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DIALOGO TRA UN ECONOMISTA E UN GIURISTA SULLA RIFORMA DEI LICENZIAMENTI

Una volta tanto a ruoli invertiti: l’economista fortemente critico nei confronti della riforma, il giuslavorista ad esso favorevole; ma il dissenso di fondo riguarda la struttura del mercato del lavoro in cui essa si applica

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Quello che segue è lo scambio epistolare intercorso durante l’estate 2017 tra Lorenzo Sacconi, professore ordinario di politica economica nell’Università di Trento, e me, in riferimento al suo saggio
La riforma della disciplina dei licenziamenti nel Jobs Act: (non)equità e (non)efficienza dell’impresa [1] [1], in preparazione di una sessione della conferenza annuale della Società Italiana di Diritto ed Economia che si svolgerà a Roma il 15 dicembre prossimo – È disponibile anche una tabella sintetica degli argomenti di questo dialogo [2] – In argomento v. anche la relazione che ho svolto alla Scuola Superiore della Magistratura il 26 ottobre 2016 su La riforma del lavoro tra diritto ed economia [3]; inoltre il mio scritto Perché i giuslavoristi non possono ignorare l’economa del lavoro [4], cui ha fatto seguito su questo sito un acceso dibattito – Il confronto fra Lorenzo Sacconi e me prende spunto dal                    
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Pietro Ichino

Pietro Ichino

10 agosto 2017

Caro Lorenzo, ho letto il tuo saggio La riforma della disciplina dei licenziamenti nel Jobs Act: (non)equità e (in)efficienza dell’impresa [1][1] [5]. Sul suo contenuto ti propongo le osservazioni e gli interrogativi che seguono.

A) Se comprendo bene, il tuo ragionamento è riferito principalmente al caso in cui dal lavoratore ci si possa attendere un suo investimento sul proprio capitale umano, e in particolare un investimento fortemente correlato alle esigenze dell’impresa datrice di lavoro (con conseguente effetto lock-in): se non si dà alla persona interessata una garanzia sufficiente contro il rischio del licenziamento opportunistico, essa non compirà l’investimento; e ne soffrirà anche l’efficienza dell’impresa. A questo proposito ti chiedo (per verificare di aver capito bene il tuo argomento):

  1. capisco bene che questo ragionamento non si applica in tutti i casi in cui dal dipendente non ci si attende alcun particolare investimento nella sua professionalità?
  2. capisco bene che questo ragionamento vale soltanto per il caso in cui l’investimento sia strettamente correlato alle esigenze dell’impresa e quindi scarsamente suscettibile di portare frutti in altre imprese? (per esempio: imparare il coreano serve soltanto nell’impresa X, che commercia con la Corea; ma imparare l’inglese sarebbe investimento valorizzabile anche in molte altre imprese)
  3. che cosa impedirebbe che la datrice di lavoro, al fine di favorire l’investimento del dipendente su proprie capacità firm-specific, fosse essa stessa a pattuire con lui una limitazione della propria facoltà di recesso aggiuntiva rispetto a quella imposta inderogabilmente dalla legge (cosa assai frequente nelle grandi imprese statunitensi)?
  4. perché consideri insufficiente l’entità del severance cost imposto dal d.lgs. n. 23/2015 in forma di indennizzo dovuto per il caso di licenziamento ingiustificato (cui si aggiunge il contributo dovuto all’Inps anche in caso di licenziamento per motivo oggettivo giustificato, variabile con l’anzianità di servizio), quando in altri grandi Paesi europei (Spagna, RFT, UK) il severance cost imposto per legge (per il caso di licenziamento ingiustificato) è mediamente inferiore?
  5. se il problema è costituito dall’entità – in ipotesi troppo esigua – dell’indennizzo previsto dalla nostra nuova legge, considereresti appropriato un congruo aumento di quell’entità, o pensi invece che sia appropriato soltanto il ripristino della sanzione reintegratoria?

B) La tua argomentazione mi sembra compatibile con la costruzione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento in termini di “perdita attesa dal datore di lavoro, conseguente alla prosecuzione del rapporto di lavoro, superiore a una determinata soglia”. A questo proposito ti chiedo:

  1. è così, o invece fai riferimento a una nozione di g.m.o. diversa?
  2. se è così, non pensi che sia opportuno rendere conoscibile quella soglia ex ante, e non affidarne la fissazione al giudice ex post, caso per caso?

In riferimento a questa seconda batteria di domande ti segnalo l’intervento che ho pubblicato la settimana scorsa sulla questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma [6] il 26 luglio scorso sul decreto legislativo n. 23/2015, dove il mio ragionamento complessivo è esposto e argomentato un po’ più in dettaglio. Cordialmente

Pietro

 

Lorenzo Sacconi

Lorenzo Sacconi

25 settembre 2017

Caro Pietro, rispondo qui di seguito alle tue gentili e stimolanti domande/commento. Per mantenere la puntualità del dialogo rispondo dentro al tuo testo, con un carattere diverso. In questo modo spero che tu possa riconoscere che non intendo affatto sfuggire ai quesiti che sottintendono un punto di vista differente. Purtroppo parlare d’altro è ciò che accade quasi sempre nelle discussioni pubbliche. Ma tra di noi possiamo fare diversamente.

A) Se comprendo bene, il tuo ragionamento è riferito principalmente al caso in cui dal lavoratore ci si possa attendere un suo investimento sul proprio capitale umano, e in particolare un investimento fortemente correlato alle esigenze dell’impresa datrice di lavoro (con conseguente effetto lock-in): se non si dà alla persona interessata una garanzia sufficiente contro il rischio del licenziamento opportunistico, essa non compirà l’investimento; e ne soffrirà anche l’efficienza dell’impresa. A questo proposito ti chiedo (per verificare di aver capito bene il tuo argomento):

  1. capisco bene che questo ragionamento non si applica in tutti i casi in cui dal dipendente non ci si attende alcun particolare investimento nella sua professionalità?
  2. capisco bene che questo ragionamento vale soltanto per il caso in cui l’investimento sia strettamente correlato alle esigenze dell’impresa e quindi scarsamente suscettibile di portare frutti in altre imprese? (per esempio: imparare il coreano serve soltanto nell’impresa X, che commercia con la Corea; ma imparare l’inglese sarebbe investimento valorizzabile anche in molte altre imprese)

In effetti parlo di investimenti specifici, ma non bisogna pensare che si tratti di un caso particolare o speciale.

1)  Innanzitutto la teoria: Williamson (Nobel e padre dell’economia neoistituzionalista) definisce l’impresa come gerarchia una soluzione economicamente razionale quando:

a) ci siano contratti incompleti (caso generale, data l’onnipresenza di unforeseen contingiencies)

b) ci siano investimenti specifici (che determinano l’effetto lock-in e quindi sostituisce le relazioni concorrenziali con quelle di interdipendenza strategica)

c) e le motivazioni siano opportuniste (e quindi la disposizione alla ricontrattazione ex post dei surplus causati dagli investimenti).

Quindi, se ha ragione la New Institutional Economics, le imprese esisterebbero in quanto istituzioni efficienti e verrebbero osservate solo nel caso in cui gli investimenti siano specifici, perché solo in questo caso ci sarebbe il rischio di espropriazione ex post (il che naturalmente richiede anche che il contratto sia incompleto, ma che il contratto sia incompleto nulla implicherebbe se non ci fossero surplus legati agli investimenti specifici).

Dunque, dato che noi osserviamo imprese ovunque e non crediamo che le istituzioni economiche siano del tutto economicamente irrazionali, allora gli investimenti specifici devono essere pervasivi. Il mio punto è solo sottolineare che tali investimenti sono di norma multilaterali.

D’altra parte, mentre l’investimento finanziario può essere ben differenziato e quindi rendere la relazione tra detentore del capitale e impresa meno idiosincratico, per il lavoratore dipendente è impossibile investire capitale umano in più di un’impresa, il che rende tale relazione tipicamente “idiosincratica”. Anche ammettendo perciò che l’investimento finanziario giustifichi l’autorità del datore di lavoro, nondimeno il diritto del lavoro o forme di governance multi-stakeholder (tipiche dell’impresa manageriale che precede la “shareholder value doctrine”, oppure della codeterminazione o del modello di governance giapponese) servono a introdurre bilanciamenti che riflettono questa multilateralità.

2)  A parte il riferimento alla teoria (essenziale però per un’analisi economica del contratto di lavoro caratterizzato dalla relazione gerarchica), empiricamente non bisogna pensare che l’investimento specifico in capitale umano sia necessariamente quello in formazione scolastica del lavoratore molto qualificato. Anzi, paradossalmente, un tasso di scolarizzazione elevato può offrire un capitale umano spendibile in molte situazioni alternative (non specifico).

Se al contrario il capitale umano ha una formazione molto specialistica, e sul posto di lavoro, specie in un territorio ove non vi siano molte alternative per l’impiego della medesima specializzazione, allora l’impiego di tale specializzazione in un’impresa promette un surplus di valore il quale non si potrebbe realizzare se non in quella impresa, e questo costituisce ciò che è “at stake” per la contrattazione ex post tra lavoratore e datore di lavoro.

Ma c’è molto altro che rende specifico l’investimento del lavoratore: ad esempio, l’apprendimento di particolari tecniche e metodologie aziendali, della cultura d’impresa e dei suoi codici di comportamento, delle procedure e delle prassi, la conoscenza anche informale delle persone, dei colleghi, della rete di fornitori e di clienti, cosicché ci si può fidare l’uno dell’altro. In generale, l’investimento in relazioni che costituiscono il capitale sociale della persona e dell’impresa (fiducia). Insomma è la conoscenza informale e tacita che rende specifici molti rapporti. Cosicché, tutto ciò che rende idiosincratico un rapporto tra dipendente e impresa, e che ha più valore dentro l’impresa che fuori dall’impresa, può essere visto come investimento in un capitale umano specifico con effetti di lock-in.

Un esempio di lavoratore non specializzato ma che fa investimenti specifici è un immigrato che fa di tutto per farsi accettare da un datore di lavoro, perché dalla stabilità del suo lavoro dipende il mantenimento del permesso di soggiorno e la possibilità del ricongiungimento familiare. Il suo effort è un investimento nell’affidabilità, che ha valore per l’impresa, ed è specifico perché l’affidabilità è attaccata a una persona, ma molto di più per il lavoratore perché il costo della perdita del lavoro implica un rischio di espulsione e la perdita della prospettiva del ricongiungimento (il lavoratore è quindi ben disposto a non rivendicare per sé alcuna parte del surplus creato dalla sua affidabilità, ecco perché si parla per i lavoratori immigrati di disposizione all’“autosfruttamento”) .

Il mio esempio preferito di investimento specifico è però quello di un buon tecnico informatico che, in una medio-piccola azienda, attua i processi di informatizzazione del magazzino e del lavoro di ufficio, adattando il sistema alle esigenze dell’impresa particolare, nell’aspettativa di rendersi essenziale per l’impresa stessa. Di fatto, l’investimento specifico arreca un vantaggio all’impresa ma crea una relazione di lock-in, perché se il tecnico (litigando col proprietario, che non gli vuole riconoscere la posizione di responsabile informatico e la gratifica, perché ha deciso di darla al figlio dell’immobiliarista con cui vuole fare una speculazione) abbandona l’impresa, egli perde anche il valore del suo investimento. Cosicché egli o accetta lo status quo a causa del costo (per lui) associato alla minaccia di esclusione (licenziamento), oppure, se protesta, viene licenziato e sostituito e vede sfumare il valore futuro per lui del suo investimento.

