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IL CONTRIBUTO DI ENRICO MORANDO PER IL CONGRESSO DEL PD

LA NUOVA ALLEANZA TRA MERITO E BISOGNI. IL PARTITO DI CENTROSINISTRA A VOCAZIONE MAGGIORITARIA: PARTITO APERTO, DEGLI ISCRITTI E DEGLI ELETTORI. LA MADRE DI TUTTE LE RIFORME: QUELLA DEL MERCATO E DEL DIRITTO DEL LAVORO

L’imminente Convenzione nazionale del PD è chiamata a scegliere leader e linea politica del partito, dopo la convulsa fase della sua costituzione (ottobre 2007), della sconfitta elettorale e del primo anno di opposizione al Governo di centro-destra. In questo documento Enrico Morando – senatore del P.D. – prova a riassumere, dal suo punto di vista, i termini essenziali del confronto. Con i primi cinque punti (la nuova alleanza tra merito e bisogni; partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria; partito aperto, degli iscritti e degli elettori; un nuovo internazionalismo democratico; una scelta chiara tra linee alternative) egli si propone di illustrare i cardini del posizionamento politico – funzione, natura e linea politica – che ritiene preferibile per il PD.
La seconda parte del documento non ha la pretesa di essere un programma di governo. Sono solo degli esempi, per orientare la discussione congressuale e mostrare all’opera i principi illustrati nella prima parte.

 1) LA NUOVA ALLEANZA DEL MERITO E DEI BISOGNI

Il PD è un partito di centrosinistra, nato per cambiare l’Italia, secondo i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà, attraverso una nuova alleanza del merito e dei bisogni: le componenti più dinamiche della società unite a quelle più esposte al rischio di esclusione da un credibile progetto di cambiamento, che promuova la coesione sociale anche per raggiungere più elevati traguardi di efficienza economica e metta la crescita del reddito nazionale al servizio di una maggiore giustizia e mobilità sociale.

Per far ripartire l’ascensore sociale, ridurre progressivamente le aree dello smaccato privilegio e della disperata emarginazione, far crescere in modo stabile e duraturo la ricchezza nazionale, colmare il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, diffondere il benessere e irrobustire la classe media, cambiare lo Stato Sociale per renderlo davvero capace di aiutare chi resta indietro a camminare con gli altri, il progetto di cambiamento del Paese deve aggredire ogni forma di chiusura corporativa, creare dispari opportunità positive a favore delle donne e dei giovani, portare concorrenza dove non ce n’è o non ce n’è abbastanza, valorizzare il lavoro in quanto tale, dipendente o autonomo che sia, imporre alla Pubblica Amministrazione – dalla Giustizia agli apparati per la sicurezza -, insieme ai principi di trasparenza e valutazione indipendente, anche tempi, risultati e costi tratti dalle migliori esperienze europee e mondiali, iniettare nella società, nell’economica e nello Stato robuste dosi di meritocrazia, ridare prestigio alla politica riducendone i costi e riconsegnando nelle mani dei cittadini il potere di decidere, col voto, sulla rappresentanza e sul governo.

L’Italia che da quindici anni cresce meno dell’Europa, che è il Paese con minore mobilità sociale, con più elevati livelli di disuguaglianza, e con il più rapido invecchiamento della popolazione, ha un drammatico e urgente bisogno di questo cambiamento.

Il centro-destra fa leva sulla paura e alimenta il suo populismo con la politica dell’annuncio rassicurante. Il centro-sinistra può prevalere – nella competizione democratica – solo se allontana da sé (e dalla sua immagine) la tentazione di reagire in chiave meramente tattica, promuovendo un “suo” conservatorismo. Volto ad affermare interessi diversi rispetto a quelli tutelati dal centro-destra, ma pur sempre conservatorismo.

La missione del PD coincide con l’interesse di fondo del Paese: dare alla Politica italiana la forza necessaria per piegare la resistenza dei difensori dello status quo, impegnando la maggioranza del popolo nel sostegno a un progetto di cambiamento che riconosce e tutela gli interessi delle generazioni presenti, ma li compone in un ordine gerarchico che assegna priorità a quelli delle generazioni future.

L’evidenza dei guasti provocati dall’estremismo liberista, dalla disordinata de-regolazione di istituzioni bancarie e finanziarie da cui dipende la stabilità dell’intero sistema economico, non deve indurre ad una reazione altrettanto estrema a favore dell’intervento statale in ogni ambito e per ogni problema. Da un lato è necessario essere vigili per impedire che gli interessi e le concezioni economiche che hanno provocato la deregolazione e la crisi non ostacolino progetti di intervento e di regolazione decisi e severi quanto basta per risolvere le difficoltà attuali e impedire che insorgano crisi analoghe in futuro: ostacoli in tal senso già si intravedono e li denunciano autorità come Paul Volcker, Warren Buffett e Gorge Soros, non certo degli statalisti.

D’altro lato occorre essere consapevoli che lo Stato conosce fallimenti altrettanto seri quanto quelli del mercato, e in Italia, coll’inquinamento partitico e la debole qualità dell’amministrazione pubblica che ci contraddistingue, dovremmo saperlo bene. Il Partito Democratico, per la sua cultura e le sue ambizioni maggioritarie, respinge posizioni ideologiche pregiudizialmente favorevoli all’uno o all’altro polo della regolazione, allo Stato o al mercato, e ambisce a esercitare, per ogni caso concreto, una discrezione intelligente. Resto dunque convinto, per il caso italiano, che una posizione liberale equilibrata come quella espressa nel discorso del Lingotto sia quella più adatta ad attuare la visione del merito e dei bisogni che ho appena illustrato, l’unica adatta a un partito di centrosinistra.

     2) IL PD, PARTITO DI CENTROSINISTRA A VOCAZIONE MAGGIORITARIA

Un progetto così radicale di rinnovamento del Paese può essere solo il frutto di un lungo ciclo di governo riformista. Il PD è nato per renderlo possibile. È stato proprio il PD – con il suo atto di nascita, rifiutando la “divisione del lavoro” tra centro e sinistra; con la posizione che ha assunto prima delle elezioni Politiche del 2008, respingendo la logica delle coalizioni “contro”, troppo larghe e troppo disomogenee per garantire cambiamento nella stabilità – a rafforzare il gracile e malcerto bipolarismo italiano, favorendone la riorganizzazione attorno a due grandi formazioni politiche a vocazione maggioritaria.

