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LA DOTTRINA SOCIALE DI DON LORENZO MILANI

In una lettera poco nota, ora disponibile nella raccolta di tutti gli scritti del Priore di Barbiana, egli spiega il fondamento della propria visione del rapporto tra ricchi e poveri, tra imprenditore e lavoratore dipendente, ma al tempo stesso ne riconosce la natura esclusivamente etica e non politico-economica

 

COF_1_3_cof_milani_ultimo_dello_spirito.inddLettera inviata da don Lorenzo Milani a mio padre, Luciano Ichino, l’11 maggio 1959, ora pubblicata in Don Lorenzo Milani – Tutte le opere, a cura di Alberto Melloni, Mondadori, I Meridiani, 2017, vol. II, pagine 651-658 – La lettera è qui preceduta da una mia breve nota, necessaria per definire il contesto in cui la lettera si colloca e aiutare a comprenderne a pieno il significato – In argomento v. anche, in questo sito, Don Lorenzo Milani dal vivo [1], videoregistrazione del convegno svoltosi il 6 aprile 2017 a Roma con il patrocinio del Presidente del Senato, e il mio contributo scritto a quel convegno, La passione di don Lorenzo Milani [2]      

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NOTA ESPLICATIVA

Pochi giorni prima di scrivere questa lettera – non destinata alla diffusione ma nella quale si sente a tratti lo stesso respiro delle due grandi lettere pubbliche, ai cappellani militari e ai giudici, di qualche anno posteriori – don Milani aveva chiesto e avuto ospitalità nella casa milanese dei miei genitori per i suoi ragazzi, per far conoscere loro la grande metropoli. Mentre i ragazzi erano stati tutti alloggiati in casa nostra, se ricordo bene lui era stato ospitato per quei quattro giorni a casa di Elena Brambilla Pirelli. Su di lei trovo queste note biografiche nel libro di Antonino Bencivinni, Don Milani. Esperienza educativa, lingua, cultura e politica (Armando ed., 2004), pag. 73: “Elena Pirelli Brambilla, amica ed estimatrice di don Milani e della sua scuola, cui era stata avvicinata da Francesca Ichino, appartenente al gruppo di cattolici progressisti con cui i Milani erano entrati in contatto, per affinità di interessi culturali e di impegno sociale, non per motivi religiosi, durante la loro permanenza a Milano.  Figlia dell’industriale Alberto, sorella di Leopoldo e di Giovanni e moglie di Franco Brambilla, amministratore delegato della società Pirelli.” Traggo queste altre note biografiche su di lei dal sito Speradisole’s blog [3]: “Nata in una ricca famiglia di industriali, […] fu scossa dall’incontro con un catechista milanese, un padre filippino di nome Giuseppe Acchiappati. Per Elena fu l’inizio di un affiorare di tante domande […] e introduzione alla coscienza di altre povertà […]. E fu l’inizio di un unico cammino per mettere in pratica la convinzione che ‘bisogna perdere i privilegi per trovare la fraternità’ […]. (Fonti: Lettere di Don Milani priore di Barbiana; Archivio storico Corriere della Sera). Nei decenni successivi Elena seppe conciliare il matrimonio con il capo della grande impresa, della quale era comproprietaria, con uno stile di vita caratterizzato da una sobrietà monacale e con un impegno costante a sostegno di una miriade di iniziative mirate al sostegno dei diseredati e al superamento strutturale delle disuguaglianze economiche e sociali, nei campi più diversi.

Elena Brambilla Pirelli con il marito, in una delle rare sue immagini disponibili

Elena Brambilla Pirelli con il marito, in una delle rare sue immagini disponibili