Vorrei fare osservare che qui non c’è nessuna discriminazione politica o sindacale, c’è semplicemente un problema di giustizia economica (che ha evidenti effetti sull’efficienza dell’impresa).

3)  C’è un altro aspetto che deve esser considerato e che è parallelo al tema degli investimenti specifici, ma distinto. È quello delle risorse umane e cognitive complementari e con un buon livello di co-essenzialità (cioè per mettere a frutto l’investimento in una risorsa cognitiva ne occorre un’altra) talché la combinazione di queste risorse crea un surplus che verrebbe meno, se mancasse una di esse. Questo evidenza la natura cooperativa e congiunta della funzione di produzione, tipica dei team, anche senza la dimensione intertemporale dell’investimento (paradossalmente per mettere a frutto l’investimento di A può essere richiesta la prestazione di B anche se B non fa alcun investimento).

Ovviamente si potrebbe dire (specie nel caso del lavoro di team) che un imprenditore che sacrifichi una risorsa umana complementare e coessenziale la quale contribuisce, congiuntamente ad altre, ad apportare un surplus, sarebbe irrazionale.

Questo è vero, ma è una garanzia molto debole. Noi sappiamo che la razionalità umana è limitata e le interazioni umane sono piene di “dilemmi del prigioniero” (defezione dalla cooperazione pur con esiti subottimali). Inoltre l’incentivo a espropriare una risorsa utile alla cooperazione (contando sula sua passività) può esser maggiore in presenza di asimmetrie di potere e informazione (come nel trust game) soprattutto se l’investimento finanziario è “short-termist”, e quindi bada al beneficio di breve periodo piuttosto che alla ripetizione delle interazioni nel lungo periodo. A maggior ragione se la questione può essere tacitata con un indennizzo extragiudiziale, che passa sotto silenzio, in modo da minimizzare gli effetti di reputazione negativi derivanti da tali condotte abusive (la reputazione sarebbe il meccanismo endogeno che tende a cancellare i comportamenti opportunisti nel lungo periodo, ma se non perdo la faccia?). Insomma: anche se in prospettiva la torta potrebbe diventare più grande, rinunciare al comportamento opportunistico di espropriare l’utilità attesa del lavoratore può essere un sacrificio rispetto all’alternativa più rispettosa, almeno nell’immediato.

In ultima istanza, è vero che c’è una perdita di efficienza oltre che di equità, ma nulla garantisce che l’imprenditore (in mancanza di una norma di diritto del lavoro o di una forma di governance che protegga gli investimenti specifici e le complementarietà delle risorse) sia in grado di prevenire questa irrazionalità che, almeno nel breve periodo (e non è detto ce ne sia uno nel lungo), lo avvantaggia.

Possiamo dire che la tendenziale deindustrializzazione di paesi come USA e UK rispetto a Germania e Giappone, e il tendenziale calo della qualità dell’occupazione industriale in Italia (salari più bassi, qualifiche più basse, tipologia di produzioni più basse) riflettono esattamente gli effetti del venir progressivamente meno della protezione degli investimenti specifici e della complementarietà tra le risorse umane e cognitive degli occupati?

Questo punto introduce al seguente, circa la possibilità che l’impresa provveda da sé ad assicurare gli investimenti specifici del lavoratore.

  1. che cosa impedirebbe che la datrice di lavoro, al fine di favorire l’investimento del dipendente su proprie capacità firm-specific, fosse essa stessa a pattuire con lui una limitazione della propria facoltà di recesso aggiuntiva rispetto a quella imposta inderogabilmente dalla legge (cosa assai frequente nelle grandi imprese statunitensi)?

La mia fiducia che l’impresa voglia prevenire l’opportunismo attraverso un accordo contrattuale ex ante è molto scarsa per le ragioni suddette. Ma non voglio limitare la risposta a quanto già detto.

Nello specifico, conosco esempi analoghi alla prassi cui fai riferimento nelle imprese di servizi professionali (grandi società di consulenza come Accenture, PWC, Deloitte etc.). L’impresa si impegna a pagare un bonus di uscita al lavoratore, che significa che il suo apporto al valore dell’impresa non sarà perso se dovesse andarsene (e quindi gli conviene investire). A condizione, però, che egli non porti via i frutti degli investimenti del suo capitale umano (fatti presso l’azienda – ad esempio il portafoglio clienti) e non li conferisca a un’altra impresa. Cioè si tratta di accordi di non concorrenza, volti a limitare la mobilità del collaboratore che si può portare via una parte della clientela, ma che non può essere solo minacciato di non farlo perché ovviamente quella clientela è frutto delle sue relazioni umane e dei suoi investimenti specifici. Perciò gli si offre un bonus di uscita che può essere compromesso se va a lavorare presso un concorrente.

Se questi accordi rientrano nel tuo esempio allora è chiaro che c’è un problema. Se l’investimento in capitale umano è specifico all’impresa, significa che andando via io non posso portarmelo dietro, quindi il mio valore fuori è minore che se resto. Questi accordi così pare che si applichino quando la specificità all’impresa esiste (nel senso che l’investimento genera un benefico futuro che non può essere mantenuto sostituendo la persona con un’altra), ma al contempo l’effetto lock-in per il dipendente non sia molto elevato, perché lui potrebbe portarsi sia un pezzo degli asset dell’impresa (la clientela). Gli accordi anzi cercano perciò di rafforzare il lock-in effect, e quindi non si applichino al caso in cui il lock-in c’è già.

Ho comunque un argomento generale contro la soluzione da te suggerita. L’impresa dovrebbe fare un contratto completo che dice che se tu farai certi investimenti che hanno un certo valore per l’impresa allora il tuo licenziamento sarà indennizzato con un “indennizzo” superiore a X.

Così posto, come vedi, l’argomento è paradossale perché il punto è che viviamo in un mondo di contratti incompleti (cioè in cui non si possono contrattualizzare con certezza gli investimenti specifici futuri) e questo apre la strada a comportamenti opportunistici, se ex post (dopo la firma del contratto e durante la relazione) si rivela la possibilità di investimenti specifici. Il contratto non può essere completato e quindi conta molto il potere di contrattazione ex post e l’autorità che fissa lo status quo della ricontrattazione, e se essa è limitata da qualche contropotere.

Ecco perché il problema è come condividere i poteri e i diritti ex post, o rendere bilanciati tali diritti. La mia obiezione è che l’assetto attuale rende totalmente sbilanciati i poteri e diritti ex post. Una soluzione alternativa sarebbe che l’autorità dell’imprenditore fosse limitata da diritti che il lavoratore può esercitare ex post (cioè al momento della ricontrattazione che può portare all’esclusione) attraverso una forma di co-determinazione, che sia molto stringente (come in Germania) proprio nei casi di licenziamento per ristrutturazione dell’impresa. Il più grande errore che il governo ha fatto (e chi ha sostenuto questa riforma con lui) è aver riaperto la questione dei licenziamenti senza cogliere l’opportunità di mettere in capo alle forme di partecipazione interna una parte dei poteri che si toglievano ai giudici.

In conclusione la soluzione del contratto autonomamente offerto dall’impresa che aggrava l’indennizzo in caso di licenziamento non funziona in generale perché se funzionasse i contratti sarebbero completi, cioè staremmo parlando non di imprese ma di entità contrattuali indipendenti; mentre quello che conta nei contratti incompleti è la ricontrattazione ex post, il cui status quo è fissato dall’esercizio dell’autorità e del diritto di proprietà, sia pur vincolata da principi, cultura d’impresa, codici etici ecc.

Per proseguire nello spirito del tuo esempio, piuttosto, farei riferimento ai casi di governance di cui parla Anna Grandori nel caso di start-up tecnologiche in cui i diritti di controllo e di decisione, di solito associati alla proprietà e al capitale, sono distribuiti invece ai lavoratori (ingegneri) che apportano capitale cognitivo all’impresa. Queste sono soluzioni endogene che dimostrano la cogenza dell’argomento del punto precedente in casi però di imprese piccole e omogenee dal punto di vista della cultura e molto rivolte all’innovazione di prodotto. Insomma è alla governance che si deve guardare.

  1. perché consideri insufficiente l’entità del severance cost imposto dal d.lgs. n. 23/2015 in forma di indennizzo dovuto per il caso di licenziamento ingiustificato (cui si aggiunge il contributo dovuto all’Inps anche in caso di licenziamento per motivo oggettivo giustificato, variabile con l’anzianità di servizio), quando in altri grandi Paesi europei (Spagna, RFT, UK) il severance cost imposto per legge (per il caso di licenziamento ingiustificato) è mediamente inferiore?
  2. se il problema è costituito dall’entità – in ipotesi troppo esigua – dell’indennizzo previsto dalla nostra nuova legge, considereresti appropriato un congruo aumento di quell’entità, o pensi invece che sia appropriato soltanto il ripristino della sanzione reintegratoria?

In realtà io non credo che l’indennizzo previsto dalla riforma sia inadeguato in assoluto. In certi casi potrà essere adeguato, in altri sarà insufficiente, in altri ancora sarà eccessivo. Il punto che io contesto è rimettere a un meccanismo prefissato, stabilito dalla legge, quello che prima in effetti veniva lasciato alle negoziazione tra le parti. Perché, come tu sai meglio di me, i casi di decisione di reintegro erano ormai pochissimi, specie quando si fosse trattato di violazioni del giustificato motivo economico, poiché le parti si mettevano d’accordo prima, accordandosi sulla buonuscita. La possibilità/minaccia che il giudice ordinasse il reintegro semplicemente rendeva lo status quo della contrattazione sulla buonuscita (cioè il caso in cui le parti non si fossero messe d’accordo, e sarebbero andate al licenziamento con eventuale ricorso al giudice) meno sbilanciato a danno del lavoratore (che ovviamente di per sé e per la forza dell’argomento basato sul lock-in, è parte debole, cioè incline ad accettare condizioni al ribasso pur di non esser licenziato). Con probabilità positiva la minaccia di licenziamento diventava nulla, e il suo valore atteso quindi ridotto.

Chi può avere più informazione delle parti circa il valore degli investimenti specifici (e altro) che rischiano di essere espropriati? Certo non il legislatore che fissa un livello d’indennizzo a priori. La conseguenza di ciò è che tutte le volte che l’investimento specifico del lavoratore è elevato e quindi il saldo tra appropriazione e indennizzo è positivo, l’opportunismo avrà luogo. Cioè proprio nei casi in cui il danno è rilevante!

In sostanza, il mio punto è che aver tolto il potere del reintegro al giudice e aver fissato una risarcimento fisso per legge, toglie spazio alla possibilità che l’accordo sia trovato dalle parti, che sono le meglio informate per stabilire un accordo che rifletta veramente il danno arrecato al lavoratore e il vantaggio appropriato dal datore di lavoro. Il che veniva garantito dal potere di reintegro, cioè un correttivo dello status quo della ricontrattazione ex post, con possibilità che il potere negoziale ex post associato alla posizione di autorità dell’imprenditore fosse rovesciato dal giudice. Questa norma in sostanza elideva il potere negoziale ex post, sorretto dalla posizione di autorità, con l’intervento di una terza parte come extrema ratio. Così le parti si mettevano d’accordo, verosimilmente in modo più corrispondente ai valori in gioco.

