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SCARPELLI: “LA NUOVA NORMA SUI VOUCHER È INCOSTITUZIONALE”

La critica che mi muove il collega: “Tu richiami i precedenti delle leggi sul TFR e sui licenziamenti, approvate nel 1982 e 1990 per evitare i referendum in tema, ma sai bene che non è accaduta oggi la stessa cosa”

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Lettera di Franco Scarpelli, professore di diritto del lavoro nell’Università di Milano-Bicocca, pervenuta il 31 maggio 2017, in riferimento al mio editoriale telegrafico
Lavoro occasionale: una questione “di metodo” infondata [1]Segue la mia risposta    .
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Il professor Franco Scarpelli

Il professor Franco Scarpelli

Caro Pietro,
da una persona della tua competenza ed esperienza ci si attende che tu sappia distinguere le questioni di metodo da quelle di merito, e che su queste (di solito più rilevanti, perché attinenti alle regole del gioco) misuri con più precisione i tuoi argomenti.
Nel merito, che una ragionevole disciplina dei c.d. mini-jobs sia opportuna lo ritengono in tanti, ed io tra questi. La stessa Cgil, nella proposta della Carta dei diritti, prevede al tit. III capo V una disciplina delle prestazioni occasionali (con la fondamentale differenza che si tratta comunque di prestazioni qualificate come subordinate, per cui la semplificazione nell’attivazione di tali rapporti temporanei non li sottrae al complesso delle tutele lavoristiche). Qualunque sia l’opinione sulle singole proposte, compresa quella attualmente in discussione (che puoi ritenere anche la migliore possibile) è tuttavia evidente che la questione di metodo, e di rispetto delle regole democratiche, è altra cosa.
Tu richiami i precedenti delle leggi sul TFR e sui licenziamenti, approvate nel 1982 e 1990 per evitare i referendum in tema, ma sai bene che non è accaduta oggi la stessa cosa, e il tuo richiamo ha il sapore di una furbizia. Allora, pendente il referendum e PRIMA della sua celebrazione, furono approvate leggi che la Corte di Cassazione giudicò coerenti allo spirito del referendum, tanto da renderne superata la necessità (secondo un giudizio che è tecnico, e non di merito politico).
Questa volta è accaduto tutt’altro: che piacesse o meno, il referendum proposto della Cgil proponeva l’abrogazione integrale della disciplina delle prestazioni accessorie.
Era eccessivo? Forse si, ognuno può pensarla come ritiene, ma questo era il contenuto della proposta e questo avevano voluto milioni di cittadini che avevano sottoscritto il referendum.
Il Governo avrebbe potuto decidere di giocare la partita del referendum, difendendo l’istituto.
Oppure avrebbe potuto proporre subito una nuova disciplina, andando incontro alle richieste referendarie e, come dici, gettando via l’acqua sporca (l’eccessivo utilizzo dei buoni lavoro, in sostituzione di lavoro stabile) senza uccidere il bambino (la possibilità di svolgere alcune vere prestazioni occasionali con semplicità e un quadro minimo di tutele), magari interloquendo sul punto con lo stesso comitato referendario.
La Cassazione avrebbe poi giudicato se il referendum dovesse ancora svolgersi.
Invece il Governo ha adottato un decreto legge, e il Parlamento l’ha convertito in legge, che ha accolto integralmente il volere dei referendari, abrogando l’intero istituto: su tale base il referendum è stato, ovviamente, ritenuto non più attuale.
È stata una scelta politica e di contenuto, adottata con lo strumento costituzionale della decretazione d’urgenza, e condivisa dallo stesso Parlamento (immagino che tu stesso abbia voltato la legge di conversione, condividendo dunque l’abrogazione totale dell’istituto).
Reintrodurre lo stesso istituto dopo qualche settimana (per quanto applicabile in un ambito minore rispetto alla precedente disciplina, e con alcune differenze di disciplina, ma nessuno può negare che ci sia una almeno parziale sovrapposizione con il vecchio istituto del d.lgs. 81/2015) appare francamente sconcertante (anche a chi, come me, continua a guardare con speranza al ruolo di una grande formazione riformista di centrosinistra, democratica come il suo nome rivendica).
Il fatto che tu insista sulle buone ragioni di merito per fare ciò peggiora questa sensazione, perché stai rivendicando l’idea che il fine giustifica il mezzo, qualsiasi mezzo.
Non sono un amante dello strumento referendario, ma questo è previsto della Costituzione e nel rispetto di quelle regole è stato attivato.
Forse, il mezzo oggi scelto solleva addirittura un problema di conflitto tra poteri costituzionali. Sul punto lascio la parola ai costituzionalisti, ben più competenti di me: a me basta constare con amarezza che se si considerano le regole aggirabili quando si ritiene di avere buone ragioni per farlo, mantenere la fiducia nell’azione di chi come te ci rappresenta, eletto sulla base delle stesse regole costituzionali oggi aggirate, diventa sempre più difficile.
Un caro saluto
Franco

La mia risposta: “Se riesci a indicarmi anche uno solo dei casi di abuso o di pericolosità sociale denunciati dai promotori del referendum, che non venga drasticamente impedito dalla nuova disciplina, mi impegno a non votarla quando verrà in Senato”