Il PD non è un partito di sinistra, ma di centrosinistra. È il soggetto politico perno del centro-sinistra italiano, in quanto partito a vocazione maggioritaria. Nel duplice senso che è dotato di una leadership individuale e collettiva, di un radicamento sociale e territoriale, di una cultura politica, di un profilo ideale e programmatico tali da poter credibilmente aspirare ad interpretare le esigenze e le speranze della maggioranza del popolo e a raccoglierne il consenso. E che ispira la propria iniziativa, le proprie posizioni politico- programmatiche, la propria organizzazione e vita democratica interna allo svolgimento di questa funzione: costituire “naturalmente” l’asse della alternativa di governo al centro-destra. Vocazione maggioritaria non è sinonimo di pretesa di autosufficienza: il PD può ritenere utile – al fine della realizzazione del suo progetto di cambiamento del Paese – la costruzione di coalizioni con altri partiti di centro-sinistra. Si tratterà, in quel caso, di coalizioni del tutto diverse da quella dell’Unione, perché caratterizzate dalla presenza, al loro interno, di un partito egemone, il cui leader è automaticamente leader dell’intera coalizione; e il cui programma è perfettamente compatibile – anche se non coincidente – col programma della coalizione stessa.

È la regola democratica cui si ispirano le coalizioni in tutta Europa. Ferma restando la pari dignità politica di ciascuno dei partiti contraenti l’accordo, sono gli elettori a decidere i rapporti di forza al suo interno. Antidemocratica, e foriera di instabilità e fibrillazione delle coalizioni, è semmai la soluzione opposta, di cui l’Italia ha fatto esperienza nella fase finale della Prima Repubblica. Mentre la soluzione diarchica – il capo del governo appartiene al principale partito di governo, ma non è il leader del partito stesso – è tipica di democrazie bloccate, che non conoscono l’alternanza.

Il PD intende dunque costruire alleanze elettorali e di governo con altri partiti e movimenti politici, ma rifiuta la logica della divisione del lavoro tra le forze che le compongono: all’uno il compito di rappresentare gli orientamenti e le istanze più tradizionalmente raccolti dalle forze “di sinistra”, all’altro la rappresentanza “del centro moderato”, e così via, fino a partiti personali o espressione di una singola issue. Il PD assume su di sé il compito di rappresentare direttamente l’intero arco dei valori e degli interessi del centro-sinistra: dalle istanze dei ceti più dinamici dell’imprenditoria, della scienza e della conoscenza, fino all’operaio monoreddito con due figli a carico e l’affitto da pagare. Per questo, riconosce priorità al suo progetto di cambiamento, non al sistema delle sue alleanze politiche.

È infatti la credibilità della leadership e del progetto del principale partito del centro-sinistra il fattore che può realizzare – attraverso un lungo e sicuro lavoro nella società italiana e nei diversi territori – una profonda incursione nell’elettorato oggi maggioritario del centro-destra, per acquisire il consenso delle sue componenti più sensibili al sistema di interessi e valori tipici dell’alleanza tra merito e bisogni. L’obiettivo del PD è dunque chiaro: entro il 2013, e partendo dai rapporti di forza elettorale scaturiti dal voto del 2008, deve mettersi in grado di strappare due milioni di voti al centro-destra. Un compito che nessun altro, piccolo partito di centro può seriamente proporsi.

Scaturisce dalla consapevolezza di questa funzione la scelta di far nascere il PD da un atto costituente come quello del 14 ottobre 2007, che ha visto protagonisti più di tre milioni di cittadini italiani. È la volontà di assumere effettivamente questa funzione che ha spinto all’identificazione – fissata nello Statuto – tra la figura del Segretario e quella del candidato Presidente del Consiglio. Ed è in perfetta coerenza con questa identificazione che il PD ha deciso – una volta per tutte – di far scegliere il suo leader non dai soli iscritti al partito, ma da tutti i cittadini italiani che vogliono farlo, senza alcuna limitazione che non sia la pubblicità di quella loro partecipazione.

3) PARTITO APERTO, DEGLI ISCRITTI E DEGLI ELETTORI

Il PD è un partito di iscritti ed elettori: ai primi, il potere di definire, gestire e dirigere l’iniziativa quotidiana del partito e il suo rapporto con la società e il territorio; di costruire sedi e strumenti della elaborazione politica e programmatica; di promuovere la formazione dei dirigenti, a tutti i livelli; di selezionare l’offerta politica – leader e linea – da presentare ai cittadini elettori, per la scelta definitiva. Ai secondi, il potere di decidere col voto – individuale e segreto – sul Segretario nazionale, la linea politica e la composizione – su base territoriale – dell’Assemblea Nazionale. E di fare altrettanto alla dimensione regionale. Per la scelta dei suoi candidati alle cariche monocratiche – Sindaco, Presidente di Provincia e Presidente di Regione – il PD ricorre al metodo delle elezioni Primarie, aperte a tutti i cittadini-elettori. Ad elezioni Primarie si deve ricorrere anche nel caso della partecipazione del PD a coalizioni con altri partiti: il coinvolgimento dei cittadini elettori nella scelta dei candidati alle cariche monocratiche è infatti un cardine irrinunciabile del progetto del PD per il rinnovamento e il miglioramento della qualità della politica.

È il modello di partito aperto – nel quale tutte le cariche sono effettivamente contendibili, secondo procedure esigibili, fissate una volta per tutte – descritto dallo Statuto del PD. Si deve tuttavia constatare un’enorme distanza tra la realtà del PD in questo anno e mezzo e le previsioni statutarie: un tesseramento asfittico, tardivo e timoroso di rivolgersi con fiducia, per chiederne l’adesione, ai tre milioni e mezzo di cittadini “costituenti”. Primarie come eccezione, invece che come regola; spesso concepite come extrema ratio, quindi tenute troppo a ridosso della scadenza elettorale. Candidati alle elezioni Politiche (da eleggere su sterminate liste bloccate, come da assurda legge elettorale in vigore) scelti senza alcuna effettiva e ben regolata partecipazione a decidere né degli iscritti (che non c’erano), né degli elettori. Una gestione quotidiana del partito più affidata allo sforzo di giustapposizione dei gruppi dirigenti dei due partiti cofondatori che al “rimescolamento” delle energie disponibili, vecchie e nuove. Una dialettica interna più caratterizzata dalla presenza delle correnti interne ai DS e alla Margherita che da nuove aggregazioni politico-culturali.