Di certo il giudice non è ben informato sugli eventi imprevisti o non osservabili, mentre le parti coinvolte sono informate (se si tratta solo di non osservabilità di terza parte – vi possono essere anche casi di “vaghezza” ex post). Ma meno che mai informato è a priori il legislatore (o l’imprenditore ex ante, come nel caso precedentemente discusso) circa l’indennizzo adeguato. Mentre il legislatore dovrebbe fissare norme generali e di carattere astratto (Hayekiane!!) e distribuire diritti e poteri, ma non pretendere di fare una media di tutti i valori in gioco in ciascuna controversia di licenziamento. Lo scopo della legge sarebbe stato creare una distribuzione di poteri che scoraggiasse l’opportunismo: in questo caso del datore di lavoro.

Se l’idea fosse stata avere una “regola di default” che riempie la falla del contratto incompleto, questa poteva benissimo essere lasciata al giudice oppure al codice etico dell’impresa nel quale si sarebbero dovuti specificare termini equi di trattamento nel caso della ristrutturazione aziendale (in base al quale si sarebbe potuto ricorrere in giudizio in caso di mancato rispetto).

Io non sto quindi dicendo che l’assetto precedente fosse il più efficiente. Credo invece sarebbe stato più efficiente e più equo bilanciare i poteri tra le parti con una forma di co-decisione (legalmente vincolante) sulla materia (lasciando lo stato della materia relativa ai poteri del giudice come era dopo la riforma Fornero), ma questo non è stato fatto. Il risultato è secondo me il massimo sbilanciamento, che non promette protezione degli investimenti in capitale umano dei lavoratori e della complementarietà delle risorse cognitive, proprio quando questi fenomeni sono importanti. Ecco perché secondo me tutto questo, oltre che violare (anzi proprio perché viola) l’equità, spinge alla lunga al declino industriale del paese.

B) La tua argomentazione mi sembra compatibile con la costruzione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento in termini di “perdita attesa dal datore di lavoro, conseguente alla prosecuzione del rapporto di lavoro, superiore a una determinata soglia”. A questo proposito ti chiedo: è così, o invece fai riferimento a una nozione di g.m.o. diversa?

Non ho problemi con questa definizione se non la sua genericità; mi domando: perdita rispetto a che? Èchiaro che io sto parlando di casi in cui la perdita non c’è, anzi c’è l’appropriazione di un valore aggiuntivo che dovrebbe essere condiviso ma che per effetto del licenziamento viene in parte espropriato (e in parte perso, specie se la minaccia è avvertita ex ante). Ma anche in questo caso si potrebbe parlare di perdita attesa rispetto a un obiettivo o un target. Se, ad esempio, la finanziaria che controlla l’impresa ha stabilito che a meno di un margine netto del 15% l’investimento non è abbastanza interessate da esser proseguito, allora il delta rispetto al target è perdita attesa?

Inoltre anche se parlassimo di un’impresa che effettivamente non ha un margine operativo netto positivo (ma è ovvio che singoli licenziamenti per g.m.o. non implicano questo caso….), il problema è come si distribuiscono i costi e quindi i rischi. Se il rischio è trasferito sui lavoratori allora anche la proprietà dovrebbe passare a loro (non era il risk bearing la giustificazione del controllo da parte del capitale?). Insomma tutto sta a capire come vogliamo interpretare questa “perdita attesa” perché in ultima istanza spesso c’è un valore (o dei costi) da distribuire tra le parti.

  1. se è così, non pensi che sia opportuno rendere conoscibile quella soglia ex ante, e non affidarne la fissazione al giudice ex post, caso per caso?

Qui scusami non ti seguo: dove la legge fissa la soglia di perdita attesa da parte dell’imprenditore?

Ciò che ho prima detto mi pare lo renda molto difficile, a meno di non stabilire un principio astratto e generale, interpretabile da un giudice, circa l’equa ripartizione del beneficio e dei costi eventuali degli investimenti specifici complementari (che possono anche non andare a buon fine): questo sarebbe un bel principio, non solo di diritto del lavoro, che vedrei collocato in una norma di diritto societario, e che avrebbe effetto sul diritto del lavoro nello stabilire che se l’equa ripartizione di costi tra gli stakeholder è superata allora c’è il giustificato motivo del licenziamento, oppure c’è l’obbligo di non effettuare licenziamenti a meno di un accordo tra le parti sugli indennizzi, o infine addirittura l’obbligo di aumento salariale nella forma ad es. del premio di produzione.

  1. se il g.m.o. è costituito, in sostanza, da una perdita attesa come conseguenza della prosecuzione del singolo rapporto di lavoro, come è possibile imporre al datore di lavoro l’onere della sua dimostrazione in giudizio, dal momento che gli eventi futuri non sono suscettibili di prova né testimoniale né documentale?

La risposta ai tre punti precedenti collegati è implicita nella mia risposta finale al punto A. Secondo me è anzi un po’ paradossale che tu faccia intervenire qui in questo modo l’argomento delle unforeseen contingencies. Ovviamente le contingenze impreviste sono impossibili da prevedere e, in parte, difficili da dimostrare ex post (vagueness of commitments). Ma in effetti le parti ex post sono più informate del giudice e quindi possono rivelare se è accaduto un evento che ha ridotto il valore dell’impresa e chi ne porti la responsabilità. Il problema è che in un contradditorio il giudice è incerto su a chi dare ragione, il giudice non osserva tale contingenza, ed ecco perché sarebbe meglio che fossero le parti stesse a mettersi d’accordo. Ma dovrebbero farlo a partire da un status quo non sbilanciato, come lo è necessariamente nel caso del rapporto di lavoro tra un’impresa e un singolo lavoratore (per l’impresa si tratta solo di una frazione del costo del lavoro totale, mentre per il lavoratore si tratta dell’intero valore del suo capitale umano, quindi il lavoratore è per definizione più avverso al rischio e incline ad accettare condizioni sfavorevoli). Ecco perché il rischio che il giudice decida il reintegro contro l’impresa controbilancia lo squilibrio dello status quo ex post della ricontrattazione tra impresa e lavoratore (in cui l’impresa pretende dal lavoratore la rinuncia alla sue pretese pena la minaccia del licenziamento…). Quel rischio crea un nuovo status quo del gioco di contrattazione ex post, in cui l’impresa offre al lavoratore un risarcimento in vista della rinuncia a ricorrere al giudice… le parti sanno quanto è il valore in gioco degli investimenti in capitale umano e quanto sia debole la pretesa circa “la perdita attesa” o “la mancanza di una soluzione organizzativa alterativa al licenziamento” ecc.

Ciò che francamente non capisco è come sia possibile affermare che siccome le parti sono ex post più informate del giudice, che ha perciò difficoltà a far valere il contratto, allora il legislatore sarebbe più informato di tutti e tre, nel fissare un livello ottimo di indennizzo a priori. Insisto che la legge dovrebbe fissare principi astratti e generali o allocare diritti e poteri alle parti, non pretendere di fare i conti al posto delle parti. In ultima istanza la cosa migliore è che le parti si debbano mettere d’accordo sui licenziamenti, e che nessuno abbia il potere ultimo e discrezionale di farli, a meno di doversi mettere d’accordo necessariamente sui termini di indennizzo (il che equivale a dire che non può decidere discrezionalmente di fare il licenziamento). Ovviamente qui io penso come “parte” non il singolo lavoratore, ma un comitato aziendale o di stabilimento di rappresentanza dei dipendenti, con poteri legali di codeterminazione.

  1. se le cose stanno così, non è meglio che l’attività inquirente del giudice si concentri sui motivi illeciti (discriminazioni, rappresaglie, ecc.) e sulle mancanze eventualmente imputate alla persona licenziata, lasciando che la funzione di “filtro” delle scelte economico-organizzative dell’imprenditore sia svolta automaticamente dal severance cost?

Siccome, come ho cercato di argomentare, per me le cose non stanno così, la conseguenza è che non condivido questa conclusione.

In riferimento a questa seconda batteria di domande ti segnalo l’intervento che ho pubblicato la settimana scorsa sulla questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma il 26 luglio scorso sul decreto legislativo n. 23/2015, dove il mio ragionamento complessivo è esposto e argomentato un po’ più in dettaglio.

Ti ringrazio del rinvio al testo della decisione del giudice romano di sollevare la questione di costituzionalità sulle norme relative al licenziamento nel Jobs Act e il tuo commento di Luglio. Devo dire che il ritardo con cui ti rispondo è dovuto al fatto che fin dapprincipio avevo pesato di dovermi prendere tempo per leggere questi due testi, e ora sono contento di averlo fatto. Sono estremamente interessanti e ti ringrazio dell’opportunità di leggerli. Certamente avremo tempo di discuterne meglio alla SIDE sugli argomenti sollevati, ma da subito osservo che secondo me sottovaluti due punti che emergono dalla decisione del giudice, e in aggiunta vi è un punto teorico di analisi economica del diritto del lavoro che andrebbe approfondito.

  1. in primo luogo, sarà certamente vero che il giudice sopravvaluta l’ipotesi dell’induzione all’opportunismo a causa della sgravio contributivo per 36 mensilità. Lo sgravio ottenuto nel caso in questione come tu dici è inferiore. Ma resta il fatto che lo sgravio copre due terzi del risarcimento, che perciò diventa assai poco oneroso per l’impresa (inoltre dice il giudice che se l’impresa si fosse presentata in giudizio il risarcimento avrebbe potuto essere addirittura inferiore allo sgravio contributivo, cioè 2 mesi anziché 4, inferiore allo sgravio per 2,7 da te calcolato). Mi sembra chiaro che la capacità dissuasiva del risarcimento è assai debole, se non nulla, in questa situazione. In qualche modo anzi lo sgravio degli oneri fiscali, coprendo in parte sostanziale l’onere del risarcimento, è contraddittoria rispetto alla sua capacità dissuasiva.
  1. Naturalmente, tu qui argomenti che il risarcimento non serve a dissuadere dal licenziamento ingiusto, ma solo a svolgere una funzione assicurativa nei confronti dei rischi del lavoratore. E questo secondo te sarebbe il punto condiviso dall’analisi economica del diritto del lavoro. Non sono d’accordo. L’argomento sul valore assicurativo del risarcimento volutamente evita il punto sollevato dal giudice sull’assenza di capacità deterrente che il risarcimento prefissato dovrebbe avere nei confronti del licenziamento ingiusto per motivi economici. Ma qui tu eviti di rilevare il ruolo che oramai i punitive damages hanno acquisito nella recente analisi economica del dritto, e delle liability rule in particolare, alla luce della svolta behavioral largamente riconosciuta nell’ultimo lavoro di Guido Calabresi (e ampiamente preparata dagli studi sperimentali di Cass Sunstein et al. sulle decisioni delle giurie). Vi è inoltre la recentissima decisione della Cassazione, che riconosce come legittimo l’uso sanzionatorio (analogo ai punitive damages) anche nell’ordinamento italiano, e cita un elenco di casi in cui il risarcimento può avere una funzione sanzionatoria, citando tra questi esempi di diritto del lavoro, che lo stesso giudice romano riporta.