Tutt’altro che sorda alla questione sociale, dunque, Elena conobbe per la prima volta di persona il priore di Barbiana in occasione di quella sua venuta a Milano; e alla sua partenza gli promise che avrebbe fatto visita alla sua scuola, ciò che fece poco tempo dopo. In vista di quel pellegrinaggio, mia madre, sapendo quanto don Lorenzo sapesse essere aspro e spigoloso, gli aveva scritto per raccomandargli di non essere troppo duro con Elena; tra gli argomenti addotti, gli aveva ricordato che non era solo moglie dell’amministratore delegato della Pirelli, ma anche madre di sette figli e impegnata senza riserve in quel “restituire” ai meno fortunati, che lui considerava l’unica via di salvezza per i ricchi. Mio padre, a sua volta, quando eravamo tornati dalla visita allo stabilimento della Bicocca, aveva discusso con don Lorenzo della questione del licenziamento dell’operaio della Pirelli accusato di avere acceso un fuoco in un lavandino (il mio ricordo era che gli fosse imputato di essersi acceso una sigaretta nel bagno dello stabilimento) ed era tornato sulla questione per iscritto. Questo il mio ricordo di quell’episodio [2]:
Sulla via del ritorno, nel pulmino che ci riportava a casa, il priore ci diceva: “per un operaio il licenziamento è come la pena di morte; pensate ai suoi figli, quando lui torna a casa e gli dice che da domani non c’è più da mangiare; dovrebbe essere vietato licenziare, anche per una mancanza grave; puoi dargli una multa, sospenderlo, ma il lavoro non glielo puoi togliere. Mai.” Quelle parole mi sono risuonate nella testa a lungo; e quando, solo sette anni dopo, vidi emanare la legge sui licenziamenti, che li consentiva soltanto per un motivo giustificato, pensai che a don Milani quel passaggio non sarebbe bastato: lui riteneva che non potesse esistere alcun motivo così grave da giustificare il licenziamento di una persona. Non avrebbe giudicato sufficiente neppure l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, destinato a entrare in vigore qualche anno dopo.
A quell’epoca l’economia era ancora molto statica, le assunzioni erano per tre quarti a tempo indeterminato essendo i vincoli al licenziamento molto ridotti, il dualismo tra stabili e precari era ancora di là da venire, la teoria del conflitto di interessi tra insider e outsider doveva attendere ancora vent’anni prima di vedere le sue prime formulazioni. E l’indennità di disoccupazione era di trenta lire al giorno, per una durata di poche settimane. Il mondo di allora era davvero diversissimo da quello attuale. Anche in riferimento al contesto di allora, comunque, attribuire a don Milani la teorizzazione di un ordinamento del lavoro che quindici anni dopo sarebbe stato classificato come un regime di job property, sarebbe come oggi attribuire a Papa Francesco la teorizzazione di un regime economico-sociale di tipo comunista. La predicazione di don Milani, come quella di Papa Francesco, non si colloca sul piano della politica economica, ma su quello dell’etica sociale; ed è su questo piano che essa conserva tutta la propria attualità.
La lettera che segue conferma quest’ultimo punto in modo molto incisivo. Don Milani rivendica il diritto-dovere di amare soltanto i propri parrocchiani e i poveri come loro; e di affermare la “verità parziale” che il proprio “cuore parziale” gli detta, senza la pretesa che quanto affermato sia corretto sul piano del diritto o dell’economia.      (p.i.)
Postscriptum – Una notazione interessante per i giuslavoristi: in un passaggio della lettera si legge che, nel corso dell’incontro a Barbiana, Elena aveva riferito a don Lorenzo l’opinione dei dirigenti della Pirelli, secondo cui già allora i licenziamenti erano pressoché impossibili. L’accordo interconfederale del ’65 e la legge del ’66 sui licenziamenti erano ancora di là da venire: se dunque già allora questa era la percezione dei direttori del personale, questo significa che il controllo sindacale sulle scelte imprenditoriali in questo campo era già robusto nei “bui anni ’50”; e che la stabilità dei posti di lavoro dipende da un insieme di fattori, dei quali la legge costituisce soltanto una parte, e probabilmente non la più rilevante.

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 LETTERA DI DON LORENZO MILANI A LUCIANO ICHINO, 11 MAGGIO 1959

Barbiana, 11 maggio 1959

Caro Luciano,

ti scrivo per ringraziarti del vocabolario felicemente arrivato e graditissimo e per rispondere indirettamente alla tua lettera e direttamente alla visita di Elena Brambilla e ai timori di tua moglie.

Luciano Ichino all'epoca di questa lettera

Luciano Ichino all’epoca di questa lettera

Ma, ripensandoci, che cosa estranea alla mia professione e alla mia esperienza mi son ritrovato a fare! Ier mattina ero alle prese con un professore di liceo, la sera con Elena e appena partita lei è arrivata inaspettatissima l’alta gerarchia dell’A.C. fiorentina (i due presidenti e l’assistente) in devoto pellegrinaggio: un magistrato e uno storico. Più tardi ancora un altro prete. Ho cercato solo i miei montanari e ho trovato i cittadini. Potenza artistica del libro? o piuttosto validità di argomenti o meglio ancora preesistenza d’un turbamento che non ho provocato io, ma che io ho soltanto raccolto, come si raccoglie un campione d’aria per analisi? E allora perché se la prendono con me e perché tocca a me rispondere a tutti e trovare la soluzione giusta per ognuno? S’arrangino lontano da me perché con l’atto stesso di venire mi danno ragione. Cosa importa che vengano a discutere con me se ho detto balle? E se le balle che ho detto hanno avuto il potere di farli muovere dalle loro poltrone per salire a Barbiana vuol dire che non erano balle e allora non vengano a discuterle con me, ma se la vedano con i loro confessori, più capaci di me e certamente più di me esperti alla comprensione di quel determinato ambiente. Poi succede che io dico qualche parola incomprensiva e se ne vanno crucciati. La Francesca mi aveva chiesto di non mettere sotto i piedi una fragile creatura. Non è stata necessaria una gran fatica per tenere a freno i miei istinti da rinoceronte: la fragile creatura si è conquistata da sé il diritto alla comprensione umana, alla pietà, all’affetto senza rancore.

