- Pietro Ichino - https://www.pietroichino.it -

PREVIDENZA COMPLEMENTARE: PERCHÉ NON PUÒ FUNZIONARE COL SISTEMA “A RIPARTIZIONE”

ANCHE L’ASSICURAZIONE GENERALE NON RIESCE PIÙ DA TEMPO A GARANTIRE PENSIONI CALCOLATE SULL’ULTIMA RETRIBUZIONE PAGATE CON I CONTRIBUTI DELLE NUOVE GENERAZIONI; ANCOR MENO È PROPONIBILE UN MECCANISMO DI QUESTO GENERE PER UN SISTEMA COMPLEMENTARE, FONDATO SULLA LIBERA SCELTA DEGLI ASSICURATI

Articolo di Giuliano Cazzola, pubblicato sul sito IlSussidiario.net [1] il 27 gennaio 2016.

Povera previdenza complementare! Nel corso della XVI Legislatura è stata dimenticata tanto dai governi quanto dall’opposizione. Un piccolo accenno, interessante ma estremamente astratto e problematico, era contenuto nella riforma Fornero (articolo 24 del decreto Salva Italia), dove, al comma 28, veniva prevista la costituzione di una Commissione di esperti incaricata di proporre, entro il 2012, possibili ulteriori forme di gradualità nell’accesso al trattamento pensionistico con il metodo contributivo. L’ultimo periodo del comma stabiliva che, entro il termine suddetto, sarebbero state analizzate ‘’eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni’’.

Era questa un’idea che la professoressa Elsa Fornero aveva consegnato al ministro Elsa Fornero. La Prof. Fornero pubblicò, infatti, un importante saggio su questo argomento corredato di una proposta compiuta (lo storno di una quota fino all’8% dell’aliquota contributiva), insieme al suo maestro Onorato Castellino, il primo studioso che lanciò l’allarme pensioni alcuni decenni or sono. Sul piano tecnico il procedimento è definito di opting out . Si tratta di consentire ad un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del TFR per aderire ad un fondo), di destinare parte della sua contribuzione obbligatoria al finanziamento di una forma di previdenza complementare. Potrebbe, in questo modo, distribuire il proprio rischio previdenziale su di una quota pubblica a ripartizione ed una privata a capitalizzazione (questa forma è obbligatoria per i fondi pensione e le altre forme fin dal 1992), senza dover sostenere maggiori oneri, dal momento che l’esperienza pratica dimostra che i giovani non si accostano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie. Mediante le soluzioni di opting out si otterrebbe certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe possibile acquisire rendimenti più generosi sui mercati. L’operazione non è semplice e contiene qualche rischio, tanto che la norma Fornero prevedeva un concerto con gli enti gestori di previdenza obbligatoria e con le autorità di vigilanza operanti nel settore.

In ogni caso, quel comma non ha avuto seguito alcuno (anche se l’estate scorsa è sembrato che la proposta venisse recuperata da una delle ‘’teste di uovo’’ di Matteo Renzi). Poi, nella XVII Legislatura, i fondi pensione e le altre forme di previdenza complementare sono state penalizzate per quanto riguarda la tassazione dei rendimenti, che è pur sempre uno dei fattori che concorrono a formare il montante su cui verrà calcolato l’importo della pensione. A tal proposito va ricordato che il decreto ministeriale sul credito di imposta, come previsto dalla legge di stabilità 2015, ha ridotto di nove punti (dal 20% all’11%) l’aliquota sui rendimenti allo scopo di favorire investimenti nell’economia reale (il bonus è di soli sei punti – dal 26% al 20% – nel caso delle Casse dei liberi professionisti). E’ difficile, però, sottrarsi al dubbio per cui, mediante l’uso di una leva fiscale meno arcigna, lo Stato intenda ‘’mettere le mani’’ sulle risorse disponibili dei fondi (un patrimonio di oltre 130 miliardi di euro) per indirizzarne gli investimenti a finalità di politica economica, mentre la loro funzione sarebbe quella di tutelare nel migliore dei modi possibili il futuro pensionistico degli iscritti. Tutto il settore della previdenza privata, del resto, è un po’ allo sbando, a cominciare dalla Covip, l’autorità di vigilanza, di cui non si comprende quale destino avrà, benché sia tenuta a svolgere anche il delicato compito di controllo sugli investimenti delle Casse privatizzate (il cui patrimonio ammonta a circa 70 miliardi).

Come se non bastasse un’altra minaccia incombe sull’incerto futuro della previdenza privata a capitalizzazione. Si tratta di un emendamento (art.16-bis) al disegno di legge sulla concorrenza (a prima firma del presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti) che propone di istituire presso l’Istituto di via Ciro il Grande, una forma di previdenza denominata ‘’IntegraInps’’, in cui i lavoratori dipendenti pubblici e privati, quelli autonomi e parasubordinati, ‘’al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale e promuovere una maggiore concorrenza tra le forme di previdenza complementare’’ avrebbero la facoltà di ‘’versare contribuzione destinata a risparmio previdenziale aggiuntivo’’. Senza addentrasi troppo nel contorto meccanismo proposto, viene subito in evidenza il limite principale della proposta: questa forma di previdenza sarà gestita ‘’secondo il sistema di finanziamento a ripartizione’’. Ciò vuol dire che alla previdenza privata gestita dall’Inps (il quale già si occupa del Fondo residuale e del Fondo Tesoro in cui affluisce il TRF inoptato dei dipendenti delle aziende con 50 e più dipendenti) si applicherebbero le medesime regole di finanziamento che hanno messo nei guai la previdenza obbligatoria.