Come argomenta Calabresi, i punitive damages possono riflettere una preferenza sociale o (io direi) una preferenza di conformità alla norma costituzionale, che dovrebbe essere tenuta in considerazione da chi vuole raggiungere una soluzione di ottimo paretiano (Calabresi) o che ha a cura i meccanismi endogeni che permettono l’osservanza dell’ordinamento costituzionale (“sense of justice” à la Rawls). E che la giuria e il giudice possono render efficaci con l’imporre risarcimenti sanzionatori in grado dissuadere dal compiere certe violazioni. Ciò in coerenza con l’analisi dei diritti che permette l’uso accessorio delle liability rules anche come modo per far valere i valori e preferenze sociali soggiacenti alle inalienability rules o le property rules (sanzioni sopra o sotto il danno monetario, volte a permettere o impedire certe conseguenze sociali, che sono riflesse nelle preferenze sociali, oppure impedire del tutto trasferimenti di beni che riteniamo “inalienabili”).

In altri termini io posso usare il risarcimento non solo per immunizzare da una perdita economica subita, ma per ottenere effetti di deterrenza completa contro la violazione di un principio di giustizia che riteniamo essenziale nell’ordinamento. Uno smaccato comportamento opportunistico, che aggira la legge – la quale consente all’impresa di licenziare il lavoratore senza alcuna evidenza di g.mo economico, pena il risarcimento – può essere sanzionato dal giudice allo scopo di far valere un principio di giustizia economica, cioè il principio soggiacente alla nozione di “ingiustificato motivo”.

Proprio l’uso del risarcimento (inclusi punitive damages) è da Calabresi visto come più flessibile modalità per far valere una scelta collettiva Pareto Ottima, cioè un obbiettivo di politica pubblica, che sarebbe attuato in modo troppo rozzo e grossolano se introdotto con un diretto provvedimento regolativo. In sostanza meglio mettere il tribunale in posizione di sanzionare con “punitive damages”, piuttosto che intervenire con una norma assolutamente rigida che non si adatta ai casi concreti. Mi pare un perfetto esempio di ciò che accade con il Jobs Act e con la soppressione di ogni discrezionalità da parte del giudice. E in tal caso i richiami ai principi costituzionali della “Repubblica fondata sul lavoro” e del “diritto al lavoro” appaiono perfettamente congruenti.

Nel caso concreto si potrebbe dire che l’impresa (che non si è neppure presentata in giudizio avvalorando la sfacciata intenzione di licenziare anche in assenza di giustificato motivo, essendo certa che la sanzione si sarebbe ridotta a un costo in buona parte coperto dall’incentivo fiscale) manifesta un disprezzo per la preferenza sociale dell’osservanza della legge in materia di principi di giustizia sociale affermati dall’ordinamento. Ciò potrebbe suggerire al giudice una sanzione nella forma di un punitive damage, così da scoraggiare analoghi comportamenti da parte di altri soggetti o dello stesso soggetto.

Il punto è che i punitive damages non sono affatto fuori dal perimetro dell’analisi economica, la quale non è affatto solo quella di Kaplow e Shavell, ma anche quella sostenuta dall’approccio di Behavioral Law and Economics, che tipicamente mette in luce i limiti della razionalità (quindi del calcolo ex ante rigido dell’indennizzo), ma anche il fatto che le preferenze rilevanti non sono solo quelle simulabili con la massimizzazione della ricchezza di parti auto interessate. E perciò richiede flessibilità da parte del giudice.

Che per altro quell’indennizzo non possa esser adeguato a tutti i casi è ovvio, se si ricorre al ragionamento sulle unforeseen contingiencies cui tu stesso fai riferimento. Se il licenziamento interviene per impedire il riconoscimento ex post del valore di un investimento specifico del lavoratore (con un avanzamento di carriera) è ovvio che un indennizzo parametrato sul salario pregresso del dipendente non può rappresentare il valore sottratto al lavoratore stesso, perché quel salario è esattamente quello che non conteneva il riconoscimento del valore del contributo del lavoratore basato sull’investimento.

In sostanza l’eliminazione della discrezionalità del giudice impedisce l’esercizio della funzione dissuasiva e sanzionatoria del risarcimento che oggi è riconosciuta come un uso possibile della “liability”. La possibilità di esercitare questa funzione invece dovrebbe esser garantita poiché la fissazione a priori di un risarcimento parametrato sullo stipendio pregresso del dipendente tipicamente apre la strada a violazioni di un principio di giustizia economica, quando siano at stake gli effetti di investimenti specifici del lavoratore espropriati dal datore di lavoro. Per evitare questi aggiramenti opportunistici della norme, bisognerebbe restituire al giudice la possibilità di adattare il risarcimento in modo da sanzionare l’intento di avvalersi della norma per aggirare lo scopo stesso della legge.

Non mette in conto qui il fatto che il giudice non è in condizione di stimare l’esatto ammontare di questo valore (che è informazione riservata detenuta dalle parti ma difficilmente dimostrabile in giudizio). Ciò che il giudice sanziona è la violazione del principio di giustizia, qualora abbia evidenza dell’intento opportunistico della parte in questione (vedere l’analisi di Henry Smith delle norme di equità in relazione alla common law).

  1. Osservo solo molto velocemente che l’ipotesi di passare da una protezione basata su una property rule ad una basata su una liability rule meriterebbe di essere approfondita alla luce delle suddette considerazioni e di altre. Se tu accettassi che l’analisi economica del diritto non è solo quella strettamente neoclassica professata da Posner, ma ad esempio quella che possiamo basare sull’economia del benessere nell’approccio delle capabilities di Sen, che io cito alla fine del mio contributo, vedresti aprirsi tutto un nuovo orizzonte di soluzioni. Ammettiamo che il licenziamento senza giustificato motivo violi una capability (libertà) base del lavoratore, che rende impossibile un funzionamento fondamentale. Perché il risarcimento prefissato dovrebbe essere una soluzione migliore di una property rule? Probabilmente una condivisione del diritto di decisione sulla permanenza del posti di lavoro sarebbe un modo più appropriato di proteggere la capability del lavoratore.

È questa una property rule? Non esattamente. Infatti io non dico che il lavoratore debba avere un diritto di escludere altri dal decidere sulla persistenza del posto di lavoro. Ma di certo ci sarebbe l’effetto inverso di togliere dalle mani dell’impresa il “terribile diritto” di scegliere a piacimento che uso fare degli asset, escludendo at will ogni altro agente. Stiamo parlando quindi di combinazioni “miste” di diritti, che devono proteggere anche il contenuto di libertà che è implicito nella nozione di capacità.

Francamente l’analisi economica di Chicago mi pare un po’ invecchiata rispetto agli sviluppi contemporanei dell’economia normativa.

Ciò detto mi scuso per la tremenda prolissità. Ma così abbiamo squadernato molti temi che potremo discutere a Roma alla Side. Spero che apprezzerai, se non la lunghezza, almeno il fatto che ho preso in sera considerazione i tuoi punti, non meno di quanto tu abbia preso in considerazione il mio saggio.

Cordialmente

Lorenzo

 

Pietro Ichino 427 settembre 2017

Caro Lorenzo, provo a replicare al tuo cospicuo e articolato messaggio di lunedì scorso (grazie di avere dedicato tanto tempo a rispondere alle mie note!).

 

  1. Il tuo argomento (come lo ho capito)

Mi sembra che tutto il tuo ragionamento sia imperniato sul concetto di “espropriazione indebita del frutto dell’investimento specifico del lavoratore nel proprio capitale umano”. Se ho ben capito, il tuo argomento può essere sintetizzato così:

“l’investimento specifico che un lavoratore dipendente fa sul proprio capitale umano, in relazione all’azienda in cui lavora, produce un valore aggiuntivo che dovrebbe essere ripartito tra il lavoratore stesso e l’imprenditore; valore aggiuntivo che invece, con il licenziamento, può essere indebitamente espropriato dall’imprenditore, se non gli si impedisce di recedere dal rapporto senza giustificato motivo; l’impedimento più adatto a questo scopo è una property rule del tipo di quella risultante dall’apparato sanzionatorio dell’articolo 18, combinato con un alto tasso di discrezionalità del giudice competente”.

2. Il punto di dissenso

Ti domando: perché l’imprenditore, per “appropriarsi” di questo valore aggiuntivo, dovrebbe licenziare il dipendente? Per appropriarsene, l’imprenditore deve semmai consentire che il rapporto di lavoro prosegua: altrimenti lo perde anche lui. Se licenzia il lavoratore, l’imprenditore si priva di quel valore aggiuntivo, perché deve assumere un altro dipendente che non ha ancora fatto lo stesso investimento specifico; e quest’ultimo, oltretutto, sarà disincentivato dal compiere quell’investimento proprio dal comportamento precedente dello stesso imprenditore. Dunque proprio l’esistenza di un investimento specifico dovrebbe costituire, semmai, una fonte di sicurezza del posto di lavoro, stante la perdita che l’imprenditore subisce con la cessazione del rapporto.

Leggendo e rileggendo quel che mi hai scritto, non riesco a liberarmi dall’impressione che tutta la tua proposta normativa sia diretta a “proteggere l’impresa dagli eccessi di short-termism dell’imprenditore”. Ma se le cose stessero così davvero, non basterebbe il mercato a far fuori gli imprenditori short-termist? E perché la produttività oraria del lavoro italiano sarebbe da un ventennio almeno notevolmente inferiore rispetto a quella di Paesi nei quali non è prevista la sanzione reintegratoria per punire il licenziamento ingiustificato?

Viceversa mi chiedo e ti chiedo: nel tuo ordine di idee, se il rapporto prosegue – cioè l’imprenditore non licenzia – come dovrebbe avvenire l’equa ripartizione del valore aggiuntivo tra imprenditore e lavoratore? Quale strumento avrebbe in mano il lavoratore per esigere una ripartizione equa?

3. Un punto di parziale (ma molto circoscritto) consenso

3.1. Il tuo argomento può applicarsi – se lo ho capito bene – soltanto nella situazione nella quale la retribuzione sia stata contrattualmente strutturata, in previsione dell’investimento specifico del lavoratore, in modo che per un certo periodo essa si collochi al di sotto del livello corrispondente alla produttività iniziale più il valore aggiunto dall’investimento, e solo in un periodo successivo essa si collochi al di sopra di quel livello (un meccanismo del tipo di quello fondato sugli scatti di anzianità): in questo caso, infatti, l’imprenditore che licenzia il lavoratore prima che il conto si sia pareggiato, al termine della vita di lavoro prevista, impedisce al lavoratore di recuperare il deficit retributivo iniziale. [Questa considerazione può fornire – noto per inciso – una giustificazione della cessazione della protezione contro il licenziamento al momento in cui matura la pensione: a quel punto, infatti, potrebbe essere il lavoratore a fruire di un beneficio indebito con la prosecuzione oltre il limite di un rapporto con retribuzione superiore rispetto alla produttività.] Ma se questo è il problema, per risolverlo basta abolire gli scatti di anzianità (i quali non sono comunque previsti dalla legge: la loro fonte è soltanto contrattuale): cosa che, del resto, sta già diffusamente e molto opportunamente accadendo nel nostro sistema delle relazioni industriali.

