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IMPIEGO PUBBLICO: LA RESPONSABILITÀ DELLA DIRIGENZA

Le amministrazioni che non esercitano il potere disciplinare se non dopo la condanna penale dell’impiegato scorretto abdicano alle proprie prerogative, consentendo il degrado della qualità del servizio e la perdita di prestigio della funzione

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Intervista a cura di Marilena Lualdi
pubblicata sul quotidiano La Provincia di Como il 28 gennaio 2018 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 15 gennaio, Un appello in difesa della scuola (e della funzione) pubblica [1], e quello del 29 gennaio, Scuola pubblica: il motivo assurdo di una inerzia [2]      
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Lavoro pubblico 2

Le norme ci sono: vanno solo applicate, per il buon nome delle amministrazioni e degli stessi dipendenti. Il management pubblico deve riappropriarsi delle proprie prerogative dirigenziali, alle quali in passato troppo spesso ha abdicato. Così sul caso del licenziamento nel Comune di Como interviene il senatore Pietro Ichino, giurista e  docente di diritto del lavoro nell’Università di Milano.

Professor Ichino, nel Comune di Como è avvenuto il primo licenziamento di una dipendente, accusata di aver falsificato l’orario di ingresso sul lavoro in tre casi: un caso previsto specificamente dalla nuova legge sui licenziamenti nella pubblica amministrazione. Può ricordare ai lettori gli altri casi che comportano questa conseguenza?
La nuova legge prevede specificamente il caso della falsità nelle registrazioni relative alla presenza dell’impiegato in ufficio: il legislatore la ha emanata in considerazione della frequenza abnorme di questo comportamento nelle amministrazioni pubbliche. Ma è pur sempre in vigore una norma generale che punisce tutti gli inadempimenti gravi dei doveri contrattuali dei dipendenti pubblici: una norma in tutto simile a quella in vigore per i dipendenti di aziende private.

Ci sono degli ulteriori casi o dei correttivi che si dovranno affrontare a suo parere per questa problematica, alla luce anche dei primi risultati?
Le norme legislative ci sono: non consiglierei altri interventi normativi, se non per semplificare le procedure, che talvolta nascondono qualche trappola. In particolare, non considero opportuno che la legge specifichi troppo la casistica delle possibili mancanze disciplinari: per questo bastano le disposizioni generali. Le amministrazioni che intendono esercitare il potere disciplinare in modo serio e corretto possono già farlo. Il fatto è che spesso le amministrazioni non lo esercitano con il dovuto rigore e tempestività: si limitano a sanzionare soltanto le mancanze più gravi, costituenti reato, e lo fanno solo dopo che esse sono state accertate e punite dall’autorità giudiziaria in sede penale.

Secondo lei aspettare la sentenza penale è sbagliato?
Quando la mancanza riguarda la prestazione lavorativa, e l’amministrazione è in grado di acquisirne la prova, è la legge che le impone di provvedere immediatamente sul piano disciplinare, senza aspettare l’eventuale sentenza penale: mi riferisco all’articolo 55-ter del Testo Unico della disciplina dell’impiego pubblico.

Perché le amministrazioni per lo più non applicano questa norma?
Perché i dirigenti preferiscono esimersi da questa responsabilità. È un atteggiamento pilatesco. E profondamente sbagliato: l’esercizio del potere disciplinare, di regola, dovrebbe precedere, non seguire l’intervento del giudice penale. E non dovrebbe esserci bisogno dell’intervento della polizia giudiziaria per perseguire disciplinarmente le mancanze nel luogo di lavoro.

Qualche esempio?
Ultimamente i professori di Roma e di Riccione scoperti a inviare a proprie allieve sms di contenuto erotico: in entrambi i casi la mancanza è gravissima e la sua imputabilità al docente è certa. Eppure in entrambi i casi le amministrazioni scolastiche competenti hanno preferito sospendere il professore cautelarmente, in attesa dell’esito del giudizio penale. Col rischio molto concreto che fra uno o due anni, quando lo scandalo pubblico sarà sopito, la pena venga patteggiata, ciò che non configura riconoscimento del reato da parte dell’interessato; e che l’amministrazione ridia al professore indegno la sua cattedra.

I sindacati, senza entrare nel merito dello specifico caso per ora, hanno sostenuto che gli uffici comunali comaschi forniscono un buon servizio e l’impiegata licenziata in questione non era mai stata contestata nel suo lavoro. Sono elementi che possono incidere ed essere esibiti in una causa?
Non conosco il caso specifico. Ma, in linea generale, il fatto di essere incensurato, di essersi comportato in modo corretto fino a ieri, non significa che oggi un impiegato non possa commettere per la prima volta una mancanza, anche grave.

Lavoro pubblico 1Tra le novità c’è anche il tema whistleblowing, cioè la tutela di chi segnala irregolarità o reati. Può spiegarne l’importanza ai nostri lettori? E ha già dato i primi effetti a suo parere?
La legge che il Parlamento ha varato proprio allo scadere della legislatura è molto importante, perché impone alle amministrazioni e alle grandi imprese di predisporre il canale riservato indispensabile affinché chi ha una informazione utile per prevenire malversazioni possa fornirla all’organo competente senza il timore né di causare danni indebiti, né di subire rappresaglie. In diverse situazioni questo è già stato sperimentato anche prima di questa legge, sulla scorta dell’esperienza statunitense e britannica, con esiti molto positivi.

Sempre i sindacati temono che cresca un clima in cui comunque i dipendenti pubblici sono facilmente bollati come fannulloni. Che cosa ne pensa?
Il prestigio della funzione pubblica si difende facendo funzionare bene le amministrazioni e mostrando che ciascun pubblico dipendente svolge il suo lavoro “con onore e disciplina”, come dice la Costituzione. Perché questo avvenga è indispensabile avere una dirigenza pubblica responsabilizzata, innanzitutto, circa i risultati da conseguire: risultati che si devono misurare su obiettivi espressi in termini quantitativi precisi; dunque anche una dirigenza capace di esercitare tutte le proprie prerogative manageriali.