Limiti e difetti spiegabili, almeno in parte, con lo stato di emergenza in cui il PD ha vissuto dalla sua nascita. Imperdonabili, se permanessero nella fase che si apre colla Convenzione di Ottobre 2009.

Lungi dal rimettere in discussione le norme chiave dello Statuto – quelle poste a presidio della natura e della funzione innovativa del PD – la prossima Convenzione Nazionale deve assumere l’impegno ad una loro puntuale attuazione, entro la Primavera prossima, così che le Elezioni Regionali del 2010 possano essere affrontate – a partire dalla scelta con le Primarie dei nuovi candidati Presidenti entro il dicembre di quest’anno – da un PD che sia effettivamente, anche sotto il profilo della sua struttura organizzativa e della sua vita interna, quello che ha promesso di essere, col suo atto di nascita e il suo Statuto.

Il carattere del PD come partito nazionale, federale perché fondato sull’autonomia statutaria e politica delle sue articolazioni regionali, non si è fino ad oggi affermato, anche a causa della scelta di eleggere i Segretari Regionali nel contesto della elezione del Segretario nazionale: quest’ultima ha prevalso su tutto, relegando quasi dovunque la “costruzione” del partito regionale ad assumere i caratteri di un mero effetto di “trascinamento” della scelta nazionale. L’autonomia politica dei gruppi dirigenti regionali e locali ne è uscita menomata, al punto da far ritenere a molti preferibile il modello seguito dal PDL, tutto orientato alla nomina dei dirigenti regionali e provinciali da parte del leader nazionale. Se nomina deve essere, sia almeno trasparente e consenta imputazione di responsabilità.

Il PD può e deve essere alternativo al PDL anche per questo aspetto essenziale: deve quindi esaltare l’autonomia degli organismi regionali (e, in ogni regione, locali) attraverso la Convenzione Regionale – ben distinta da quella nazionale – che definisce linea e leadership in un contesto di piena contendibilità delle relative cariche di direzione del partito.

Agli organismi regionali – senza mediazione ed intervento degli organismi nazionali del partito – deve essere interamente assegnata la quota del finanziamento pubblico delle campagne elettorali regionali e locali.

4) UN NUOVO INTERNAZIONALISMO DEMOCRATICO

Per un nuovo internazionalismo democratico. Con la leadership di Obama, per una gestione multilaterale della ordinata transizione ad un nuovo assetto del mondo, di tipo multipolare. Per lo sviluppo ben regolato della globalizzazione, contro una reazione alla crisi economica che punta – come vuole la destra – sulla riduzione del livello di interdipendenza, sul protezionismo e sulla rinazionalizzazione delle politiche economiche.

Le parole chiave: democrazia ed Europa.

Democrazia come pace (non c’è mai stata guerra tra due democrazie). Come sviluppo economico e sociale (la democrazia rende più sostenibile e dà profondità temporale al capitalismo). Come incivilimento.

Europa come polo attrattivo di pace e democrazia. Come modello di coesione sociale e di economia sociale di mercato. Come soggetto coprotagonista del nuovo governo della globalizzazione. Come soggetto di politica internazionale e di sicurezza, per la pace e i diritti umani.

Per tutto questo, è necessario lavorare alla costruzione di una nuova Internazionale Democratica, organizzazione dei riformisti a dimensione globale: c’è il leader (Obama); c’è la missione (il governo della globalizzazione secondo principi di libertà, giustizia e coesione sociale, equilibrio ambientale); ci sono le tradizioni, le esperienze e le organizzazioni che possono farla nascere (i partiti Democratici di USA, India, Sud Africa, Brasile, Italia e i Partiti dell’Internazionale Socialista).

In Europa, la scelta di dar vita subito ad un nuovo gruppo dei riformisti – che raccolga Democratici, Socialisti, Laburisti, Liberali di sinistra, altre formazioni di centrosinistra – è il primo passo per la formazione di un unitario Partito Europeo della Internazionale Democratica.

Solo questo nuovo assetto politico-organizzativo dei riformisti rappresenta una risposta adeguata da un lato all’esigenza di costruire la mobilitazione politica e l’elaborazione politico-programmatica corrispondenti alla dimensione delle grandi questioni globali; dall’altro alla crisi e alle crescenti difficoltà della socialdemocrazia europea, emerse con drammatica evidenza dal recente voto per il Parlamento dell’Unione. In questo senso, l’intuizione da cui è nato il PD italiano trova conferma della sua fecondità, ai fini della ridefinizione del profilo politico ideale e programmatico dell’intero centro-sinistra europeo.

La crisi mette l’Europa di fronte ad una scelta: un nuovo balzo nel processo di unità politica o un progressivo scivolamento verso la rinazionalizzazione, con la crisi dello stesso mercato unico.

Il centrodestra (Tremonti) esalta il ritorno delle leve della politica europea nelle mani dei singoli governi nazionali.

Il centrosinistra europeo deve battersi per l’immediata attuazione del Trattato di Lisbona, per le cooperazioni rafforzate, per un salto in avanti sul terreno della integrazione nel campo della politica internazionale e della sicurezza (esercito europeo), per un effettivo coordinamento delle politiche economiche e fiscali, per una politica comune di investimenti pubblici, finanziati attraverso eurobond, per una gestione coordinata dei crescenti debiti pubblici, per limitare il ricorso alla concorrenza fiscale tra i Paesi europei e completare il mercato unico.

Anche per questo è urgente una vigorosa iniziativa politica dei riformisti volta alla elezione del Presidente della Commissione, da parte del Parlamento, così da politicizzare la competizione elettorale e politica a dimensione europea, combattere l’indifferenza e l’astensionismo di tanta parte dei cittadini, superando al tempo stesso i rischi insiti in una gestione per accordo consociativo – tra i due maggiori raggruppamenti politici – delle istituzioni comunitarie.