Soprattutto per la sua veste di madre di famiglia. È proprio in questa sua veste che le abbiamo subito riconosciuto il diritto e forse anche il dovere di restare coi suoi bambini (ma potrebbe però scappare coi suoi bambini). Di fronte a lei c’era il mio Giorgio. Lei è mamma, io sono babbo. Che sono io? Il padre Perego? mi vergognerei se fossi, come lui, un sacerdote calcolatrice elettronica. Mi onoro di essere un parroco munito di regolare cuore umano con regolari affetti. Giorgio è sposato e è disoccupato da due anni, cioè da quando è babbo. È un omone grande e grosso, conosce la sua arte (è filatore), vive sempre in grazia di Dio e poi in più non ruba, non incendia grattacieli, non aderisce alla CGIL, vota per i signori come vuole il cardinale Ottaviani.

Ma è stato licenziato. Se io avessi solo voluto, avrebbe potuto stendere Elena sotto una montagna di notizie di lavoro tragiche e ingiustificabili. Elena in certi momenti della sua vita, quantunque mamma, riesce a investirsi con tutta l’anima di problemi altrui (per es. nel leggere il mio Giordano e il mio Mauro). E io e Giorgio e gli altri, ieri con tutta l’anima ci siamo investiti di problemi a noi estranei (quelli di Elena).

Non sarebbe umano e neanche cristiano costringer lei a dare una pedata ai suoi figli per buttarsi là dove il suo cuore ha vibrato. E allora sarebbe umano e cristiano costringere me a porre Giorgio e Elena sullo stesso piano? La commozione di un attimo deve far gettare alle ortiche la veste d’ogni giorno? E soprattutto la veste che Dio ci ha dato. A lei di mamma, a me di padre.

Il sacerdote è padre universale?

Se così fosse mi spreterei subito. E se avessi scritto un libro con cuore di padre universale non v’avrei commossi. V’ho commosso e convinto solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature, ma che le amavo con cuore singolare e non universale. Non sapreste che farvene di un prete con cuore universale (a Milano però queste inibizioni si coltivano, ho sentito dire alla Siemens che quella ditta ha già in avanzato stato di progettazione un oggetto del genere. Corre voce che sia stato commissionato dai gesuiti, ma pare che essi non siano riusciti ancora a avere dal Papa il per­messo di procedere all’evirazione dei loro studenti, condizione sine qua non per l’innesto del cuore universale. [Un seminarista intero con cuore universale non si potrebbe far circolare per le strade senza pericolo per l’incolumità pubblica]).

Concludendo. L’incontro, anche se si riduce a uno scontro è un dovere. La S. Vincenzo non è (io credo, ma non me ne intendo) il luogo adatto per gli scontri. Vi si potrà misurare tragiche situazioni esterne, ma non sarà facile che durante la visita i poveri buttino fuori la loro situazione interna. Rinascita andrà, credo, molto bene per chi ha già visto tutto. Ma Elena non ha ancora visto tutto.

Lo abbiamo constatato per es. quando diceva i licenziamenti impossibili. Tutte le fabbriche di Prato hanno licenziato a man salva, la Galileo l’ha fatto, la Ginori l’ha fatto. Giorgio ne era lì testimonio vivente e non doveva sentirsi dire in faccia una cosa così irrispettosa. (A proposito, perché una sera non invitate a cena Maresco con la sua fidanzata e Elena? Potrebbe insegnarle tante cose).