Oppure potrebbe essere il sindacato, nel momento in cui negozia un contratto collettivo che preveda gli scatti di anzianità, a pretendere che questa clausola si accompagni con una clausola di protezione contro il licenziamento ante tempus ingiustificato.

3.2. In ogni caso l’argomento fondato sugli scatti di anzianità può essere portato a sostegno soltanto di una sanzione, contro il licenziamento ingiustificato, di carattere indennitario (di entità pari alle differenze retributive future perdute dal lavoratore), mentre la sanzione reintegratoria appare del tutto incongrua.

3.3. L’articolo 18, comunque, si applicava a tutti i rapporti di lavoro nelle imprese sopra i 15 dipendenti, anche quando non erano previsti scatti di anzianità né altre dinamiche retributive automatiche, e anche quando l’assunzione avveniva nella seconda parte della vita lavorativa della persona interessata.

4. Inessenzialità della job property rispetto alla nozione moderna di impresa

Perché dici che l’impresa, secondo la visione proposta da Williamson, ha essenzialmente la funzione di “impedire i comportamenti opportunistici”, come quello dell’imprenditore che licenzia indebitamente il dipendente? Abbiamo conosciuto un grande fiorire delle imprese moderne anche in ordinamenti nei quali la facoltà di recesso del datore di lavoro non era in alcun modo limitata.

Se la tua tesi fosse fondata, non si spiegherebbe perché il mondo sia pieno di Paesi nei quali non è prevista la sanzione reintegratoria per il licenziamento ingiustificato.

5. Sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento

Qui ho l’impressione che ci sia un misunderstanding. Ma è troppo complicato spiegare la cosa in questo messaggio che è già fin troppo lungo. Per ora se riusciamo a chiarirci le idee sui primi quattro punti è più che sufficiente. Lascerei quest’altra questione a una seconda fase di questo per me utilissimo dialogo.

* *  *

Tutto questo te lo scrivo in forma assertiva o in forma di domanda apparentemente retorica; ma solo per semplicità: in realtà il dubbio regna sempre sovrano su tutto. Un cordialissimo saluto

Pietro

 

Lorenzo Sacconi 328 settembre 2017

Caro Pietro, reagisco di getto. Cercherò di essere più preciso quando discuteremo a Roma.

Se quello che tu dici fosse vero tutta l’economia neoistituzionalista basta sul concetto di opportunismo sarebbe senza senso, nessuno farebbe l’opportunista perché non ci sarebbe modo di fare l’opportunista senza in parte danneggiare anche se stessi. Non esisterebbero i dilemmi del prigioniero. Né le istituzioni per evitarli. Il mondo sarebbe un bel mercato di concorrenza perfetta e… le imprese NON esiterebbero, perché – almeno da Coase – sappiamo che le imprese sono istituzioni localmente alternative al mercato.

Ovviamente non è così. Siccome però la teoria economica non è un dogma provo con qualche esempio.

Ammettiamo che io sia un ricercatore con un team in una impresa farmaceutica, arrivato molto vicino alla registrazione di un principio attivo (dopo anni di lavoro idiosincratico) e pretenda un passaggio di carriera e un riconoscimento economico (stipendio). L’impresa può pensare che oramai l’ultimo tratto si può fare senza di me. Mi chiede di rinunciare. Io mi impunto. La minaccia è il licenziamento. Io posso abbassare la testa oppure insistere……

Perché dovrebbe farlo? Perché io pretendo una parte nella distribuzione del valore e una posizione di rilievo gerarchico che è scarsa e ambita anche da altri nel management dell’impresa.

Se poi rompo, mi dà quello “straccio” di risarcimento del Jobs Act – molto meno del valore della mia ricerca se portata a termine. In realtà sarebbe meglio una condivisione di diritti (è già è così in molte imprese), ma il punto è che io non ho ancora la registrazione. Qui c’è spazio per un comportamento opportunista, vengo buttato fuori prima che io possa far valere la mia authorship (e in ogni caso essa non è un diritto sullo sfruttamento del brevetto…).

Il conflitto può essere vantaggioso per l’impresa perché oramai può portare a termine la registrazione con qualche ricercatore meno ambizioso. Oppure può esser razionale per mantenere una reputazione di essere “dura”.

Ma, ammettiamo pure che sia irrazionale nel lungo periodo, come sono tutte le soluzioni di equilibrio di giochi che hanno ispirato lo studio delle istituzioni, dal dilemma del prigioniero, al trust game e in generale l’economia dei costi di transazione. Non di meno nell’immediato offre un vantaggio.

Ovvio che un soggetto (lavoratore ecc.) che preveda il trattamento iniquo delle sue aspettative, frutto del suo investimento, non farebbe l’investimento…, ma non sempre questo è chiaro a priori. Perché viviamo in un mondo di razionalità limitata e informazione incompleta. Vorrei che fosse chiaro che nel breve la soluzione dominante per l’impresa è o impormi di rinunciare alle pretese oppure licenziare (come nel DP).

Si può dire che l’impresa si gioca la sua reputazione con ricercatori di domani. Vero, ma il danno alla reputazione c’è solo se esiste un chiaro commitment cioè una norma a NON licenziare qualcuno se pretende che gli siano riconosciuti una parte dei benefici del lavoro poliennale svolto, quando vengono a maturazione.

La reputazione è in questione se, ad esempio, esistono dei principi e procedure di gestione della controversia che proteggono il lavoratore dal licenziamento per motivi economici, e se il lavoratore può dimostrare che le eque procedure, e i suoi diritti, sono stati violati. Allora l’impresa perde la faccia. Ma se c’è la possibilità di un licenziamento unilaterale con indennizzo fisso?

Talvolta poi l’investimento specifico può apportare un surplus potenziale o esser qualcosa che aveva valore aggiunto potenziale, ma l’imprenditore può avere una priorità temporale diversa, ad esempio non vuole sviluppare quella attività ma solo accumulare il brevetto. Ci sarebbe da guadagnare da quel progetto, ma al momento l’investitore ha una priorità alternativa (il brevetto comunque accresce il valore finanziario dell’impresa ma non produce salari). Tutti questi casi sono esempi in cui l’investimento specifico produce un possibile vantaggio differito, ma la decisione di sfruttarlo, e di ripartirne i frutti, nell’impresa capitalistica, non spetta al lavoratore ma al soggetto dotato di autorità. E lui la può usare in modo da “appropriarsi e non redistribuire” oppure appropriarsi nel senso di “accumulare” (quindi prendere un valore per sé), ma distruggere il valore dell’investimento specifico per il lavoratore, il quale ne trae giovamento solo se l’attività del progetto viene sviluppata attualmente. Chiaro che non sempre c’è un brevetto accumulabile, ma è altrettanto vero che l’opportunità di sviluppare il progetto fuori può essere scarsa (natura idiosincratica), cosicché abbandonare l’impresa e sviluppare il progetto all’esterno può essere irrealistico, inducendo a subire l’imposizione della controparte (sostenuta dalla minaccia del licenziamento).

Secondo me tu non vedi il punto perché pensi che le scelte dell’imprenditore siano sempre coincidenti con l’efficienza paretiana, il che non è vero. Lo short-termismo è solo un esempio, per altro non così banale in un modo dominato dalla finanza.

Ci possono anche essere altre ragioni.

Perché non consideri il mio esempio? X è un tecnico informatico che ha seguito creativamente il processo di informatizzazione dell’azienda Y, ha messo a punto l’“adattamento specifico” del sistema informativo alle caratteristiche dell’azienda, e chiede di diventare dirigente e una gratifica. Q è il “padrone” (così è chiaro che non parliamo di una impresa quotata) che vuole fare un investimento immobiliare con R che gli chiede di assumere il figlio neo informatico. Q chiede a X di istruire il giovane che poi diventerà il responsabile informatico. X si ribella, ma oramai il suo lavoro (investimento) lo ha fatto, il sistema informatico è attivo… lui vuole il riconoscimento per il valore differito del suo investimento. Ma la minaccia del licenziamento lo può indurre a sottomettersi, oppure litigare e rifiutarsi di istruire il giovanotto. In tal caso è licenziato e Q si appropria almeno parzialmente dell’investimento specifico di X (e può compiacere R).

Mi pare una storia verosimile. Il vantaggio privato di Q è assicurato ed egli comunque si appropria del frutto dell’investimento di X. La soluzione non è la più efficiente per la gestione dell’impresa. Forse nel lungo è indifferente. Ma nell’immediato c’è un costo di transazione. Di sicuro X ha fatto un investimento senza vederne i benefici. Se l’avesse previsto non lo avrebbe fatto. Ma tant’è. Ingiustizia è fatta.

Una soluzione insieme più efficiente ed equa sarebbe stata che Q non potesse facilmente licenziare X, e gli dovesse riconoscere il valore del suo investimento specifico.

Questa è la stessa storia che raccontano Williamson e Hart quando parlano di contratto incompleto tra due imprese collegate nella catena di fornitura (una fornisce i motori per le carrozzerie dell’atro) e spiegano così le ragioni dell’integrazione verticale tra le imprese. Solo che noi non siamo ideologicamente abituati ad applicare ai contratti di lavoro la stessa logica.

Per il resto il problema property/liability/inalienability rules è effettivamente complesso. Ma credo che sarebbe utile (come lo è stato a me) leggere il libro della Anderson, Private Government. Anche le considerazioni di giustizia sono rilevanti oltre a quelle di efficienza. E non c’è motivo di non considerare le preferenze sociali nel calcolo del benessere sociale complessivo. Sia per stabilire se il giudice possa sanzionare la violazione della giustizia con “punitive damages”, sia per stabilire invece se non sarebbe il caso che il diritto di proprietà fosse spacchettato e in parte condiviso (come succede con la mitbestimmung).

Lorenzo

 

pietro.ichino29 settembre 2017

Caro Lorenzo, leggendo il tuo ultimo messaggio capisco meglio il tuo ragionamento. I casi che proponi sono due:

  1. quello del ricercatore che arriva a compiere una scoperta o un’invenzione, o ci arriva vicino, e che viene licenziato dall’imprenditore in reazione a una sua richiesta di una divisione equa dei frutti del suo lavoro;
  2. quello del tecnico informatico che ridisegna la rete aziendale, e che quando il lavoro è compiuto o in prossimità del compimento, viene sostituito con il figlio dell’imprenditore, o di persona sua amica, per motivi che non hanno nulla a che vedere con la competenza.

A – In riferimento al primo caso, ti obietto questo: la legge prevede espressamente che l’invenzione o scoperta compiuta dalla persona che lavora in posizione dipendente, quando l’attività inventiva costituisca l’oggetto della prestazione contrattuale (cioè quando la persona sia pagata espressamente per svolgere quell’attività), non dia luogo a compenso aggiuntivo, salvo il diritto al riconoscimento della paternità dell’invenzione o scoperta. Si deve dunque supporre che nella determinazione originaria del compenso le parti abbiano tenuto conto della probabilità dell’invenzione o della scoperta, nonché del suo possibile valore economico. È vero che in un mercato monopsonistico il ricercatore dipendente può essere stato costretto ad accettare una retribuzione indebitamente ridotta; ma questa distorsione viene corretta normalmente mediante gli standard di trattamento fissati dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva. Nella struttura del rapporto contrattuale, comunque, il nostro ordinamento – al pari di tutti quelli dell’Occidente industrializzato – esclude il diritto del ricercatore dipendente a un compenso aggiuntivo per l’invenzione o scoperta sopravvenuta in corso di rapporto.

