SECONDO INTERVENTO IN QUESTO DIBATTITO MOLTO IMPORTANTE

Ringrazio tutti gli interlocutori della mia Lettera aperta della settimana scorsa per le loro risposte così rapide e dense di un contenuto che condivido interamente (soprattutto quello dell’intervento di Tommaso Romeo circa l’importanza del contesto in cui ciascuna persona si forma). Concordo, in particolare, su di un punto molto importante che essi, tutti, sottolineano: se il regime del 41-bis viene applicato in funzione punitiva, cioè come aggravio della pena in relazione alla gravità di un reato, questo è contrario al principio costituzionale per cui la pena deve sempre tendere alla riabilitazione di chi la subisce; mentre il 41-bis rende semmai più difficile la riabilitazione.
Mi sembra, però, che il discorso sia parzialmente diverso quando il comportamento della  persona detenuta faccia temere che essa possa continuare, pur dall’interno del carcere, a commettere reati gravissimi, ad attentare alla vita di altre persone: in questo caso l’inibizione del contatto con altre persone in carcere risponde (non a un intendimento retributivo, di aggravio di pena, ma)  a un’esigenza di legittima difesa della società di fronte al “pericolo attuale di un’offesa ingiusta” (articolo 52 del codice penale). Il tema, qui, non è affatto – e non deve essere – quello della punizione, ma è quello dell’impedire a chi attenta alla vita altrui di mandare a segno i propri colpi. Quando il generale Dalla Chiesa introdusse questo regime come forma di legittima difesa della società contro il terrorismo politico, in Italia veniva uccisa o gravemente ferita dai terroristi sulla porta di casa una persona innocente mediamente ogni quindici giorni. Se serve a impedire qualche cosa di questo genere, non mi sento di condannare il regime del 41-
bis, perché l’alternativa all’isolamento dell’aggressore è un grave e attuale pericolo di vita dell’aggredito. Certo, l’articolo 52 del codice penale richiede anche che “la difesa sia proporzionata all’offesa”: ma mi sembra che, quando l’offesa consista nella minaccia di morte, la difesa consistente nell’isolamento dell’aggressore non pecchi di sproporzione. Questo è il motivo per cui nella mia Lettera aperta [1] ho chiesto che, per consentire di valutare la denuncia di Giovanni Donatiello circa il 41-bis cui è stato sottoposto,  egli stesso o Ristretti Orizzonti forniscano qualche informazione circa il motivo per cui quella misura gli era stata applicata: la valutazione non può non essere diversa a seconda che il 41-bis fosse o no, in concreto, una “difesa proporzionata all’offesa” che altre persone avrebbero potuto altrimenti subire.
Là dove sussistano i requisiti dell’immediatezza del pericolo e della proporzione tra misura difensiva e offesa, non mi sembra proprio che possa essere la misura difensiva a generare odio e risentimento diffusi – qui rispondo a Carmelo Musumeci, di cui pure comprendo bene e apprezzo molto l’argomento – perché è evidente che la misura difensiva costituisce in questo caso un male minore rispetto all’offesa di cui incombe un rischio attuale.
Detto questo, sono ben consapevole di quanto sia problematico discutere della libertà e della sofferenza delle persone – siano esse gli aggressori o le vittime – stando al caldo e al sicuro della propria casa. E questa consapevolezza mi induce ad accettare ben volentieri di mettere in dubbio ogni argomento che propongo nella nostra discussione. Se intervengo di nuovo, non è per difendere una convinzione ma per alimentare un dialogo del quale sono grato a tutti coloro che vi partecipano e dal quale so di avere molto da apprendere.    (p.i.)

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