Il licenziamento del lavandino resta per me uguale a prima. Un atto feudale. I bambini prendono atto dei motivi addotti, ma io li invito a non farsi intimidire. Nessun motivo può intaccare i principî che un licenziamento viola. È un processo senza le garanzie che il diritto romano aveva, credo, introdotte già nel periodo repubblicano cioè prima di Cristo (te lo saprai preciso). Ma ora son passati venti secoli e il nostro senso della fraternità evangelica è stato raffinato da Dio in mille maniere. Ci ha parlato attraverso san Francesco e ci ha parlato attraverso la Rivoluzione Francese e attraverso un’infinità d’altri messaggeri. Per cui oggi p. es. la pena di morte che san Tommaso giustificava non trova più diritto di cittadinanza né nel nostro cuore né nel nostro cervello. E neanche un’infinità d’altri concetti antichi non valgono più o stanno disgregandosi ai nostri occhi cui Dio paternamente va allargando giorno giorno orizzonte. Licenziamento è uno di questi concetti che appartenevano al mondo feudale e derivavano dall’art. 3 del codice di diritto penale della giungla. E non sarò obbligato a dire alla Pirelli (ditta) cosa deve fare dei suoi operai incendiari (forse dovrebbe dar loro la medaglia perché son gli unici che risolverebbero i problemi: della Pirelli [mamma]). Io so solo che mi schiero con lui e non gli domando se è buono o cattivo. Nell’ultimo numero di Politica c’è una fotografia di un processo contro un partigiano sulla montagna. Da una parte si vede l’imputato, dall’altra l’accusatore col dito puntato. Ho preso Francuccio e gli ho chiesto: «Per chi sei te di questi due?» «Per questo». E non ce ne importa neanche di sapere quali sulla foto erano i fascisti e quali i partigiani. Sotto la foto non c’era la data. Se fosse di quando ormai le parti erano invertite sceglieremmo nello stesso modo. Da una parte c’è quelli che hanno il potere, dall’altra c’è quello legato. L’incertezza della scelta l’avremmo solo davanti alla foto di due combattenti ad armi pari. Voi giuristi nel corso dei secoli siete riusciti a costruire il processo penale in una forma (imperfetta solo perché umana) che cerca addirittura di porre l’imputato a armi pari con la Repubblica dinanzi ai giudice. È una bella cosa e l’esperienza di 20 secoli l’ha raffinata e perfezionata in modo ammirevole. Ma è ridicolo che io profano spieghi a te leguleio queste cose. Ti domando solo se non ti pare assurdo che gli uomini abbiano escluso da queste mirabili garanzie il licenziamento e l’assunzione (in un paese dove c’è disoccupati).

Ecco perché in un processo sommario come è ogni licenziamento io e i miei ragazzi siamo col licenziato e non udiamo ragioni. Non è una scelta sentimentale soltanto. La mia ragione non si ciba di testi di economia, né di ragioni di bilancio nazionale, né delle ragioni della Pirelli (ditta). Che m’importa se la Pirelli va a rotoli per eccessive assunzioni mettendo così sul lastrico anche i 10.000 attuali occupati? Se ho dinanzi il mio figliolo incendiario licenziato sono con lui e compio esattamente lo stesso atto che compie Elena quando si schiera con i suoi 7. Una scelta che contraddice al famoso obbligo di voler bene a tutti, ma che si fonda su un Sacramento (il matrimonio per lei, l’ordine sacro e l’investitura di parroco per me). Ora l’incendiario di grattacieli non è mio parrocchiano. Ma la parrocchia m’ha dato questa stretta parentela di sangue con Giorgio e Giorgio è fratello dell’incendiario e così mi son trovato a essere più parente dell’incendiario che di Elena. E questo a prescindere dalla commozione che si prova in presenza dei potente industriale quando si rivela personalmente fragile creatura degna di pietà.

Anche Torquemada era probabilmente una fragile creatura e chissà come trepidava quando il figliolo della sua ganza aveva la tosse.

Marat svenne assistendo all’autopsia di un suo amico. Che fragile creatura era anche lui agli occhi della donna che l’amava! E non sto scherzando crudelmente, non sto prendendo in giro gli affetti familiari (mi sto anzi facendo scudo proprio di questi), ma sto solo mostrando che bisogna poi giudicare Torquemada e Marat per quello che valgono e per gli atti che compiono. E come sarei contento di sapere che il padre Perego ha ganza e figlioli per cui trepida e come sarei contento che li avesse il card. Ottaviani e come vorrei poter scoprire anche in loro un moto d’umanità ferita che me li farebbe amare personalmente, mentre ora non li amo certo. Me li farebbe amare come amo i miei bambini e come amo la Pirelli (mamma). Un amore mosso dalla pietà che è salutare per chi lo prova e per chi ne è l’oggetto e attenua gli angoli e allarga l’orizzonte. Ma che non muta nulla alle reciproche posizioni di principio. Torquemada è un W.C., Marat un sanguinario. Perego un calunniatore, Ottaviani un bischero, la Pirelli (ditta) un ente che si arroga diritti che Dio non gli ha dato e che la nostra coscienza di cristiani e di cittadini d’una repubblica costituzionale non gli concede, la Pirelli (donna) una che giustifica la Pirella (ditta).