Questa Europa – nel contesto della radicale svolta impressa da Obama alla politica interna e internazionale degli USA – può essere coprotagonista di una ripresa di ruolo della Politica, nel governo e nel superamento degli squilibri globali. Alla condizione, naturalmente, che sia davvero in grado di rielaborare una convincente nozione di interesse comune, da far valere – parlando con una sola voce – nelle organizzazioni come il WTO, il Fondo Monetario e la Banca mondiale. E che sappia assumersi pienamente le conseguenti responsabilità, senza scaricare i compiti più gravosi e rischiosi (Afghanistan) sugli USA.

5) UNA SCELTA CHIARA TRA LINEE ALTERNATIVE

Questa visione della funzione del PD, della sua natura, della sua collocazione internazionale e della sua organizzazione rappresenta uno sviluppo coerente delle scelte operate nella fase costituente e nella predisposizione del posizionamento del PD per le Elezioni Politiche del 2008. Nel dibattito che si è sviluppato dopo la sconfitta, è emersa una visione alternativa: nella società italiana – per mille ragioni, tra le quali emerge la capacità delle singole componenti sociali “corporate” di resistere al cambiamento – non ci sarebbe una maggioranza riformista da organizzare politicamente. O, almeno, non ci sarebbe nel breve-medio periodo. Dunque, secondo questa diversa visione, il progetto del PD – almeno nel breve-medio periodo – deve prevalentemente assumere il profilo di una proposta di mediazione tra interessi organizzati, per ciò che attiene ai contenuti; e di tradizionale coalizione di partiti – “di “sinistra” e di “centro” – per ciò che attiene alla formula politica. Non è un caso che – nella migliore elaborazione di questa linea – gli orientamenti politico-culturali prevalenti nella società italiana vengono riassunti attraverso la triade “progressisti, populisti e moderati” (Enrico Letta), che allude, in termini di sua rappresentazione politica, a “sinistra, destra, centro”.

Il punto di contrasto è dunque chiaro, ed è indispensabile che lo si affidi agli iscritti ed elettori del PD, per una scelta altrettanto chiara: partito riformista di centrosinistra a vocazione maggioritaria o partito “progressista” di sinistra che promuove l’alleanza coi “moderati”, prevalentemente rappresentati da un partito di centro?

 IL CAMBIAMENTO CHE VOGLIAMO. ESEMPI DEI NOSTRI PRINCIPI ALL’OPERA

  1. ISTITUZIONI PIU’ FORTI, POLITICA PIU’ EFFICACE

Una forma di governo neoparlamentare, imperniata su di un sistema elettorale maggioritario uninominale di collegio a doppio turno, con collegamento formalizzato tra i candidati di collegio e il candidato Presidente del Consiglio.

Dopo le elezioni, il Presidente della Repubblica affida l’incarico di formare il governo al candidato Presidente del Consiglio che ha ottenuto la maggioranza dei seggi della Camera dei Deputati. In caso di voto di sfiducia, il Presidente del Consiglio può chiedere al Presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato della Camera dei Deputati. Il Presidente verifica se sia possibile la formazione di un nuovo governo nell’ambito della maggioranza uscita vittoriosa dalle urne. In caso di esito positivo, assegna un nuovo incarico. In caso di esito negativo, procede allo scioglimento ed indice nuove elezioni.

Il Parlamento è composto dalla Camera dei Deputati, la camera politica, che vota la fiducia al Governo; e dal Senato Federale, la camera delle Regioni, eletto a suffragio universale diretto dai cittadini in occasione delle elezioni regionali. Il Senato Federale partecipa, in posizione paritaria, al procedimento legislativo sulle leggi di riforma costituzionale, le leggi elettorali e le leggi di attuazione del federalismo fiscale. Ha un significativo potere di veto, superabile solo a maggioranza assoluta dalla Camera, sui principi fondamentali delle materie concorrenti, sulle leggi di cui all’articolo 118 commi 2 e 3 (funzioni amministrative, coordinamento e intese), sulle leggi relative alla clausola di supremazia da inserire nell’art. 117 secondo cui “ai fini della garanzia dei valori costituzionali, spetta comunque alla legge dello Stato la tutela degli interessi della Repubblica meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, nel rispetto dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà”. Su tutte le altre materie decide, in ultima istanza, la Camera dei Deputati.

Per un più equilibrato sistema delle garanzie, è necessario dare alla Corte costituzionale il giudizio di appello sul contenzioso elettorale; elevare il quorum per la revisione della Prima parte della Costituzione; inserire il referendum propositivo connesso all’iniziativa popolare e abbassare il quorum abrogativo; abbassare il quorum per le Commissioni parlamentari d’inchiesta, differenziare l’Opposizione ufficiale (col riconoscimento del relativo Consiglio) dalle altre minoranze.

Il PD, forte di questo disegno, propone l’immediata apertura di una stagione di profonde riforme istituzionali. Consapevole dell’inderogabile esigenza di una riforma condivisa, è disponibile alla ricerca di un accordo che si discosti anche significativamente dal suo impianto riformatore di partenza. Ma può condividere solo riforme che: confermino e rafforzino il diritto dei cittadini elettori di decidere, in via di fatto, con un unico voto, sulla rappresentanza parlamentare, sulla formazione e sulla leadership del governo (ciò che motiva l’assoluta contrarietà del PD all’adozione di un sistema elettorale proporzionale alla tedesca); costituiscano coerente attuazione della riforma del Titolo V del 2001, a partire dalla formazione del Senato Federale e dall’applicazione dell’art. 119 sul federalismo fiscale; riducano drasticamente i tempi della decisione politica e legislativa, cancellando il bicameralismo perfetto; dimezzino il numero dei membri del Parlamento, istituzionalizzando il ricorso alle Primarie per la scelta dei candidati; e semplifichino il sistema istituzionale, eliminando le Province.

Giova alla buona qualità della politica e al recupero di un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni democratiche che sia finalmente attuato l’art. 49 della Costituzione, provvedendo con la forza della legge a presidiare il carattere democratico della vita dei partiti e a rendere effettivamente esigibili i diritti fissati dai loro statuti.

