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E SE DESTINASSIMO AI CAREGIVERS QUEL CHE SPENDIAMO PER LA 104?

Oggi l’Inps destina una somma ingente ai rimborsi a imprese e amministrazioni per i permessi utilizzati dai dipendenti con parenti disabili: permessi dei quali si osservano abusi molto diffusi – Perché non destinare queste risorse direttamente a chi si occupa di un parente disabile, consentendogli di ridurre l’attività lavorativa retribuita?

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Lettera inviata il 15 settembre 2017 da Vitalba Azzollini (giurista. collaboratrice di un’Autorità di vigilanza, collaboratrice dei siti
lavoce.info e noisefromamerika, Phastidio e Istituto Bruno Leoni), in dissenso rispetto alla proposta contenuta nella lettera di un frequentatore del sito [1] pubblicata in precedenza – Segue la mia risposta, nella quale propongo la soluzione del problema sintetizzata nel titolo  .
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Legge-104

Caro Ichino, la lettera pubblicata la scorsa settimana [1] circa l’uso distorto dei permessi per l’assistenza a congiunti in situazione di disabilità grave, a norma della legge 104/92, offre diversi spunti di riflessione. Può essere utile rammentare che essa trae origine da un atto di indirizzo del ministro per la Semplificazion e la Pubblica Amministrazione [2], riguardante – tra l’altro – i permessi in discorso, e dal fatto che “l’Aran sta cercando d’introdurre alcuni vincoli per limitare i disagi che l’assenza può creare al posto di lavoro del fruitore”: in particolare, l’obbligo di “un congruo preavviso nelle relative richieste, anche mediante, ove possibile, una programmazione mensile”. Se l’aspetto formale della questione è, dunque, quello di minimizzare i disagi alla organizzazione e funzionalità degli uffici derivanti dalle assenze di chi assiste un disabile, l’aspetto sostanziale emerge da un passaggio della lettera in parola: contenere l’abuso dei permessi ex lege 104. La lettera, infatti, a un certo punto afferma che gli obblighi previsti dall’atto di indirizzo non sono forse “un deterrente” a tale abuso, ma può diventarlo l’obbligo di “consentire la fruizione dei permessi solo per l’accompagnamento di persone disabili a visite o analisi”, certificata da apposita attestazione medica, in modo da avere “la certezza di un corretto utilizzo”. Dunque, la proposta è quella di restringere i casi di godimento dei permessi sanciti dalla legge n. 104, limitandoli solo a “visite o analisi” per limitarne al contempo ogni tipo di snaturamento.

Prima di formulare qualche considerazione al riguardo, giova una premessa. La proposta non tiene conto del fatto che l’assistenza a portatori di handicap – per chi li assista veramente, com’è ovvio – consiste in molto altro rispetto all’accompagnamento a “visite o analisi”: altro più pesante, fragile e complesso. Sarebbe meglio non ignorarlo, poiché rappresenta il presupposto dell’esame di questo tema, oltremodo delicato e sfaccettato.

Innanzitutto, la proposta va verificata sotto il profilo del metodo di regolamentazione. Se dettare nuove prescrizioni non è quasi mai la soluzione, la è ancor meno quando le nuove prescrizioni sono motivate dall’inadeguatezza dei controlli sul rispetto di quelle già vigenti: il problema a monte resta intatto. Inoltre, circoscrivere i casi di fruizione di un diritto (solo per “visite o analisi”, appunto) produrrebbe l’automatismo di circoscriverne altresì i casi di uso distorto, ma la soluzione finirebbe per penalizzare esclusivamente chi ha sempre agito in modo conforme alla legge: costui vedrebbe il proprio diritto “dimezzato” comunque. In altri termini, a fronte di nuove regole, i “furbetti” troveranno nuovi inganni, mentre chi già rispettava quelle precedenti continuerà ad essere corretto. Senza la definizione di un sistema di controlli effettivamente funzionante, si teme che non cambierebbe niente. Peraltro, ricorrere ad attestazioni mediche per comprovare che il permesso è stato usato per l’accompagnamento a “visite o analisi” – in un Paese ove (un certificato medico per varie ed eventuali non si nega a nessuno, ma soprattutto) si usa la toppa delle autocertificazioni per l’impossibilità delle strutture operative di gestire la “burocrazia” di altre attestazioni (v. il recente tema delle vaccinazioni) – non sembra il metodo più efficiente. Infine, è vero che alcuni fanno un uso disinvolto dei permessi ex lege 104, ma l’esempio contenuto nella proposta da cui si sono prese le mosse non sembra il più calzante: è quello di un dipendente residente in Veneto che fruisce di tali permessi in favore di un disabile residente in Sicilia. Nel variegato mondo delle disabilità i tipi di assistenza possono essere altrettanto vari, senza che ciò configuri una distorsione – e quindi una violazione – rispetto alle modalità di assistenza reputate “normali”. Anche per questo non si può includere in categorie rigorose ciò che in natura non può essere categorizzato: e se tale inclusione avviene normativamente, il risultato rischia di essere una regolamentazione inefficiente.

