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SUL DIVIETO DI ATTIVARE LA CASSA INTEGRAZIONE PER I DIPENDENTI DELL’IMPRESA FALLITA

QUALI RAGIONI LOGICHE E DI OPPORTUNITÀ PRATICA HANNO INDOTTO IL LEGISLATORE A ESCLUDERE L’ATTIVAZIONE DI QUESTA FORMA DI SOSTEGNO DEL REDDITO, CHE PRESUPPONE UNA RAGIONEVOLE PROSPETTIVA DI PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ (IMPOSSIBILE NEL CASO DI FALLIMENTO)

Lettera pervenuta il 29 marzo 2016 – Segue la mia risposta.

Caro Professore, come ben sai,  l’art. 2 Comma 70 della legge n. 92 del 28 giugno 2012  ha previsto l’abrogazione dell’art. 3 della legge n. 223/1991 e l’intervento della Cigs concorsuale a far data dal 1° gennaio 2016. È stata così definitivamente eliminata la possibilità di ricorrere alla Cigs per i Curatori fallimentari,  che aveva già trovato una parziale limitazione, nel triennio 2012-2015,  attraverso l’adozione del D.M. 4 dicembre 2012 n. 70750, che aveva fissato i “parametri oggettivi” per l’accesso all’istituto.  A partire da gennaio 2016 non è più possibile chiedere l’accesso alla Cigs e si vengono così  a creare situazioni paradossali: le Curatele devono necessariamente procedere all’apertura di una procedura di licenziamento collettivo e si arriva quindi a vendere le aziende, previo l’esperimento delle procedure competitive,  senza consentire una continuità di reddito ai lavoratori, in una fase problematica della vita aziendale. Da un lato,  il tutto avviene per applicazione dell’art. 72 della legge fallimentare anche ai rapporti di lavoro; dall’altro  si assiste a fenomeni di disintegrazione del complesso aziendale, con buona pace dei buoni propositi in tema di circolazione delle aziende, salvaguardia dei posti di lavoro, ecc. ccc., in aperta contraddizione con i principi della riforma fallimentare. In questi giorni,  per esperienza diretta ” sul campo”  ho visto smentita  anche la  positiva indicazione della circolare n. 24/2015 dello stesso ministero del Lavoro,  che, pur limitatamente alle procedure concorsuali con continuazione dell’esercizio d’impresa,  parrebbe far consentire l’accesso agli ammortizzatori sociali: tale indicazione viene infatti letta dai competenti Uffici  nel senso che la Curatela debba proporre un piano di risanamento, tale far ritornare la società in bonis! Tale indicazione mi pare in contrasto con tutta la legislazione fallimentare dell’ultimo decennio. In conclusione: a me pare che l’impostazione del governo Monti, non corretta dai successivi governi, ha voluto colpire la patologia di certe situazioni e non ha considerato una doverosa visione fisiologica, particolarmente doverosa in questa fase di crisi.  De iure condendo,  non sarebbe opportuna una riformulazione di tutta la normativa?  Che senso ha  l’obbligo per la Curatela di procedere al licenziamento collettivo a norma dell’art. 24 della legge n. 223/1991, con una procedura della durata di 75 gg., senza reddito alcuno per i lavoratori e senza che le Curatele possano minimamente mettere in atto una strategia utile, sia per i lavoratori che per la vendita dei complessi aziendali? Qual è il tuo parere? Formulo i complimenti per il sito e per lo spazio di discussione, porgendo i migliori saluti
Adelio Riva