Caro Franco,
a me non sembra di avere confuso la questione di metodo con quelle di merito, dal momento che alla prima ho dedicato un editoriale telegrafico distinto dagli altri due, dedicati alle seconde. Vero è che, come tu stesso giustamente osservi, in questo caso la questione di metodo è strettamente intrecciata con il contenuto del nuovo intervento legislativo. Il quesito è infatti questo: il nuovo intervento legislativo reca, oppure no, una modifica sufficientemente incisiva rispetto alla disciplina previgente, nella direzione voluta dai promotori del referendum? Questo è il quesito sul quale sarebbe stata chiamata a giudicare la Corte di Cassazione se l’intervento legislativo fosse stato contestuale all’abrogazione della norma sottoposta a referendum, come già avvenne nel 1982 con la legge sul trattamento di fine rapporto, e nel 1990 con la legge sui licenziamenti nelle imprese di piccole dimensioni.
Nel mio primo editoriale telegrafico [1] di lunedì scorso a questa domanda ho risposto positivamente, osservando che “anche oggi, come allora, Governo e Parlamento sostituiscono alla vecchia disciplina una nuova che muta incisivamente nella direzione voluta dai promotori del referendum”. E indico specificamente quelli che a me paiono mutamenti molto incisivi rispetto ai contenuti della norma abrogata:

Prima i buoni-lavoro erano utilizzabili da parte di qualsiasi soggetto e, di fatto, i cinque sesti dei buoni venivano usati da imprese di dimensioni medio-grandi; ora la soluzione prospettata esclude tutte le imprese con più di cinque dipendenti. Prima era di fatto possibile l’abuso dei buoni per pagare gli straordinari ai dipendenti regolari o allungarne l’orario effettivo; ora si prospetta un meccanismo che lo rende di fatto impossibile. Il tetto massimo di utilizzabilità viene abbassato da 7000 a 5000 euro l’anno, e a 2500 per singolo lavoratore ingaggiato. Al fine di garantirne la piena tracciabilità, ogni pagamento ora deve avvenire per via telematica, a costo di dotare il lavoratore ingaggiato di una carta pre-pagata.

Non c’è neppure uno dei casi cui si riferivano le critiche della sinistra sindacale e politica alla vecchia disciplina, che la nuova disciplina non impedisca drasticamente: se riesci a indicarmene anche uno solo, mi impegno a non votare la nuova norma quando verrà in Senato. Così stando le cose, a me sembra che nell’operazione che Governo e Parlamento stanno compiendo non possa affatto ravvisarsi la “frode costituzionale” che tu denunci.
È ben vero che questa volta, a differenza da quelle del 1982 e del 1990, l’operazione viene compiuta dal Governo e dal Parlamento in due tempi: a marzo l’abrogazione della vecchia disciplina, a giugno il varo della nuova (e pour cause: il dibattito in seno al Pd e alla maggioranza sul da farsi, da quando il referendum è stato dichiarato ammissibile, è stato intensissimo: per molti aspetti non si è risolto neppure ora, tanto che una parte della maggioranza oppone alla scelta compiuta un rifiuto “da destra”, un’altra parte vi si oppone “da sinistra”). Ma, per un verso, questo modo di procedere non è affatto vietato dalla Costituzione; e tanto, piaccia o non piaccia, dovrebbe bastare. Per altro verso, la modifica apportata, che va esattamente nella direzione voluta dai promotori del referendum, è molto più incisiva e drastica rispetto a quelle che vennero apportate alle norme sottoposte a referendum nel 1982 e nel 1990, e che pure vennero ritenute sufficienti dalla Corte di Cassazione per disattivare la consultazione referendaria. Nel 1982 i promotori del referendum volevano reintrodurre l’aggancio dell’intera “indennità di anzianità” all’ultima retribuzione; la riforma ristrutturò profondamente l’istituto, ma agganciò all’ultima retribuzione solo l’ultimo accantonamento annuale e non l’intero trattamento di fine rapporto. Nel 1990 i promotori del referendum volevano estendere l’articolo 18 St. lav. anche alle imprese con meno di 16 dipendenti; la riforma introdusse a carico di queste ultime soltanto una sanzione indennitaria, ma non l’intero apparato sanzionatorio previsto dall’articolo 18. In confronto a quanto accadde in quelle due occasioni, oggi la modifica legislativa si avvicina molto di più all’esito perseguito dai promotori del referendum.
La mia critica a questo nuovo intervento legislativo [2] è semmai un’altra: proprio perché esso interviene in modo così drasticamente incisivo, sottraendo alla totalità delle imprese di dimensioni più che minime la possibilità di far fronte alle esigenze di lavoro occasionale o accessorio con il vecchio strumento, sarebbe stato doveroso offrire loro un altro strumento appropriato per farvi fronte. Anche uno strumento che comportasse un costo doppio rispetto al precedente, come il contratto di lavoro intermittente; ma pur sempre una possibilità ragionevole di far fronte a un’esigenza reale, che è irragionevole ignorare.
Resta dunque il dissenso tra di noi. Ma non mi rammarico affatto di questa occasione di dialogo aperto, che considero utilissima e della quale ti ringrazio molto.
Pietro