2. LA MADRE DI TUTTE LE BATTAGLIE RIFORMISTE: AMPLIARE E RIUNIFICARE IL MONDO DEL LAVORO

Il mondo del lavoro italiano è drammaticamente diviso in due parti: la prima, in continua diminuzione, è costituita dai lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato delle imprese medio-grandi; la seconda, in costante crescita, dai lavoratori delle piccolissime imprese, dagli autonomi in monocommittenza, dai lavoratori parasubordinati e delle collaborazioni a progetto, da quelli del lavoro interinale e con contratto a tempo determinato o part-time involontario.

Il PD intende promuovere il superamento di questo dualismo, attraverso un coerente insieme di riforme che – agendo sul diritto del lavoro, sul sistema contrattuale, sul sistema degli ammortizzatori sociali – eliminino ogni forma di discriminazione tra lavoratore e lavoratore, assicurino identiche tutele contro il rischio della disoccupazione, forniscano analogo sostegno nella fase di riqualificazione e di ricerca di un nuovo lavoro.

La gravissima recessione in atto ha già fatto le sue vittime. I lavoratori in CIG soffrono per la incertezza delle prospettive e per la decurtazione del reddito; ma centinaia di migliaia di lavoratori hanno già perso il lavoro dall’oggi al domani senza un giorno di preavviso, né un euro di indennizzo. Per ora, il Governo si è limitato a disporre il ricorso alla CIG “in deroga”, ovvero a discrezione del politico di turno, senza offrire ai destinatari del provvedimento alcuna sicurezza. E negando esplicitamente che si possa procedere ad incisive riforme in tempo di crisi. Il PD – consapevole che la creazione di un sistema universale di ammortizzatori sociali ha, per l’Italia, lo stesso rilievo che ha, per gli USA, la riforma sanitaria – considera quella per la riunificazione e l’ampliamento del mondo del lavoro la madre di tutte le battaglie riformiste.

  1. Drastico incremento del tasso di occupazione femminile.   Occorre operare per l’inclusione nelle forze di lavoro – secondo gli impegni assunti verso l’Unione Europea – dei 5 milioni di persone, per quattro quinti donne, che oggi ne sono di fatto indebitamente escluse. Per questo è possibile e necessaria una forte detassazione sperimentale dei redditi di lavoro femminile e un altrettanto deciso investimento nei servizi alla famiglia, che creano domanda di lavoro professionale femminile e favoriscono l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro.

  2. Superamento del dualismo del mercato del lavoro, cioè del regime attuale di vero e proprio apartheid tra protetti e non protetti.   Per restituire al diritto del lavoro il carattere universale e l’effettività che nell’ultimo quarto di secolo esso ha perduto, è necessario disegnare per le nuove generazioni di lavoratori:

2.1 una disciplina legislativa semplice, perché essa possa essere agevolmente conoscibile e soprattutto effettivamente applicabile a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica, ivi compresi i 3 milioni e mezzo di quelli oggi segregati nell’economia sommersa;

2.2 un diritto del lavoro e del suo mercato capace di coniugare il massimo possibile di flessibilità per le strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza economica e professionale per tutti i lavoratori: sicurezza che dovrà avere il suo principale presidio in un sistema universale di sostegno del reddito per chi perde il lavoro e di servizi efficienti per ritrovarlo nelle condizioni migliori; un sistema capace, dove necessario, di neutralizzare l’handicap di cui la persona può soffrire nel mercato del lavoro, mediante un sovrappiù di investimento sulle sue capacità professionali e di assistenza intensiva per il reinserimento nel tessuto produttivo;

2.3 sperimentazione e progressiva generalizzazione di un contratto di lavoro a stabilità crescente col crescere dell’anzianità in azienda: che non significa imposizione di un modello unico di rapporto di lavoro, ma istituzione di uno standard universale di protezione della continuità del lavoro compatibile con tutti i diversi tipi di contratto, con la migliore possibile valorizzazione delle capacità e dei meriti individuali e con la necessità di consentire il tempestivo adattamento delle strutture produttive agli shock economici o tecnologici.

3. Sul terreno delle relazioni industriali il PD intende perseguire:

     3.1. Autonomia reciproca tra politica e relazioni industriali. Il PD è ben consapevole che tra lavoratori e imprenditori è fisiologico il contrasto di interessi sulla spartizione del frutto del loro comune lavoro nell’impresa. Comporre questo contrasto, anche attraverso nuove forme di democrazia economica e partecipazione, spetta esclusivamente al sistema di relazioni sindacali, in piena autonomia dalla politica. Compito della politica, del Governo del Paese, su di un piano diverso e autonomo da quello delle relazioni sindacali, è invece interpretare e tradurre in misure efficaci un interesse comune di lavoratori e imprenditori: quello al migliore possibile funzionamento complessivo del sistema economico nazionale, in particolare del mercato del lavoro, per consentire la massima crescita dell’occupazione e della ricchezza prodotta. E garantire che nessuno ne sia escluso.
     3.2. Sostegno all’autoriforma del sistema delle relazioni industriali, nel segno di un fecondo pluralismo sindacale. Oggi nel movimento sindacale italiano si assiste al confronto tra visioni e strategie diverse, talvolta tra loro contrapposte. Il PD ritiene che questo confronto possa costituire un fattore positivo per lo sviluppo del nostro sistema di relazioni industriali, purché esso avvenga in un contesto di fondamentale solidarietà e rispetto reciproco tra sindacati diversi. Solidarietà e rispetto reciproco devono esprimersi anche in una cornice di regole condivise sulla verifica di rappresentatività di ciascuna organizzazione sindacale in ogni azienda e settore produttivo, che rendano possibile, là dove le divergenze risultino insanabili, una soluzione nel segno della democrazia sindacale.

4. Il PD ritiene comunque che debbano essere favoriti:

4.1.   lo sviluppo della contrattazione collettiva nelle aziende, che dà valore al lavoro, aumenta la produttività e la partecipazione dei lavoratori ai suoi frutti;

4.2. l’ampliamento degli spazi della contrattazione aziendale, anche per facilitare l’innovazione tecnologica e organizzativa e promuovere l’insediamento in Italia di imprese straniere;

4.3.   lo sviluppo, fondato sulla libera scelta delle parti in sede di contrattazione aziendale, di forme diverse di partecipazione dei lavoratori nelle imprese e di collegamento delle retribuzioni alla produttività o alla redditività delle imprese.