La regola generale è quella che limita il ricorso alla Cassa integrazione ai soli casi nei quali è ragionevolmente prevedibile la ripresa del lavoro nella stessa azienda entro il termine della sospensione. In passato questa regola è stata diffusamente elusa, quando non platealmente disapplicata, proprio nelle procedure fallimentari, anche in casi nei quali era certo che il lavoro nella stessa azienda non sarebbe ripreso; e con questo si è fatto il danno dei lavoratori interessati, che sono stati – per così dire – messi in freezer: perché la Cassa integrazione, per sua natura, non stimola la ricerca della nuova occupazione, anzi la inibisce, col risultato di cacciare chi ne beneficia nel vicolo cieco della disoccupazione di lunga durata (è noto, infatti, che la probabilità di ritrovare una occupazione decresce col prolungarsi del periodo di inattività). La legge Fornero n. 92/2012 e il decreto legislativo n. 148/2015 hanno inteso porre drasticamente fine a questo abuso dell’istituto, sia sul piano generale, sia in particolare in riferimento al caso delle imprese fallite. Quest’ultimo caso si caratterizza, rispetto alla generalità degli altri casi di crisi occupazionale, perché a) il vecchio datore di lavoro, a seguito della sentenza di fallimento, cessa di essere operativo e non potrà certamente essere quello che riattiva i rapporti di lavoro; b) il nuovo imprenditore che, in ipotesi, acquisti in blocco il complesso dei beni aziendali dal fallimento non è soggetto alla norma generale che regola i trasferimenti di azienda (per la quale i rapporti di lavoro proseguono con l’acquirente senza soluzione di continuità): è dunque certo che i rapporti di lavoro non potranno essere riattivati dall’acquirente senza soluzione di continuità. La cesura deve necessariamente esserci. Questo è il motivo logico per cui la legge vieta l’attivazione della Cassa integrazione a seguito del fallimento, anche quando c’è qualche possibilità che un nuovo imprenditore acquisti il complesso dei beni aziendali, imponendo che il vecchio rapporto di lavoro venga risolto dal curatore fallimentare, con l’attivazione della procedura del licenziamento collettivo, e il sostegno del reddito dei lavoratori sia conseguentemente affidato alla NASpI (la nuova assicurazione universale contro la disoccupazione) [1]. Quest’ultima ha la stessa durata massima che avrebbe, a regime, l’integrazione salariale: 24 mesi; ed è importante che i sindacati si attivino in tutte le imprese per negoziare quella forma di welfare aziendale, fortemente incentivato fiscalmente dall’ultima legge di stabilità, che consiste nel trattamento complementare di disoccupazione: un’integrazione anche di piccola entità – quale potrebbe essere il 10 o il 15 per cento – sommata al trattamento NASpI pari al 75 per cento dell’ultima retribuzione – porterebbe il trattamento complessivo al di sopra di quello assicurato dalla Cassa integrazione; e costituirebbe credito dei lavoratori anche nei confronti del fallimento, al primo grado di privilegio. Quanto alla procedura del licenziamento collettivo, osservo che essa non deve necessariamente durare 75 giorni: se il curatore raggiunge con i sindacati l’accordo circa la sussistenza del motivo della cessazione dei rapporti, essa può concludersi immediatamente, col risultato che al termine del solo periodo di preavviso (retribuito a carico del fallimento) i lavoratori incominciano a godere immediatamente del trattamento di disoccupazione. Nel nuovo contesto ordinamentale, il sindacato che rifiutasse l’accordo non farebbe, evidentemente, l’interesse dei lavoratori rappresentati. Così stando le cose, a me sembra che il divieto di attivare la Cassa integrazione a seguito del fallimento dell’impresa non sia una norma sbagliata.     (p.i.)

LA REPLICA
Caro Prof, sono un amico, ma dissenziente, almeno questa volta. Ringrazio per la risposta. Temo però che non ci siamo capiti. Il tema che ho  sottoposto al Tuo autorevole esame, è un altro: si tratta della possibilità di chiedere l’intervento della Cigs da parte delle Curatele ex art. 1 , in ipotesi di esercizio provvisorio; ipotesi che la Circolare Ministeriale che avevo citato pare fare propria, almeno a livello teorico, salvo poi chiedere, di fatto, un improbabile ritorno in bonis delle Società fallite! Posso richiederti di ripensare la cosa?  Sei proprio sicuro che non concedere questa possibilità sia utile all’economia nazionale? Da ultimo, mi si conceda una indicazione pratica: non sarebbe opportuno concedere il trattamento di Cigs e defalcarlo dal periodo di Naspi? Un caro saluto
Adelio Riva
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