Per cambiare “l’andazzo” di un Paese poco incline al “rigore”, ma molto propenso a dichiararsene vittima alla bisogna, servirebbe che il “rigore” venisse sperimentato veramente, per indurre al rispetto delle prescrizioni vigenti e, al contempo, per favorire un cambiamento “culturale”, in tema di disabilità e non soltanto. Si parta da una considerazione: quelli che usano il congiunto disabile come una sorta di vincita alla lotteria – che consente loro di godere permessi retribuiti a spese della collettività intera per fini diversi dall’assistenza dovuta – sono equiparabili a quelli che violano i diritti dei disabili stessi, occupando i parcheggi loro riservati, ostruendo gli scivoli per il loro passaggio o non eliminando barriere architettoniche là dove è previsto: non c’è nessuna differenza. E nessuna differenza c’è per lo Stato, latitante per gli uni come per gli altri: non serve avere un disabile in famiglia per esserne consci. E’, dunque, evidente che “rigore” non significa regolamentazione ulteriore, maggiori adempimenti o sanzioni più elevate: se le norme non vengono rispettate e alla loro violazione non consegue una punizione, quelle nuove sono destinate a non sortire risultati migliori di quelle precedenti. Tantomeno “rigore” vuol dire comprimere diritti, specie se la compressione penalizza chi ne gode onestamente, come sopra dimostrato. “Rigore” è verificare l’osservanza di quanto già prescritto e, quindi, perseguire la sua trasgressione in maniera stringente. Ma come procedere ad accertare che i permessi siano fruiti correttamente? Potrebbe utilizzarsi un sistema già collaudato, similare a quello usato per le assenze per malattie: comunicazione al datore di lavoro dell’assenza ex l. 104, anche senza preavviso e/o certificato medico – non sempre è possibile programmare le esigenze di un portatore di handicap, né esse sono sempre attestabili con certificato – indicando l’indirizzo presso cui verrà data assistenza. Se non è possibile specificare un indirizzo – alcuni tipi di assistenza sono “deambulanti”, come molti caregiver sanno – dovrà essere precisata la modalità di prestazione, sì da fornire ogni elemento utile a valutare l’assenza stessa: in questi casi, il datore di lavoro (o chi per esso) potrà decidere, sulla base degli “indizi” a propria disposizione, se chiedere documentazione o elementi diversi a sostegno di quanto dichiarato dal lavoratore che fruisce dei permessi, oppure operare verifiche ulteriori. Così come per le assenze per malattia, forse qualche “furbetto” resterà a casa far altro, anziché supportare il congiunto bisognoso: ma chi procederà alla “visita fiscale” riscontrerà almeno che egli si trovi nel luogo indicato e che il disabile sia presente. Questo consentirebbe già una buona scrematura. Uno Stato che sta col fiato sul collo – come si suol dire – a chi trasgredisce può riuscire a intaccare la “cultura” dell’approfittamento, imperante nei settori più diversi, e produrre effetti dissuasivi non solo per i “furbetti” ex lege 104, ma anche per quelli che con leggerezza contravvengono a regole diverse. Controlli effettivi ed effettiva applicazione delle sanzioni rappresentano un buon deterrente e sono compito dello Stato, che deve attrezzarsi per provvedervi: soluzioni diverse rischiano di essere scorciatoie per strade senza uscita. Un sano “rigore” potrebbe restituire allo Stato stesso quella credibilità che ha perso nel tempo, oltre che far funzionare meglio ciò che serve.

