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LE PAURE INFONDATE PER L’ACCORDO UE-CANADA

Le preoccupazioni diffuse circa i pericoli per la salute o (addirittura!) per le istituzioni democratiche derivanti dall’Accordo UE-Canada sul libero commercio nascondono in realtà la diffidenza istintiva verso l’abbattimento dei vecchi muri protettivi

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Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 27 giugno 2017 –  In argomento v. anche la relazione che ho svolto il 20 giugno alla Commissione Lavoro [1] del Senato.
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Ceta 2Il Senato sta esaminando in questi giorni il disegno di legge di ratifica del CETA, l’accordo tra UE e Canada che prevede l’abolizione del 92 per cento dei dazi doganali sulle merci, l’abbattimento delle frontiere per la partecipazione di cittadini e imprese alle gare d’appalto per forniture di beni e servizi, l’eliminazione dei maggiori ostacoli al reciproco riconoscimento per alcune professioni regolamentate (architetti, ingegneri, commercialisti), l’adeguamento del Canada agli standard europei in materia di diritto d’autore e di tutela della proprietà intellettuale.

Su questo trattato, nell’opinione pubblica europea circolano molte preoccupazioni; ma sono preoccupazioni fondate in gran parte su notizie non vere circa pretesi pregiudizi per la tutela della salute e dell’ambiente, che potrebbero derivarne. Va chiarito subito che è stata esclusa dall’accordo l’importazione in Europa di prodotti geneticamente modificati e di carne agli ormoni: il CETA, dunque, non incide sulle restrizioni Ue in queste materie. Inoltre è stata introdotta la clausola per cui le disposizioni contenute nell’accordo non potranno comunque essere applicate là dove esse contrastino con disposizioni dei singoli Stati a tutela della salute dei propri cittadini: nessuna violazione, dunque, da parte dell’accordo, del cosiddetto “principio di precauzione” nella disciplina della produzione alimentare a tutela della salute umana e dell’ambiente.

Un’altra preoccupazione diffusa riguarda il fatto che, per quel che riguarda l’export agroalimentare europeo, il CETA tutela soltanto 173 indicazioni geografiche di provenienza, di cui soltanto 41 italiane, a fronte delle 288 oggi tutelate in Italia. Ma questo non può essere considerato come una riduzione della tutela dei prodotti tipici nostrani, dal momento che senza questo accordo nessuna indicazione di origine di prodotti italiani o di altri Paesi europei sarebbe tutelata in Canada. Il CETA sarà certo migliorabile in futuro; ma senza di esso la protezione dei nostri prodotti tipici resterebbe a zero.

Un’altra preoccupazione diffusa riguarda gli strumenti per la soluzione delle eventuali controversie sull’applicazione dell’accordo. Il CETA, nella sua versione definitiva, istituisce per questo una apposita giurisdizione (Investment Court System-ICS), affidata a giudici togati indipendenti adeguatamente formati e selezionati. Chi considera questa giurisdizione speciale come un’anomalia pericolosa mostra di ignorare che qualsiasi trattato internazionale richiede una giurisdizione sovranazionale per la propria applicazione. L’opposizione a questa parte del Ceta nasce in realtà soltanto dalla diffidenza istintiva rispetto a un processo di integrazione della nostra economia in un nuovo sistema di scambio intercontinentale debitamente strutturato.

Le economie italiana e canadese sono marcatamente complementari. Con questo accordo di libero scambio il Canada aumenterà l’esportazione verso l’Italia soprattutto di materie prime che a noi fanno difetto, di grano, di pesce congelato, di crostacei e di soia (tutti prodotti, peraltro, che già oggi noi in varia misura importiamo da quel Paese: soprattutto il grano); noi invece aumenteremo le esportazioni verso quel Paese, con i suoi 36 milioni di abitanti, di macchine utensili, automobili, moto e autocarri, occhiali, prodotti dell’industria alimentare, tessile, dell’abbigliamento, del cuoio, dell’oreficeria, e diversi altri ancora. Col risultato di un ampliamento e rafforzamento del nostro tessuto produttivo, come di quello canadese: il classico gioco a somma positiva.

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