Questo diritto, invece, è previsto espressamente dalla stessa norma legislativa per il caso in cui l’invenzione o scoperta non sia frutto di attività inventiva specificamente dedotta in contratto, ma sia pur sempre compiuta mediante la (o comunque nel corso o in occasione della) attività lavorativa: in questo caso il lavoratore dipendente ha diritto per legge, oltre che al riconoscimento della paternità, anche a un equo compenso: se l’imprenditore lo licenziasse in risposta alla richiesta dell’equo compenso, si configurerebbe il licenziamento per rappresaglia (per il quale è sempre comminata la sanzione della nullità e della reintegrazione).

Comunque il caso del lavoratore che nello svolgimento della propria attività lavorativa compie una invenzione o una scoperta mi sembra francamente troppo raro per poter assurgere ad argomento fondante di un regime generale di job property. Nella maggior parte dei casi accade invece un’altra cosa: cioè che la produttività della prestazione del singolo lavoratore nell’impresa aumenta gradualmente nell’arco della prima parte della sua vita lavorativa, per poi stabilizzarsi, o addirittura incominciare a decrescere. Questo può costituire un buon motivo per adottare sistemi di compensazione che rendano la retribuzione più sensibili alla variazione di produttività della prestazione; ma questo è tutt’un altro discorso, che ha a che fare soltanto indirettamente con la disciplina dei licenziamenti.

B – Quanto al caso dell’imprenditore che sostituisce il lavoratore per motivi non attinenti alla sua competenza e produttività, ma solo per favorire un’altra persona, compromettendo in questo modo l’efficienza e la produttività dell’azienda, la sanzione più efficace è quella che gli infliggeranno i clienti dell’impresa, cui si aggiunge probabilmente un peggioramento del clima del sistema aziendale di relazioni industriali. D’altra parte, per ogni possibile caso di questo genere io ne vedo almeno dieci nei quali la property rule può presentare il difetto simmetricamente opposto: quello, cioè, di privilegiare l’insider incompetente o pigro rispetto all’outsider più bravo e/o più volonteroso.

Mi sembra ragionevole considerare quest’ultimo caso come molto più frequente rispetto a quello proposto da te, perché il profitto prodotto da un’azienda efficiente costituisce sempre un potente incentivo per l’imprenditore a scegliere il lavoratore più competente e più volonteroso (anche se questo non basta per escludere che l’imprenditore applichi criteri diversi), mentre la norma che istituisce un regime di job property elimina sempre un disincentivo alla pigrizia, cioè il rischio per il lavoratore pigro di essere sostituito.

Pietro

 

 

Lorenzo Sacconi 230 settembre 2017

Caro Pietro, ovviamente conosco la distinzione tra diritto di sfruttamento di un brevetto e diritto all’ authorship che invece resta in capo ai ricercatori (ricordo bene le regole interne già praticate 20 anni fa presso la GlaxoWellcome).

È anche vero che in certi settori e aziende vi sono accordi che assegnano royalties anche ai ricercatori e in generale nulla impedisce che l’azienda paghi i suoi ricercatori con stock options come i managers.

Tuttavia io ho fatto il caso del ricercatore farmaceutico solo per far vedere un esempio in cui è evidente l’esistenza di un investimento idiosincratico, molto a lungo perseguito e non facilmente trasferibile, e in cui è chiaro che il diritto di proprietà protegge l’impresa.

Ma il punto è che ovviamente (anche se il brevetto è dell’impresa) il ricercatore si aspetta un miglioramento di carriera e di trattamento per effetto del riconoscimento del contributo dato con la registrazione del nuovo principio attivo.

Non è appropriarsi del diritto di sfruttamento del brevetto. Ma carriera e miglioramento del trattamento in base al risultato ottenuto.

Nessuna legge può impedirlo e se lo facesse sarebbe del tutto economicamente irrazionale (sarebbe una follia che un analista economico della legge dovrebbe fare a pezzi, indipendentemente dall’avere simpatie neoliberali o meno). Una legge contro il riconoscimento del contributo dato. Non credo proprio che tu possa negare che le imprese, almeno a parole, promettono premi in base al risultato eh?

Il punto era solo per far vedere la logica sottostante, che tu negavi nel passaggio precedente del nostro dialogo. Esistono investimenti specifici in vista di condivisione del surplus. Ma una volta fatti e realizzati i benefici, l’impresa (grazie alla proprietà e il diritto di esclusione) può appropriarsene senza condividerli.

Ciò può essere inefficiente perché distrugge l’incentivo ex ante, oppure semplicemente iniquo perché determina una distribuzione iniqua ex post che viola il sense of justice (cui però farà seguito shading, se non conflitto, in futuro: vedasi Oliver Hart recente Nobel in economics).

Il licenziamento ha un ruolo essenziale qui: fissa i termini della di ri-contrattazione del contratto incompleto. Quando l’investimento è avvenuto e l’evento imprevisto che lo valorizza accade (innovazione), c’è una contrattazione tra dipendente e impresa. Chi può licenziare fissa il caso peggiore cioè l’opzione di uscita (quello che la teoria della contrattazione – Nash Bargaining Theory – chiama lo status quo point).

Ecco perché l’impresa può voler licenziare. È una minaccia credibile grazie alla quale l’impresa si appropria del valore generato e secondo i casi perde il collaboratore meritevole, oppure se lo tiene, perché lui rinuncia alle pretese (col rischio dello shading in futuro). C’è comunque un vantaggio immediato.

Quando parlo di innovazione ovviamente non faccio solo l’esempio del farmaceutico. Ci possono essere micro innovazioni organizzative e di processo. Ci può essere un capo reparto che organizza meglio il lavoro della squadra, semplicemente perché ha la fiducia degli operai, il commerciale che trova un modo per convincere più clienti nella sua area, l’ ufficio tecnico che si dota di un designer estroso, l’ufficio informatico che ha un gruppo di giovani informatici bravissimi ad attuare l’applicazione di SAP e di altri processi informatici consigliati dal consulente di TLC eccetera.

Sì, in effetti io penso che le cose buone nelle aziende accadono perché le persone in modo distribuito ai vari livelli le fanno accadere cooperando. Questo è tipico dell’economia della conoscenza. Ma avveniva anche nelle imprese tradizionali e nei distretti industriali. Ove la conoscenza informale è sempre stata essenziale.

Su questo per altro si è costruita la tradizione di eccellenza dell’industria avanzata giapponese (vedere Aoki). E secondo me lo stile collaborativo delle imprese tedesche spiega perché l’automotive germanica sia perfettamente in piedi mentre quella americana era fallita (è stata salvata da Obama).

Insomma i soldi non fanno innovazione. Sono le teste delle persone e le loro volontà cooperative che le fanno accadere. I soldi possono incentivarla. L’ avidità può distruggerla.

Questo era il punto. Uno solo. Non due (i tuoi A e B).

Lo sviluppo del ragionamento era che il diritto e la facilità di licenziamento è ciò che fissa il potere contrattuale (threat point). Se l’investimento che permette l’innovazione (anche micro, informale, senza copyright e brevetto) è almeno in parte del lavoratore, il diritto di licenziare può servire a espropriarlo (ammessa l’ipotesi di opportunismo, che comunque io non ritengo così universale come dice Williamson, ma che dipende dai valori incorporati dalle istituzioni\organizzazioni).

Ma se il risarcimento è prefissato (come nel Jobs Act) sarà di norma inadatto a prevenire, cioè disincentivare, questa situazione.

Se il valore (congiunto) della (micro) innovazione, cui l’investimento del lavoratore ha contribuito, è superiore al risarcimento fissato (il che sarà possibile nei casi più importanti), la minaccia del licenziamento sarà efficace. E comunque avrà un esito vantaggioso nel breve. L’esito finale dipenderà dalla psicologia morale del dipendente (dal suo senso di oltraggio), che può portare al conflitto o all’ acquiescenza.

Con due esiti possibili: (a) il micro innovatore subirà un’iniquità e un effetto distributivo iniquo, e in futuro farà shading; (b) molti non investiranno affatto, cioè ex ante non metteranno l’effort che rende possibile sfruttare gli eventi imprevisti favorevoli.

Ecco perché, anche limitandoci ai profili di efficienza, dicevo che il Jobs Act spiana la strada all’inefficienza e all’iniquità del sistema delle imprese.

Mentre suggerivo di restituire al giudice la potestà di rafforzare lo status quo della contrattazione ex post tra impresa e dipendente (la “mera” minaccia che il giudice possa annullare il licenziamento), lasciando poi alle parti di accordarsi sul risarcimento.

Oppure (meglio) dare poteri di Co-decisione sui licenziamenti alla direzione e ai rappresentanti dei lavoratori (inclusi i piani sociali di risarcimento) in modo condiviso e vincolante.

Ecco tutto. A presto,

Lorenzo

 

Pietro Ichino 31° ottobre 2017

Caro Lorenzo, confesso che ancora non riesco a capire, nel ragionamento che mi proponi, tre cose:

  1. la sanzione della reintegrazione del lavoratore licenziato, invece che una sanzione di tipo indennitario, determinata opportunamente in una entità tale da superare il valore della “espropriazione” che tu paventi ad opera dell’imprenditore, come accade in numerosissimi ordinamenti nazionali e contrattuali;
  2. un regime che genera marcata incertezza sull’esito della controversia (esito che, come è noto, dipende in larga parte dall’orientamento del magistrato a cui viene assegnato il ricorso del lavoratore), invece che un regime nel quale l’entità della sanzione sia opportunamente prestabilita.

Mi chiedo, inoltre, e ovviamente chiedo anche a te, due cose ulteriori:

Se risponderai punto per punto a questi miei cinque interrogativi credo che potrai candidarti con buone probabilità di successo al Nobel per la Pazienza! Un cordialissimo saluto

Pietro

 

Lorenzo Sacconi 59 ottobre 2017

Caro Pietro, scusa il ritardo della mia risposta. Avevo messo da parte il tuo messaggio per rispondere con calma, e provare a vincere il premio promesso – ma poi sono stato travolto da altri impegni. Dal momento però che questi sono i giorni delle assegnazioni, ci provo ora – magari ce la faccio ancora.

Devo tuttavia dire in preambolo che sono piuttosto perplesso. Veramente tu pensi che non esistano conflitti distributivi nel mondo del lavoro? Che essi non possano essere determinati da avidità, egoismo razionale e di breve periodo, o anche da razionalità limitata? Davvero tu credi che tutta la teoria dei contratti incompleti o dell’asimmetria informativa non sia applicabile ai rapporti tra impresa capitalistica e lavoratori e al contratto di lavoro? Oppure che il “cattivo”, l’opportunista, sia sempre solo il lavoratore e mai il datore di lavoro? L’impresa non può agire opportunisticamente verso i lavoratori, mentre è vero il contrario? L’analisi economica delle istituzioni e del diritto è una ideologia di parte (pro capital) oppure è frutto di ricerca scientifica imparziale, che ha quindi un’effettiva utilità?