Vitalba Azzollini

IL MORAL HAZARD CONSIGLIA UN MODO DIVERSO DI SOSTENERE I CAREGIVERS

A me sembra che la previsione, nella legge n. 104/1992, dei permessi retribuiti per i lavoratori in funzione dell’assistenza a parenti disabili sia sbagliata, innanzitutto perché essa accolla (anche) ai datori di lavoro privati, in modo del tutto casuale e irragionevole, un onere molto gravoso: una riduzione della prestazione lavorativa pari all’incirca al 15 per cento.Caregiver È vero che l’onere retributivo corrispondente è rimborsato dall’Inps; ma il costo maggiore per l’impresa è quello organizzativo, che la legge ignora totalmente. Lo Stato deve, certo, farsi carico del sostegno ai parenti che assistono familiari disabili; ma, appunto, è lo Stato che deve farsene carico. Torno fra breve sul punto, per indicare come secondo me dovrebbe farlo; ma è evidente che farsene carico è cosa molto diversa dall’accollarne gran parte dell’onere alle imprese private, oltretutto in modo del tutto casuale, esponendo per di più le aziende stesse e le amministrazioni pubbliche ad abusi molto diffusi: quello che gli economisti chiamano moral hazard.

Nel settore pubblico il danno è più grave. La norma attribuisce di fatto ai lavoratori dipendenti la valutazione discrezionale circa il se e quando godere dei permessi; col risultato che nel settore privato, dove operano i necessari incentivi alla produttività effettiva, l’utilizzazione dei permessi previsti dalla legge n. 104 è molto più contenuta di quanto accade nelle amministrazioni. Anche nel settore privato, però, soprattutto nelle aziende di dimensioni medio-grandi, nell’utilizzazione dei permessi della legge n. 104 si osserva una rilevantissima differenza tra il comportamento dei lavoratori più corretti, che tengono conto responsabilmente delle esigenze aziendali, e di quelli che invece a queste esigenze sono insensibili, o addirittura utilizzano i permessi per finalità diverse dall’assistenza al parente disabile.

Ora V.A. propone che a quest’ultimo difetto della disposizione si ponga rimedio con una intensificazione dei controlli ispettivi. Questa proposta, però, non considera che le ispezioni sono efficaci solo se sono molto frequenti; e renderle frequenti comporta un costo molto elevato. Se si mette in conto la necessità di stanziare risorse rilevanti per attivare le ispezioni capaci di contrastare gli abusi, non sarebbe più logico destinare direttamente queste risorse all’assistenza ai disabili, evitando alle imprese e agli enti pubblici l’onere improprio della perdita del 15 per cento della prestazione lavorativa dei dipendenti con parenti disabili, aggravato dagli abusi?

In altre parole, a me sembra che le risorse impegnate per l’assetto attuale della disciplina della materia potrebbero essere spese molto più utilmente se le si destinasse al finanziamento diretto del sostegno necessario a ogni persona che decida di prestare in modo continuativo assistenza al parente disabile. In questa direzione si muovono i disegni di legge per il sostegno all’attività dei caregivers, attualmente in discussione in Commissione Lavoro in Senato: in particolare il n. 2128 a prima firma della sen. Laura Bignami, che prevede espressamente la sostituzione, per i caregivers, dei permessi retribuiti della legge n. 104 con altre forme di sostegno, tra le quali la contribuzione figurativa e un incentivo per la ricollocazioe, al termine del periodo dedicato all’assistenza del familiare infermo. Se destinassimo al provvedimento per i caregivers quello che l’Inps spende per i permessi della legge n. 104 e per l’abuso diffuso degli stessi, potremmo prevedere anche l’erogazione di una (pur modesta) indennità personale al caregiver, che si aggiungerebbe all’assegno di accompagnamento; faremmo comunque un buon servizio alla causa del sostegno a chi assiste un parende disabile. Un sostegno che consenta, per esempio, al caregiver di lasciare temporaneamente la propria attività di lavoro retribuito per dedicarsi al congiunto disabile; oppure di scegliere un’attività di lavoro a tempo parziale, compatibile con l’assistenza prestata e al tempo stesso compatibile con le normali esigenze organizzative dell’azienda dove lo stesso caregiver in ipotesi presti la propria attività di lavoro retribuito.     (p.i.)
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