 3. TERRITORIO PIU’ SICURO, CON L’UNIFICAZIONE DELLE FORZE DI POLIZIA

C’è una crescente domanda di sicurezza. Il Governo di centro-destra risponde con provvedimenti-annuncio, che riconoscono l’esistenza del problema (e per ciò stesso entrano in sintonia col sentimento comune), ma non costituiscono neppure un avvio di soluzione.

Il centrosinistra italiano ed europeo ha da tempo assunto una posizione che non lascia spazio ad alcun giustificazionismo (Blair: duri con il crimine; duri con le cause del crimine). Ma, almeno in Italia, non riesce a rovesciare la comune opinione, secondo la quale il centro-destra sarebbe più affidabile del centrosinistra nel fronteggiare il fenomeno di quella criminalità che il cittadino avverte come più pericolosa, perché in grado di portare la sua minaccia nella via dove abita, in città come in campagna, con lo scippo come attraverso i furti in appartamento.

Il nodo da sciogliere è quello di un efficace presidio del territorio. Anche e soprattutto attraverso la presenza fisica di persone in divisa per strada. Visibili ai cittadini, visibili ai potenziali malfattori (lo ha capito il Governo di centro-destra: di qui il costoso e inutile, ma propagandisticamente efficacissimo provvedimento sui militari dell’Esercito per strada, nelle maggiori città).

Per garantire la sicurezza dei cittadini, in Italia, spendiamo – in rapporto al PIL e alla popolazione – quanto spendono gli altri Paese Europei comparabili al nostro. Come mai otteniamo risultati decisamente peggiori, in termini di controllo del territorio e percezione di sicurezza? Una prima risposta – la più tradizionale, nel dibattito su questi temi – mette in rilievo la maggiore forza, la più capillare diffusione della criminalità in Italia, e suggerisce che la quota di ricchezza nazionale destinata al suo contrasto debba salire significativamente, ben oltre la quota di Paesi europei più “fortunati” del nostro. La seconda (più convincente) risposta, antepone alla valutazione di quanto spendiamo, l’analisi di come spendiamo. E suggerisce di procedere ad una radicale ristrutturazione della spesa e della organizzazione degli apparati di sicurezza, rendendo per questa via credibile la richiesta di un maggiore impegno finanziario.

In Italia le attività di sicurezza interna sono svolte da 6 diversi Corpi di polizia: i Carabinieri, la Polizia di Stato, la Guarda di Finanza, il Corpo Forestale, la Polizia carceraria, la Guarda Costiera – ognuno con compiti di controllo del territorio – cui si aggiungono, sempre in questa funzione, i Vigili Urbani delle città. Una segmentazione foriera di sovrapposizioni e inefficienze; quando non di dannosa competizione. Né hanno prodotto risultati apprezzabili i pur lodevoli sforzi di coordinamento fino ad oggi messi in atto.

Dunque, si impone una svolta: un solo Corpo di polizia per il controllo del territorio; un Corpo di polizia “federale” per il contrasto della grande criminalità. L’obiettivo non è spendere meno. È spendere meglio: la semplificazione della catena di comando, il governo unitario delle risorse umane, organizzative e finanziarie consentiranno di aumentare del 20-30% in cinque anni il numero degli agenti effettivamente presenti sul territorio.

Assicurati alla giustizia i malfattori, è necessario garantire loro (e, soprattutto, alle loro vittime) un processo rapido e, in caso di condanna, una pena certa, da scontare in carceri che rispettino i diritti umani.

Negli ultimi venti anni, in presenza di una costante crescita della popolazione carceraria, non si è investito per la costruzione di carceri adeguate. Risultato: sovraffollamento. Condizioni di vita disumane per i reclusi. Condizioni di lavoro insopportabili per il personale di custodia. Spesa corrente che sale, a fronte di mancata spesa in conto capitale. Si impone il rovesciamento di questa tendenza: subito un piano straordinario di nuove carceri (almeno una per Regione), realizzate in projet financing.

Anche per il servizio Giustizia, spendiamo come gli altri Paesi, ma otteniamo di meno. I tempi della giustizia italiana deprimono le capacità competitive del nostro sistema economico, riducono il livello di civiltà e alimentano la percezione di insicurezza dei cittadini, a partire dai più deboli.

Esistono certamente problemi di ordinamento giudiziario, di risorse finanziarie insufficienti. Ma, anche in questo caso, sembrano avere la preminenza questioni organizzative: se con ordinamento e codici di procedura identici, e con analoghe risorse finanziarie disponibili, alcune sedi giudiziarie realizzano performances che le collocano nella media europea, perché non si può ottenere altrettanto dai responsabili delle altre sedi? Di qui la proposta: rafforzare il potere di management del responsabili dell’Ufficio, assumere a benchmark le performances dell’Ufficio migliore, definire obiettivi di adeguamento in tempo prefissati. Pena, la sostituzione dall’incarico e una regressione nella carriera. Per conseguire questo risultato, tutelando al tempo stesso l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, è essenziale che il dimostrato possesso di qualità manageriali e organizzative faccia premio, nella progressione di carriera e stipendiale, sui requisiti di anzianità.

 4. UN ATTO DI EGOISMO LUNGIMIRANTE: PROMUOVERE BUONA IMMIGRAZIONE

La società italiana sta diventando sempre più multietnica. Il centro-destra fa leva sulle paure che questa enorme novità suscita tra i cittadini – specie tra quelli più deboli – per accreditarsi come più affidabile del centro-sinistra nel governo del fenomeno. Utilizza slogan, annuncia interventi e mette in atto iniziative che appaiono ora meramente propagandistici, ora velleitari, ora controproducenti. Ma si accredita come una forza consapevole del problema e orientata a difendere gli “indigeni” dalla minaccia dei nuovi venuti.

