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MERCATO DEL LAVORO: I RISULTATI OTTENUTI E QUEL CHE RESTA DA FARE

Una lettura non faziosa dei risultati ottenuti dalle politiche del lavoro dell’ultimo triennio e uno sguardo sul molto che c’è ancora da fare

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Intervista a cura di Guido Bossa, in corso di pubblicazione sul bimestrale della Fnp-Cisl
Contromano, 17 ottobre 2017 – In argomento v. anche  Mercato del lavoro: consuntivo di un triennio e misure in cantiere [1]
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La pubblicazione periodica delle statistiche Istat sul mercato del lavoro in Italia dà luogo a continue polemiche e divergenze interpretative. Ora, a fine legislatura, è possibile tracciare un bilancio del quadriennio trascorso? E in particolare, facendo riferimento ai governi Renzi e Gentiloni, come valuta Lei i risultati delle politiche in tema di occupazione, prima e dopo il Jobs Act?
Occupazione 2017
Il disorientamento dell’opinione pubblica di fronte alla continua pubblicazione di dati sull’andamento del mercato del lavoro nei due anni passati è stato favorito dal fatto che i commentatori televisivi e della carta stampata non hanno chiarito la distinzione tra dati riguardanti i flussi e dati riguardanti gli stock occupazionali. Se vogliamo fare un consuntivo sereno di quello che è accaduto nel triennio, sul piano dello stock possiamo osservare che nel triennio è aumentato di oltre un milione (per la precisione: +1.050.000) il numero degli occupati dipendenti, e sono aumentati più gli occupati stabili (+ 565.000) di quelli a termine. Va osservato però anche che l’aumento è stato ed è più lento rispetto alla media UE; e che a questo aumento hanno partecipato molto più gli anziani che i giovani. In termini di flusso, per tutto il triennio si sono registrati e si registrano ancora nel 2017 saldi positivi dei nuovi rapporti stabili rispetto alle relative cessazioni; però, dopo il boom degli ultimi mesi del 2015 i saldi positivi si sono molto ridotti. È importante metterne a fuoco le cause.

Quali sono le cause di questa riduzione del flusso in aumento dei rapporti stabili?
Principalmente la preoccupazione degli imprenditori per la volatilità del dato legislativo: c’è il timore che il passaggio di legislatura possa portare a un ritorno indietro rispetto alla riforma del 2015. E incombe anche un giudizio di costituzionalità sulla riforma stessa. L’instabilità induce le imprese a preferire dove possibile il contratto a termine. Tuttavia è positivo che oggi si utilizzi il contratto a termine regolare piuttosto che il contratto di collaborazione continuativa: i co.co.co. nel triennio si sono ridotti di circa 130.000.

Il Parlamento sta esaminando in queste settimane l’ultima manovra finanziaria di un ciclo che si sta per chiudere. In materia di lavoro le valutazioni dei sindacati sono articolate (negativa quella della Cgil); ma è indubbio che gli effetti della manovra si proietteranno sulla prossima legislatura. Quali sono i principali problemi irrisolti e le prospettive aperte sul futuro?
Il problema irrisolto più importante mi sembra quello delle politiche attive e in particolare dell’assegno di ricollocazione. La sua sperimentazione, già prevista dalla legge finanziaria del dicembre 2013, è stata impedita per tutto il triennio 14-16 ed è partita solo quest’anno, su di un campione di 30.000 soli disoccupati. Su questo terreno siamo in una situazione di ritardo gravissimo. Il ritardo nella capacità di implementazione, poi, si riverbera sull’incapacità di spesa: già stanziamo per questa misura di politica attiva un centesimo di quanto stanziamo per le politiche passive; ma al dunque non riusciamo neppure a spendere il pochissimo che abbiamo stanziato.

Nel documento preparatorio della Settimana sociale dei cattolici italiani (26-29 ottobre 2017) si legge che il lavoro “è degno quando rispetta la vita delle persone e dell’ambiente, il ritmo e i tempi della vita” e quando “viene prima del risultato economico”. Di conseguenza, il lavoro deve essere “libero, creativo, partecipativo, solidale”. Sono criteri coniugabili con le condizioni lavorative di oggi?
Questi criteri sono tanto più concretamente praticabili quanto più, da un lato, è robusta la domanda di lavoro, dall’altro ciascuna persona è in grado di candidarsi per le posizioni di lavoro che si offrono. Sul versante della domanda occorre aumentare la capacità del nostro Paese di attrarre investimenti da fuori: è questa la sola leva che può consentire un aumento degli investimenti dell’ordine di molte decine di miliardi. Sul versante dell’offerta di lavoro, occorre un programma di lunga lena per migliorare il nostro sistema educativo e della formazione professionale, i nostri servizi di orientamento scolastico e professionale.

Per i lettori di questa pubblicazione, il lavoro dipendente non era soltanto una fonte di reddito, ma il fulcro, il sostegno di un’intera esistenza. Il lavoro consentiva di costruirsi una famiglia, una casa, un futuro; il lavoro era un fattore di relazioni sociali, un elemento costitutivo della cittadinanza. Per molti nipoti dei nostri lettori queste certezze sono venute meno; eppure il lavoro resta parte importante della loro vita. È possibile, secondo Lei, ricostruire attorno al lavoro, nelle condizioni di precarietà nelle quali prevalentemente si svolge ora, lo stesso circuito di valori umani di un tempo?
Io credo proprio di sì.

lavoro 900 A  Come?
Vede, il lavoro è stato un fattore prezioso di relazioni sociali, un elemento costitutivo della cittadinanza, il sostegno di un’esistenza che consentiva di costruirsi una famiglia, non solo nel “trentennio d’oro” fra gli anni ’70 e i ’90; e in quel trentennio non lo è stato solo per la parte dei lavoratori che godevano dell’ombrello dell’articolo 18. Lo è stato anche nel XIX secolo e nei primi settant’anni del XX, quando la regola-cardine dell’ordinamento non era la job property; e lo è stato in generale anche in tutti i casi non coperti da quell’ombrello; lo è stato per lavoratori autonomi, artigiani e altri piccoli imprenditori privi delle reti di sicurezza che proteggono il lavoro subordinato. O almeno: lo è stato per tutti coloro che hanno potuto fare affidamento sulla propria competenza professionale, sul proprio mestiere. Con questo non voglio dire che la sicurezza contro le sopravvenienze negative non sia un bene della vita molto importante: lo è certamente; ma oggi pretendere di costruire la sicurezza delle persone sulla job property è illusorio. Perché nessuna legge può impedire l’accelerazione del ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate per la produzione di beni e servizi, di obsolescenza dei prodotti stessi, e dunque delle strutture produttive.

Come si deve costruire dunque, oggi, la sicurezza?
La si deve costruire in modi e con strumenti diversi rispetto all’ingessatura dei posti di lavoro. La sicurezza va fondata su di un sistema moderno di sostegno economico e professionale delle persone nella transizione dai vecchi lavori ai nuovi. E su di un sistema di redistribuzione fiscale dei benefici del progresso tecnologico, che contrasti l’aumento delle disuguaglianze di reddito e di benessere tra chi è più abile nel “saltare sull’autobus” dell’evoluzione tecnologica e chi lo è di meno. Evitando, però, che la redistribuzione finisca coll’operare come un disincentivo alla formazione e riqualificazione personale permanente.

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