E allora si fa alle fucilate.

Ho spiegato a Elena che nel capitolo sul Banci (Baffi) tutto quello che racconto è verità parziale come quella del lavandino. Elena sottoscrive tutto il mio libro. Se si chiamasse Elena Banci non lo sottoscriverebbe, conoscerebbe le ragioni di lui (che io ho trascurato). E come avete fatto a non accorgervi che le avevo trascurate? È semplice. Vi siete fatti prendere dalla commozione. Eravate con Mauro e con me, e non potevate fare altrimenti perché avete fatto anche voi cosi ogni volta che s’è trattato di scegliere tra i vostri bambini e quelli degli altri, siete stati con me che sceglievo tra il mio bambi­no e il bambino della mamma del Banci. Ho già detto che il cuore universale non è la macchina cui ambisco. Son sicuro che mi salverò anche col mio cuore carnale purché riesca a tenermi un po’ alla meglio nei limiti segnati da un lato dal V comandamento e dall’altro dal VI. Il limite segnato dal V è di non odiare. Elena vorrebbe addirittura che si riuscisse anche a non disprezzare. Esagerata! Ier l’altro rileggevamo il cap. 26 dei Promessi Sposi. È impossibile non disprezzare don Abbondio. È irresistibile, ma è anche giusto. Tutto quel che bisogna fare è di non odiarlo, cioè di non augurargli male eterno. Ma è il Manzoni stesso (cristiano timoratissimo) che ha usato tutta la sua arte per coltivarle in noi il disprezzo per don Abbondio. Lo ha fatto perché pensava giustamente che sarebbe stato salutare per tutti noi e forse per lui stesso. Ma se gli si augurasse un po’ di male temporale, sarebbe proibito? per es. augurargli il tormento della predica di Federigo!  oppure la sofferenza della paura dei lanzichenecchi e della peste. Dicono che non si possono desiderare queste cose. Ma se servissero e fossero capaci di scuotere don Abbondio dalla sua chiusura nel proprio guscio, forse bisogna anche augurargliele. Oppure mandargli una copia dei Promessi Sposi, un libro così crudele verso di lui. O una copia del mio libro. O una qualsiasi altra peste. O la rivoluzione. O il tema dei lavandini. Tutte verità parziali, tutte cose che contengono una parte di vero e una parte di falso, una parte di bene e una di male. Ma vivete voi senza questi mezzi se vi riesce, ma mandate avanti il mondo e la scuola con castighi armoniosi, con rimproveri temprati secondo i dettami della moderna pedagogia, passeggiate per le strade colle vostre velleità di amore universale (attenti ai mariti o mogli dei passanti che incontrerete!) spartite salomonicamente ora per ora il giusto dall’ingiusto, senza lasciar parlare le passioni e il cuore, senza mai schierarvi, senza mai guerra. È una pia illusione l’interclassismo. Non vi riuscirà e se vi riuscisse sareste creature disumane e nessuno vi vorrebbe. Se il mio libro fosse così, non l’avreste letto. Se la mia scuola fosse così sarebbe come tutte.

Combattivi dunque bisogna essere, cioè schierati, e l’unico dovere che resta è di non trascurare le occasioni come quella che abbiamo avuto ieri di scontrarsi coi nemici per accorgersi che singolarmente meritano pietà. Ma ho detto scontrarsi e non incontrarsi, perché una patetica stretta di mano inneggiando all’amore universale e avendo cura di non toccare tasti delicati e argomenti scottanti non rimedia nulla e non è nemmeno onesta.

E ho detto: «per accorgersi che singolarmente meritano pietà» e non ho detto: «per proporsi di non scontrarsi mai più». Vorrei che questa lettera servisse contemporaneamente tre destinatari (per economia di tempo, non di francobolli) e cioè te, la Francesca e Elena. Spero proprio che esprima il mio pensiero perché coi ragazzi intorno che stanno disegnando con un silenzio molto relativo non riesco a controllarlo con un’adeguata rilettura. Comunque ti avverto che è intesa a consolare Elena dei dispiaceri che ha avuto qui ieri e che se a questo scopo non ti paresse adatta la cosa più semplice sarebbe di non gliela dare.

Un abbraccio affettuoso vostro

Lorenzo

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