Il centro-sinistra – in Italia e in Europa – appare incerto e irresoluto, sicchè il campo del confronto è disertato dai riformisti e intensamente praticato dai sostenitori di posizioni estreme: chi vuole aprire le porte a tutti, indiscriminatamente; chi proclama rozzamente chiusure alimentate da pregiudizio razzista. Il cattivo risultato delle forze riformiste alle recenti elezioni europee è prima di tutto addebitabile a questa loro “assenza”, su di un tema oggi avvertito dai più come cruciale.

La posizione del PD su questo tema va organizzata attorno a questi capisaldi:

  1. il Paese ha bisogno – per ragioni economiche e sociali – di un elevato flusso di lavoratori immigrati, che raggiungano il nostro Paese legalmente, siano aiutati ad integrarsi, rispettino la nostra Costituzione e siano messi in grado di far valere i loro diritti. Del resto, l’immigrazione in quantità e qualità adeguate è l’unico antidoto al declino demografico che, non contrastato, diverrebbe presto declino economico, sociale e culturale.

  2. Per quanto siano strettamente intrecciati, fino ad apparire un unico fenomeno agli occhi di molti cittadini, immigrazione legale e immigrazione clandestina sono due fenomeni diversi, che seguono percorsi distinti. Quindi, vigorose politiche di contrasto alla immigrazione clandestina sono perfettamente compatibili con – anzi, ricevono sostegno da – politiche di promozione ed apertura alla immigrazione legale, da programmare attraverso una costante analisi delle necessità del nostro sistema produttivo e delle famiglie italiane.

  3. La programmazione dei flussi di immigrati regolari deve accompagnarsi agli investimenti per i quali siamo impegnati sul piano internazionale (1% del PIL Europeo all’anno per molti anni) nei Paesi di origine e deve svilupparsi soprattutto attraverso rapporti diretti tra entità intermedie, che agiscono col metodo del gemellaggio: tra città e città, scuola e scuola, ospedale e ospedale, associazione e associazione. Impiegare un ingente volume di risorse per lo sviluppo dei Paesi d’origine, soprattutto africani, è un atto di egoismo lungimirante, da parte dei Paesi come l’Italia. In fondo, un immigrato clandestino trattenuto nei “Centri di identificazione” o nelle nostre carceri – come vorrebbe la Lega – ci costa (circa 200 Euro al giorno) tanto quanto sarebbe necessario per assicurare un buon compenso a venti immigrati clandestini nel Paese d’origine.

  4. Centri di accoglienza e accreditamento dislocati sull’altra sponda del Mediterraneo potrebbero consentire di distinguere meglio ex ante, tra i migranti, quanti vengono per lavorare onestamente da quanti vengono per delinquere. È la distinzione cruciale, che può poi consentire di stringere le maglie della rete di contrasto alla immigrazione clandestina. Ben organizzati centri di assistenza italiani nei Paesi d’origine, per la raccolta delle richieste di ingresso in cooperazione con le nostre sedi diplomatiche, possono e debbono diventare le sedi di incontro tra domanda e offerta di lavoro legale. La legge Bossi-Fini deve essere modificata, non nel senso di superare il vincolo alla presenza di un’offerta di lavoro, ma nel senso di introdurre la mediazione di uno sponsor accreditato e responsabile.

  5. Il migliore controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine (vedi esempio n.3) è premessa indispensabile, nel contesto di una nuova politica per l’immigrazione legale, di una più efficace azione di repressione delle attività criminali che più spesso vedono protagonisti (oltre che vittime) cittadini extracomunitari. Ad identificazione dell’immigrato clandestino avvenuta, potranno essere adottate – ma solo nei confronti di chi si mostri leale con la Repubblica Italiana, dichiarando veritieramente la propria identità e provenienza – misure che lo aiutino a lavorare nel Paese d’origine.

  6. Devono essere sempre adottati metodi di contrasto alla immigrazione clandestina che consentano di distinguere clandestini da richiedenti asilo, dei quali vanno in ogni caso salvaguardati i diritti.

 5. L’ECONOMIA VERDE

Nel lunghissimo periodo, nessun problema è più serio di quello propostoci dal riscaldamento globale. La novità è costituita dal fatto che oggi l’Amministrazione Obama ha messo questo tema al primo posto dell’agenda: esistono dunque le condizioni per politiche di dimensione globale, che puntino ad una radicale riconversione ecologica dell’economia.

Le linee guida del piano proposto da Obama sono così riassumibili:

1. introdurre un sistema di tetti massimi e di incentivi alla riduzione delle emissioni basato sul mercato;

2. favorire il ricorso a fonti d’energie alternative e rinnovabili;

3. promuovere il risparmio energetico e il miglioramento dell’ efficienza degli impianti;

4. incrementare enormemente la ricerca in campo energetico.

Principi generali, non generici, che hanno preso corpo in precise scelte politico-amministrative, il cui impatto globale è già risultato evidente negli interventi per il settore dell’auto (dei quali ha potuto giovarsi, tra l’altro, la FIAT). Per l’Italia, si tratta di far propri gli stessi principi, adattandoli alla specificità del nostro ecosistema, del nostro apparato produttivo e delle nostre abitudini di consumo.

Nel breve termine è indispensabile:

  1. realizzare investimenti per implementare le interconnessioni elettriche e metanifere con altri Paesi, o attraverso la costruzione di terminali di rigassificazione;

  2. proseguire l’opera di crescita della produzione energetica diffusa attraverso impianti da fonte rinnovabile, per i quali vanno peraltro definiti incentivi che consentano di mantenere un legame anche prospettico con le caratteristiche tecniche ed economiche degli investimenti stessi;

  3. favorire uno sviluppo della rete di trasmissione che superi le attuali strozzature e consenta di aumentare l’efficienza e l’equilibrio del sistema anche per mezzo della garanzia di reale terzietà della rete stessa (separazione proprietaria di Snam Rete Gas).

In una prospettiva di più lungo termine occorre, invece, ridefinire in maniera sostanziale la struttura delle fonti di approvvigionamento energetico, attraverso piani pluriennali di sfruttamento delle fonti primarie, in maniera sostenibile e coerente con le reali disponibilità. In questo contesto vanno sicuramente riconsiderate il carbone “pulito” ed il “nuovo nucleare”, senza trascurare nuove fonti primarie.