Pensavo che partissimo dal riconoscimento che l’analisi economica del diritto potesse essere applicata al rapporto di lavoro. Tu credi veramente che la teoria dell’impresa – cioè dell’organizzazione interna all’impresa, e quindi in ultima analisi delle relazioni basate su rapporti di autorità – non possa insegnarci nulla a tale proposito? Negare la possibilità di comportamenti opportunistici è come guardare alla realtà con gli occhi di “Alice nel paese delle meraviglie”. Ma anche in quel mondo paradossalmente incantato, durante il processo finale il Re cerca di agire opportunisticamente inventandosi di sana pianta una norma del codice per costringere Alice a lasciare il Tribunale.

Ma non voglio dribblare le tue domande. Dunque ecco le mie risposte puntuali

DOMANDA 1: perché, nel tuo schema, l’imprenditore dovrebbe licenziare il lavoratore che si è dimostrato più capace di adattare il proprio capitale umano alle esigenze specifiche dell’azienda? Mi sembra che, al contrario, più il lavoratore si è mostrato capace e disponibile a farlo, più l’imprenditore dovrebbe tenerselo stretto, anche al costo di premiarne l’impegno; che cosa guadagna col licenziarlo?

RISPOSTA: Nel mio schema il lavoratore, che ha fatto un investimento specifico in capitale umano nell’impresa, ha creato un valore (esempi: il tecnico informatico che ha seguito e messo in atto il processo di informatizzazione dell’azienda, l’addetto alle vendite che ha esteso la rete dei clienti e li ha fidelizzati, il tecnico del settore ricerca e sviluppo che ha collaborato in modo essenziale alla brevettazione di un nuovo articolo, il capo squadra che, gestendo i rapporti tra le persone, e organizzando meglio turni e compiti, ha aumentato la produttività). Diciamo che ha già creato un valore, e ha creato le condizione perché lui o altri possano continuare a farlo. Una volta che questo valore è stato creato, però, subentra un conflitto distributivo. Il dipendente vorrebbe che gliene fosse riconosciuta una parte, in termini di avanzamento di carriera, miglioramento in termini di sicurezza e trattamento economico. Il datore di lavoro vorrebbe invece che lui continuasse come prima a lavorare a pieno ritmo, senza alcun riconoscimento aggiuntivo, e appropriarsi di conseguenza dell’intero valore creato. Siccome il contratto è incompleto (non impone obblighi automatici al datore di lavoro, ma non nega al lavoratore la possibilità di chiedere qualcosa di più in presenza di eventi imprevisti come il successo dei contributi dati), subentra una fase di ricontrattazione. In che modo il datore di lavoro può respingere la pretesa del lavoratore? Risposta: con la minaccia del licenziamento, che fissa una “opzione di uscita” negativa per il lavoratore, il quale altrove non potrà far valere in futuro quel contributo che rivendica sia premiato oggi nell’impresa di partenza. Ecco perché l’imprenditore può voler licenziare. Perché è un modo di dissuadere il lavoratore dal chiedere una distribuzione “più equa” (secondo lui) del valore creato. Ovviamente la minaccia spesso sarà efficace e quindi non sarà necessario licenziare effettivamente. Ma questo solo perché la minaccia è credibile. Perciò il licenziamento nel caso che il lavoratore insista nella sua pretesa, è una scelta razionalmente eseguibile: sia perché il valore già creato resterà comunque all’impresa, sia perché questo è il modo per rendere credibile la minaccia agli occhi degli altri in futuro.

È così difficile da capire? È un semplice problema di contrattazione in cui una parte ha il coltello per il manico. E per trarne vantaggio deve essere pronta ad usarlo. Il mondo delle motivazioni umane è complicato: il senso di giustizia del lavoratore può portarlo a confliggere con il datore di lavoro. Oppure il datore di lavoro può essere miopemente indotto a sottovalutare il contributo del collaboratore, o a sottovalutare il valore atteso del suo apporto. E quindi la minaccia verrà eseguita. Questo per me è il caso paradigmatico di “non giustificato motivo economico”.

Tutti i casi finiscono così? No, ovviamente. Ci possono essere imprenditori non avidi e più lungimiranti, o che condividono il senso di giustizia. Oppure lavoratori acquiescenti. Cionondimeno si tratta di un contesto del tutto realistico data la natura delle motivazioni umane, la struttura degli interessi e i limiti cognitivi della razionalità economica reale. Situazioni in cui il licenziamento può accadere, ma la legge dovrebbe qualificarlo con la fattispecie “senza giustificato motivo”.

Veramente tu credi che una situazione così non possa accadere, perché il proprietario che vuole massimizzare lo shareholder value avrebbe interesse a tenersi stretto il lavoratore? Ma il suo interesse egoistico è tenerselo stretto se senza pretese. Se dovesse cedere alle pretese, l’interesse egoistico a tenersi il lavoratore diminuirebbe assai. Dovrebbe condividere ciò che invece, grazie all’esercizio del “diritto di appropriazione del surplus” (che rimane dopo aver onorato i contratti), potrebbe interamente appropriarsi. È possibile che un domani la torta prodotta dalla cooperazione futura sia più grande, ma intanto dovrebbe rinunciare a una fetta. E poi, chi assicura che una ripartizione equa di una torta più grande (ma scontata nel tempo) domani, sia necessariamente maggiore di una fetta più grande di una torta minore subito? Solo la minaccia di una netta riduzione della torta futura potrebbe essere in grado di convincerlo. Ma è un risultato incerto (vedi la riposta alla domanda 2).

Quindi l’imprenditore può avere interesse ad avvalersi del suo potere nella ricontrattazione del contratto incompleto. E dal momento che può usare opportunisticamente il diritto di proprietà, perché non farlo (anche a rischio che insorga il conflitto e alla fine il licenziamento)?

Purtroppo il mondo dell’economia è pieno di situazioni di questo genere. L’inquinamento globale nasce dal fatto che il singolo che inquina spera di farlo ottenendo un vantaggio (in caso di acquiescenza altrui), ma se gli altri rispondono inquinando anch’essi, non c’è motivo che lui non inquini (conflitto). In questo modo però sarebbero stati tutti meglio se avessero concordato di limitare le loro emissioni (accordo). La cosa è resa ancor più complicata se l’inquinatore è molto potente e può subire solo danni minori dall’inquinamento altrui. Egli può allora imporre il suo inquinamento ottenendo un vantaggio sostanziale nella riduzione dei sui suoi costi. Se gli altri reagiscono il danno forse sarà tale solo da controbilanciare i suoi benefici.

Per capire il punto riguardante il contratto di lavoro però bisogna considerare che si tratta di situazioni di ricontrattazione, in cui c’è un beneficio reciproco dall’accordo, ma la quantità del beneficio appropriabile (problema distributivo) dipende anche dall’opzione di uscita (punto di conflitto). Così c’è un interesse comune affinché l’investimento venga fatto, ma sussiste nondimeno un conflitto sulla distribuzione dei suoi frutti. Se l’opzione di non accordo è molto sbilanciata a favore di una parte, anche la distribuzione finale sarà sbilanciata.

Nel nostro contesto l’opzione di uscita (punto di minaccia) è fissata dal licenziamento (potere di esclusione dalle risorse su cui si applica il capitale umano). Ciò non toglie che il lavoratore (irrazionalmente? in realtà del tutto giustificatamente) può contestare tale esito. Ecco perché l’imprenditore può avere interesse al licenziamento ingiusto. È possibile che questo non sia l’esito in assoluto più desiderabile, ma il mondo dell’economia è pieno di “dilemmi del prigioniero”.

DOMANDA 2: Come può l’imprenditore – il quale, invece, abbia licenziato quel lavoratore – sperare che il nuovo dipendente assunto in sostituzione del licenziato si impegni ad adattare il proprio capitale umano alle esigenze specifiche dell’azienda, visto il modo in cui è stato trattato il primo?

RISPOSTA: Certo, l’imprenditore con il comportamento descritto al punto precedente rischia di rovinare la sua reputazione. Non solo il prossimo assunto non avrà voglia di investire, ma lo stesso primo lavoratore, prevedendolo, non avrà affatto investito. In effetti questo è quello che io predico sarà l’effetto dell’introduzione di facilitazioni al licenziamento e la ragione per cui credo che questa disciplina riduca l’efficienza del sistema delle imprese italiane. Nessuno vorrà più investire in modo idiosincratico il proprio capitale umano nei processi di una specifica a impresa dalla quale può essere facilmente escluso. Anzi, a pensar male, credo che chi ha approvato la riforma pensasse proprio che per l’Italia non ci sia altra strada che competere su mercati che richiedono basso investimento in capitale umano, poca innovazione, bassi salari, ai margini dell’economia della conoscenza.

Di nuovo, si potrebbe dire, cose del genere non accadrebbero se l’effetto di reputazione fosse anticipato dalle parti e la sanzione reputazionale fosse abbastanza pesante da indurle alla cooperazione.

Vero. Al funzionamento degli effetti di reputazione ho dedicato un libro nel 1997 “Economia etica e organizzazione” (Laterza). La mia conclusione – sulla scorta di Kreps – era che nell’impresa gli effetti di reputazione funzionano sotto condizioni speciali: a) l’interazione tra le parti deve durare all’infinito o quasi; b) l’impresa deve poter prendere impegni (da cui dipende la reputazione) il cui rispetto sia effettivamente osservabile; c) nel contesto dei contratti incompleti, con eventi imprevisti e razionalità limitata, l’osservanza degli impegni è vaga e gli effetti di reputazione rischiano di essere inefficaci per la difficoltà di verificare l’osservanza degli impegni.

Se ad es. l’impresa è short-termista la prima condizione non vale. In un mondo di informazione incompleta l’impresa poi può raccontare che “c’erano ragioni tecniche per il licenziamento” e se “compra” il silenzio del lavoratore, non ci sarà alcun effetto di reputazione negativo. Anziché adottare impegni verificabili l’impresa può dunque usare strategie alternative (quindi (b) non vale). Soprattutto, i contratti di lavoro sono incompleti e possono accadere situazioni non ex ante prevedibili. La necessaria flessibilità nell’organizzazione del lavoro lascia sempre margini di discrezionalità. Ecco perché è sempre possibile interpretare la situazione in modi alternativi. L’unico modo per evitare che le contingenze impreviste rendano vani gli impegni, è avere norme che stabiliscano criteri astratti e generali di “ingiustificato motivo” (cioè regole di equità) rispetto ai quali l’impresa debba essere accountable, e che rispetto a queste norme l’impresa debba formalmente rendere conto.

Di fronte al giudice? Solo come extrema ratio. All’interno di un meccanismo di partecipazione e codeterminazione nell’impresa? Meglio.

In ogni caso non potendosela cavare con un licenziamento per fasulla ragione oggettiva e un risarcimento extragiudiziale fisso che chiude l’argomento e “festa finita”.

Secondo me le norme attuali vanno esattamente in questa direzione. Cioè riducono gli effetti di reputazione negativi che l’impresa dovrebbe soffrire da comportamenti opportunistici del tipo di cui al punto precedente.

In conclusione la risposta è: l’impresa perde la faccia, e quindi non ha incentivo ad agire opportunisticamente, solo se ci sono norme e istituzioni che obbligano alla accountability.