Che cosa comporta il criterio della ripartizione? I grandi sistemi pensionistici pubblici – è questa la prima fondamentale nozione da apprendere e tenere a mente – funzionano con il metodo della cosiddetta ripartizione in forza del quale le pensioni di volta in volta vigenti sono finanziate dai contributi versati dai lavoratori attivi in quello stesso periodo, sulla base di un patto fra le generazioni, imposto e garantito dallo Stato. Tale patto promette ai contribuenti di oggi che, domani, divenuti pensionati, ci sarà un’altra generazione di contribuenti che onorerà le promesse ricevute in cambio dell’adempimento ai propri doveri. Se poi le promesse assurgeranno all’Eliseo dei diritti è tutto un altro paio di maniche. È bene farlo subito questo ragionamento e mettere immediatamente le carte sul tavolo. Nella cultura statalista dominante è presente una fiducia eccessiva nelle leggi, come se bastassero le norme a produrre le risorse che servono a pagare le pensioni. In realtà, l’equilibrio del patto intergenerazionale sotteso ai grandi sistemi pubblici dipende strettamente da parametri (crescita economica e dell’occupazione, andamenti demografici, ecc.) che le leggi non possono determinare, mentre ne sono radicalmente condizionate. Ogni variazione di tali parametri produce degli effetti – più o meno profondi e strutturali – che incidono sulla possibilità di dare per definitivamente acquisiti le aspettative previdenziali (di tradurre cioè in diritti esigibili le promesse). La scelta strategica che viene indicata, allora, è quella di affidare la tutela previdenziale delle generazioni future ad un mix di previdenza obbligatoria, finanziata a ripartizione (il c.d. primo pilastro basato sul principio della solidarietà intergenerazionale) e di previdenza privata a capitalizzazione (il secondo pilastro dove ciascuno ‘’pensa per sé’’). Il problema, allora, è quello di impostare, con equilibrio, un sistema misto, rivolto, quanto meno, ad operare sia sul piano della finanza pubblica, sia su quello dei mercati finanziari. Una sinergia virtuosa, dunque. La quota pubblica della pensione riuscirebbe ad alleggerire il proprio impegno, in vista della crescente “crisi fiscale” degli Stati e dei rivolgimenti nella struttura sociale sottostante. Quella privata potrebbe contare su di una garanzia di base, utile nel momento in cui il residuo trattamento viene conseguito misurandosi con “gli spiriti animali” del mercato. È molto più conveniente, anche ai fini della tutela dei lavoratori, fare affidamento su di una strategia che ripartisca il rischio-pensioni in parte sul sistema pubblico riformato ed in parte su di una quota a capitalizzazione individuale, costituita di investimenti e rendimenti veri.

Il ragionamento è di una semplicità elementare. Abbiamo a disposizione una somma di denaro. Se la spendiamo subito non resta nulla (salvo i beni di consumo eventualmente acquistati). Se, al contrario, investiamo le nostre risorse, con accortezza e professionalità, possiamo sperare di incrementarne il valore iniziale, conformemente ai rendimenti realizzati. Nel frattempo, il gruzzolo ha “viaggiato” nell’economia reale, ha prodotto ricchezza e lavoro. Attraverso un immaginario, grande pantografo possiamo trasferire l’esempio agli imponenti meccanismi dei sistemi pensionistici e spiegare, così, gli effetti dei metodi di finanziamento. Con la ripartizione, si impiegano gli apporti dei lavoratori attivi per pagare le pensioni vigenti, mediante una catena di sant’Antonio di cui lo Stato è garante e che inanella, nel tempo, le diverse generazioni, inducendole a un comportamento forzosamente solidale. Con la capitalizzazione, invece, ognuno è padrone del proprio destino pensionistico: la sua prestazione complementare, al momento dell’uscita dal mercato del lavoro, sarà determinata dal montante accantonato e dai relativi interessi. Nella ripartizione sono, dunque, altri (gli attivi) a sostenere l’onere della solidarietà; nella capitalizzazione ognuno provvede per sé, ma il suo risparmio previdenziale per lunghi decenni è al servizio del bene collettivo.

Da troppi anni l’Italia è alla ricerca di un moderno sistema di risparmio a fini previdenziali, che (ripetiamo il concetto fino alla noia) operando secondo una logica di migliore allocazione del rischio all’interno di un sistema misto (prevalentemente) pubblico e (adeguatamente) privato, possa meglio tutelare le pensioni delle giovani generazioni dagli effetti devastanti delle crisi determinate dalle profonde trasformazioni demografiche, economiche, occupazionali e sociali, in corso e attese. La ripartizione, poi, è una strada senza ritorno. Mentre si può passare (come è stato fatto) dal metodo della capitalizzazione a quello della ripartizione, non è possibile ripercorre il cammino in senso contrario, perché si dovrebbe trovare ‘’chi’’ si assume l’onere di fare fronte alla spesa riguardante lo stock delle pensioni in essere, dal momento che i versamenti dei lavoratori attivi restano imputati a loro stessi. Che senso ha, allora, l’emendamento Mucchetti? Investire risorse aggiuntive in una forma a ripartizione consente soltanto di acquisire qualche promessa in più per il trattamento che si avrà in futuro. Nel frattempo verrà dato al sistema la possibilità di ‘’spendere’’ oggi quelle maggiori risorse.   Magari per politiche di consenso elettorale a favore degli attuali pensionati o pensionandi.

.