Per quanto riguarda il primo, si tratta di continuare la ricerca ed avviare la sperimentazione in tema di CSS (carbon storage sequestration) al fine di poter così utilizzare una tecnologia di produzione energetica che consente di abbassare significativamente i costi di produzione e che non crea particolari problemi di dipendenza in termini di materie prime.

Considerata invece la complessità del tema nucleare, appare inevitabile adottare un approccio di tipo globale e sistematico che definisca puntualmente il cammino da percorrere, evidenzi criticità e complessità, permettendo di effettuare scelte ragionate e razionali, da perseguirsi grazie ad un appropriato rilancio ed un’azione sinergica di industria, mondo della ricerca e accademia.

In quest’ottica, quindi, parlare di un ritorno al nucleare, anche mediante la realizzazione di impianti di terza generazione sul territorio nazionale nel prossimo decennio, deve significare sostanzialmente:

– varare una scelta di prospettiva che impegni il Paese verso lo sviluppo di sistemi nucleari, con specifico riferimento alla quarta generazione, puntando decisamente verso il “nuovo nucleare” per consolidare nel tempo l’opzione e dare un respiro strategico alla industria nazionale;

– ricostruire nel più breve tempo possibile un “sistema nucleare” in Italia (autorità di sicurezza, formazione, ricerca e sviluppo, capacità tecnologiche ed industriali) che si è depauperato dopo il referendum, ma è condizione necessaria per ogni ripartenza;

– affrontare con serietà il tema del trattamento e del deposito delle scorie, sia quelle legate all’esercizio dei vecchi impianti, sia quelle legate all’esercizio di eventuali nuovi reattori, anche considerando la possibilità di ridurre la problematica mediante l’uso futuro di reattori di quarta generazione;

– affrontare il problema di rafforzamento e riadattamento della rete elettrica nazionale;

– identificare con chiarezza i soggetti che potranno essere chiamati alla gestione di impianti di questo tipo.

Solo in questo quadro, potrà essere presa in considerazione l’eventuale possibilità di investire nella costruzione di reattori di terza generazione, là dove si verificasse compiutamente che ciò potrebbe rientrare nella più ampia prospettiva strategica della ricostituzione dell’intero sistema nucleare, in preparazione all’inserimento dei reattori di quarta generazione.

 6. TRE PRINCIPI PER CAMBIARE LA SCUOLA: AUTONOMIA, MERITO, RESPONSABILITA’

Nella società della conoscenza, la scuola è il principale strumento per riattivare la mobilità sociale, che si è venuta progressivamente arrestando.

Famiglia e scuola sono le principali agenzie di formazione. Ma la seconda deve essere organizzata con l’obiettivo esplicito di riequilibrare (art. 3 comma 2 della Costituzione) la disuguaglianza di opportunità determinata – per ciascun bambino – dalle diverse capacità delle rispettive famiglie di fornire educazione, formazione e informazione in quantità e qualità adeguate. Una scuola pubblica che ribadisse ciascuno – in esito al corso di studi – nelle rispettive posizioni di ingresso, avrebbe fallito il suo compito. Chi fa parti uguali tra disuguali, in fondo, non fa che confermare i “meno uguali” nelle condizioni di svantaggio precedenti l’azione di redistribuzione.

Al contempo, la scuola italiana non realizza buone performances medie nei livelli di apprendimento dei nostri giovani, come sembra dimostrato – specie nel Sud – dalle indagini PISA sui quindicenni dei Paesi OCSE.

Di qui l’urgenza di una svolta. Anche in questo caso, il governo di centro-destra evoca (voto di condotta, grembiuli) riforme che non sa e non vuole realizzare. Tenta così di mettersi in sintonia con la domanda di una scuola diversa e migliore, anche se – alla fine – restano solo gli effetti di impoverimento dell’offerta formativa provocati dai tagli orizzontali di spesa.

Il PD vuole riorganizzare la scuola attorno a tre parole chiave: autonomia, merito, responsabilità.

Autonomia degli istituti scolastici, innanzitutto. Per la libertà dei percorsi culturali attraverso i quali giungere ad obiettivi standardizzati e verificabili. Per l’effettiva apertura della scuola al territorio e alla società che la circonda, a cui fornire e da cui ricevere contributi materiali e immateriali, così da fare di ogni scuola il centro privilegiato della vita culturale, sportiva, sociale di ogni quartiere e villaggio. Come autonomia di gestione del bilancio. Come possibilità, per il Dirigente d’Istituto, di scegliere liberamente i docenti in un elenco di abilitati.

Riconoscimento del merito di tutti i protagonisti della scuola: studenti, docenti, dirigenti. Attraverso l’istituzione di un Centro Nazionale di valutazione, che sia in grado di registrare il livello di apprendimento di ogni studente in ingresso e in uscita ad ogni passaggio (elementare, media inferiore, media superiore), organizzando i dati in modo da trarne – nel medio periodo – informazioni attendibili sulle performances di ogni Istituto e di ogni docente. Così da poter fondare la carriera di ogni docente – e il suo trattamento economico – sui risultati ottenuti, uscendo definitivamente da un egualitarismo che non ha giustificazione alcuna, poiché premia i peggiori e deprime i migliori.

Infine, responsabilità, per ognuno dei soggetti interessati, nell’occupare gli spazi aperti dalla maggiore autonomia e dal più ampio riconoscimento del merito. Degli studenti e delle loro famiglie, nell’uso delle informazioni disponibili sulle scuole cui iscriversi e sul “valore” dei titoli di studio in esse conseguibili. Degli insegnanti e dei dirigenti, che potranno ambire ad un più forte riconoscimento di ruolo e ad un migliore stipendio, accettando di farsi “misurare” nell’impegno e nei risultati. Delle comunità, che dovranno dimostrare di impegnarsi nella “loro” scuola almeno quanto si impegnano per far vivere la Pro Loco e per fare bella la Festa del Paese e del quartiere. Dei Governi centrali, regionali e locali, cui spetteranno scelte molto impegnative: è giusto, ad esempio, che un bravo maestro elementare o professore delle Medie che accetta di impegnarsi nelle realtà sociali più “difficili”, ed ottiene buoni risultati, sia pagato tanto come quello che, quei buoni risultati, li ottiene nei contesti “facili” e tranquilli?