DOMANDA 3 perché, nel tuo schema, siano indispensabili

a) la sanzione della reintegrazione del lavoratore licenziato, invece che una sanzione di tipo indennitario, determinata opportunamente in una entità tale da superare il valore della “espropriazione” che tu paventi ad opera dell’imprenditore, come accade in numerosissimi ordinamenti nazionali e contrattuali;

b) un regime che genera marcata incertezza sull’esito della controversia (esito che, come è noto, dipende in larga parte dall’orientamento del magistrato a cui viene assegnato il ricorso del lavoratore), invece che un regime nel quale l’entità della sanzione sia opportunamente prestabilita.

RISPOSTA: Mi sembrava di essermi spiegato. Evidentemente non abbastanza. Posso solo ripetere con altre parole. Quello che accadeva in precedenza della riforma dei licenziamenti era che se scoppiava un conflitto del tipo di quello di cui al punto 1, nella maggior parte dei casi non si andava dal magistrato, ma ci si metteva già d’accordo con una “buonuscita” concordata tra le parti.

Perché allora la possibilità di reintegro era utile? Perché controbilanciava la minaccia del licenziamento. L’imprenditore minaccia il licenziamento accampando una “ragione oggettiva” fasulla, il lavoratore resiste, minacciando di arrivare fino al giudice che potrebbe ordinare il reintegro. L’esito in caso di rottura a questo punto è probabilistico: con probabilità p il licenziamento per giustificato motivo, con probabilità 1-p il reintegro o il risarcimento deciso dal giudice. Essendo l’opzione di uscita più bilanciata di quello del mero licenziamento, le parti si metteranno d’accordo su un risarcimento che permette una soluzione più prossima all’equa ripartizione del valore in gioco nel problema distributivo. Se infatti l’opzione di uscita è più bilanciata, l’accordo tra le parti sarà più bilanciato.

Tecnicamente in un problema di contrattazione si dice che l’esito è funzione della forma della frontiera paretiana degli esti cooperativi possibili, ma anche dello status quo (punto di non accordo). Ci può essere un vantaggio da spartire grazie alla cooperazione. Ma quale punto della frontiera sarà raggiunto dipende anche dal punto di non accordo. Se tale punto è sulla bisettrice (cioè egualitario) anche l’esito della distribuzione sarà egualitario. Se è molto sbilanciato dalla parte di un giocatore, egli farà la parte del leone nella distribuzione finale.

D’altro canto, le parti in questione sono quelle meglio informate sul valore (dell’investimento specifico del lavoratore) che è in discussione; certo più del giudice, ma anche del governo che fissa un risarcimento prefissato. Per me l’incertezza dell’esito della causa è un vantaggio, perché rispetto al risarcimento prefissato (ammettiamo che per il caso in questione sia troppo basso) crea l’aspettativa che l’esito possa non essere favorevole all’impresa; e quindi spinge a una soluzione concordata che tiene conto dei termini effettivi della contesa (il valore cui il lavoratore aspira e di cui l’impresa vorrebbe appropriarsi) su cui le parti sono informate meglio di chiunque altro. Sia che l’imprenditore receda dall’idea di escludere il lavoratore, sia che – dato il livello di contrasto raggiunto – le parti decidano di mettersi d’accordo su una “buona uscita”. La possibilità che il giudice decreti il reintegro controbilancia l’esito di disaccordo favorevole all’impresa (mero licenziamento) con altri esiti possibili sfavorevoli all’impresa. E quindi aumenta la probabilità di un accordo equo tra le parti.

Però fammi ripetere che io non professo il reintegro come una panacea. Preferirei la codeterminazione in materia di licenziamenti come avviene nelle grandi imprese tedesche. Anziché il ricorso al giudice, io preferirei che ci fosse un accordo in cui il consenso della parte che rappresenta il lavoratore fosse legalmente vincolante. In fin dei conti se gli investimenti specifici che influenzano il valore creato nell’impresa sono multilaterali perché il potere di esclusione dovrebbe essere unilaterale?

Mi chiedo, inoltre, e ovviamente chiedo anche a te, due cose ulteriori:

Domanda 4. se ritieni che l’intero tuo ragionamento possa applicarsi anche in un mercato del lavoro che per avventura non abbia – o abbia soltanto in suoi segmenti ben delimitati – il carattere del monopsonio;

RISPOSTA: Non è questione di monopsonio. Anche se il potere di mercato dei datori di lavoro ex ante NON fosse molto grande, cioè in assenza di concentrazione del lato della domanda di lavoro in poche mani, il problema si creerebbe ex post. La questione ha ancora a che fare con gli investimenti specifici. Questi determinano la “trasformazione fondamentale” ex post di cui parla Williamson. Dopo gli investimenti, le parti sono locked-in entro una relazione di tipo strategico/interdipendente (contrattazione). Cioè c’è la possibilità di ricontrattare a causa del fatto che i contratti sono incompleti e gli investimenti fatti nella relazione non sono recuperabili fuori dalla relazione stessa. Questo crea l’opportunità di una ricontrattazione sul surplus frutto di investimenti specifici molteplici e di complementarietà delle risorse. Ma il potere delle parti può essere diseguale e perciò si torna al problema di tipo distributivo di cui sopra. Insisto: non è un questione di struttura del mercato del lavoro, ma di organizzazione interna (cioè di “natura” dell’impresa).

Domanda 5. se tu non ritenga che, in un regime di sostanziale job property, debbano essere considerati attentamente anche i rischi di comportamento opportunistico da parte del lavoratore. Perché se anche questi rischi sussistono in misura apprezzabile, occorre una soluzione che riduca al minimo possibile anche questi. In altre parole: non ci si può occupare soltanto dei rischi di opportunismo da parte dell’imprenditore. E questo va detto non soltanto nell’interesse di quest’ultimo, ma anche dei lavoratori non opportunisti, i quali possono essere danneggiati notevolmente dall’opportunismo dei propri colleghi.

RISPOSTA: Non resisto a rispondere con una domanda: perché mai un lavoratore consapevole che l’impresa, come tu supponi, lo tratterà sempre bene se lui continua ad applicare le proprie capacità, e che rischierebbe di giocarsi la reputazione in vista di nuovi impieghi se scoperto a fare il “fannullone” (quello che vale per l’impresa alla tua seconda domanda varrà anche per il lavoratore, suppongo) dovrebbe agire in modo opportunista? Tu dovresti escludere questa possibilità. Nel mondo di “Alice nel paese delle meraviglie” i lavoratori si ingegnano al servizio del padrone, i padroni li coccolano, e mai e poi mai un lavoratore agirà in modo opportunista o sleale. Ti pare?

A me in verità NON pare. Così come i contratti incompleti, cui fa seguito l’allocazione dell’autorità al proprietario delle risorse fisiche, vanno soggetti all’abuso di autorità, così le relazioni di delega nell’impresa creano spazi per i comportamenti opportunistici dei manager e dei lavoratori (in base ai margini di discrezionalità e all’asimmetria informativa) nella forma dell’“azzardo morale”. Inoltre, si può aggiungere che la stessa allocazione iniziale dell’autorità serve a completare contratti incompleti, proteggendo gli investimenti specifici dell’imprenditore (ad esempio le idee iniziali di prodotto, o gli investimenti di capitale immobilizzati in macchinari).

Ma qui noi assumiamo che il datore di lavoro abbia sistemi di controllo che possono identificare il free-riding dei lavoratori, ipotizziamo che esistano gli istituti di licenziamento “per giusta causa” di tipo disciplinare (contro i “fannulloni”), i quali si affiancano a soluzioni organizzative interne meno estreme, come bloccare la carriera, oppure pagare incentivi positivi secondo il livello dei risultati (tipici contratti incentivanti previsti nel caso di asimmetria informativa, grazie ai quali l’agire opportunistico diventa non vantaggioso).

Una parte significativa della teoria dell’impresa è proprio basata sull’ipotesi che la funzione dell’imprenditore si spieghi con la necessità di effettuare monitoraggio e controllo contro l’“azzardo morale” nel lavoro di squadra, e gestire contratti incentivanti. Un’altra parte si basa sulla tesi che l’allocazione dell’autorità al proprietario dei mezzi fisici di produzione serva a proteggere i suoi investimenti. Tutto ciò qui è dato per presupposto.

Il problema che si pone però è che la gerarchia e l’autorità possono sfociare in abusi, e la ragione è che soprattutto i lavoratori fanno investimenti in capitale umano specifici, forieri di surplus di valore, di cui la parte in posizione di autorità può cercare d’appropriarsi iniquamente. E un mezzo per farlo è la minaccia (e l’esecuzione) del licenziamento.

Noi qui stiamo perciò trattando dei casi in cui il licenziamento NON sarebbe giustificato. E il punto è che la mancanza di giustificazione consisterebbe proprio nell’abuso di autorità, cioè nell’abuso della minaccia del licenziamento per ottenere una soluzione distributiva iniqua. Oppure vogliamo dire che i lavoratori possono fare “azzardo morale”, ma i manager e i proprietari non possono abusare della loro autorità?

Oliver Hart (Nobel prize di due anni fa) ha recentemente proposto un modello di contrattazione incompleta in cui, a causa del rischio di subire un abuso di autorità, reso possibile dall’incompletezza del contratto, il lavoratore risponde facendo “shading”, cioè eseguendo i compiti in modo solo “formalmente corretto” ma senza mettere effettivo impegno. Perciò lo “shading” è una risposta al rischio di abuso.

Per concludere, caro Pietro, i conflitti esistono, almeno potenzialmente. Non è necessario risalire a Carlo Marx per riconoscere la loro importanza. Anche l’economia delle istituzioni odierna, nient’affatto marxista, ci consente di studiarli. E di proporre soluzioni eque e bilanciate perché non avvengano, specie se l’efficienza, come in questi casi, è intrecciata con problemi distributivi.

Un forum di democrazia industriale interno all’impresa (mitbestimmung) e la decisione di extrema ratio del giudice mi paiono soluzioni più bilanciate di un indennizzo extragiudiziale fisso, prestabilito a livello nazionale e “festa finita”. Questo al contrario, secondo me, è un incentivo ad abusare tutte le volte che il valore at stake sarà ingente, perché in quei casi il risarcimento risulterà un prezzo troppo basso da pagare.

Ecco, ho risposto punto per punto. Forse ho “vinto” quel premio, ma dispero d’averti “con-vinto”. Se si vedono i contratti di lavoro non come regole interne a organizzazioni gerarchiche, ma come si trattasse di atomi in un mercato del lavoro chissà perché perfettamente concorrenziale, tutte le cose di cui abbiamo parlato appaiono poco rilevanti. Allora tutti i nostri problemi sarebbero scatole per le quali avremmo un apriscatole universale, oppure chiodi per piantare i quali avremmo a disposizione il martello universale della concorrenza.

E l’economia finirebbe con la prima parte del manuale del primo anno.

Cordialmente, tuo

Lorenzo

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[1] Il saggio di Lorenzo Sacconi La riforma della disciplina dei licenziamenti nel Jobs Act: (non)equità e (in)efficienza dell’impresa costituisce un capitolo del libro di M.T. Carinci e A. Tursi, JOBS ACT, Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli Ed., Torino, 2015, pp. 279-333.

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