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IL NON DETTO NEL PROGRAMMA M5S SUL LAVORO

Se è vero che i Cinque Stelle non intendono più smantellare il Jobs Act, a proporselo oggi in Parlamento sono rimasti soltanto i 18 deputati e senatori di Liberi e Uguali

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Intervento pubblicato sul
Foglio il 14 marzo 2018  Segue il programma del M5S presentato nel corso della campagna elettorale dal prof. Pasquale Tridico .
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Luigi Di Maio e Pasquale Tridico durante la campagna elettorale

Nel programma del M5S in materia di politica del lavoro salta all’occhio un eccesso di statalismo: allo Stato si affida il compito di incrementare direttamente la domanda di lavoro con gli investimenti pubblici; dallo Stato le imprese, particolarmente quelle meridionali, devono aspettarsi i finanziamenti per i propri investimenti attraverso una apposita “banca pubblica”; sulle strutture pubbliche e soltanto su di esse si punta, con un investimento di due miliardi, per migliorare i servizi a lavoratori e imprese che si cercano nel mercato; e, soprattutto, su di uno Stato-mamma molto generoso – e non su di una assicurazione, fondata sui contributi versati – tutti devono poter contare, secondo il M5S, per 800 euro al mese esentasse, finché il lavoro non si trova.

In questo programma, però, non va sottovalutato il “non detto”, quello che in esso non si trova. Sorprendentemente, il M5S non propone di smontare la riforma del lavoro del 2015, e tanto meno quella del 2012. Il vecchio articolo 18, la bandiera della sinistra-sinistra, non è menzionato da nessuna parte. Questa omissione può non colpire il cittadino comune; ma non può non saltare all’occhio di chi abbia avuto la ventura di sorbirsi negli ultimi tre anni, in Commissione e in Aula, gli interventi infuocati del senatore Puglia e della senatrice Paglini contro ciascuno dei passaggi della riscrittura del diritto del lavoro che la maggioranza di centrosinistra andava compiendo.

La realtà è che su questo punto, nel corso dell’ultima legislatura, si è determinata una divergenza tra i parlamentari del M5S: erano in molti a concordare, pur non dicendolo apertamente, con la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, la quale sosteneva apertamente le buone ragioni della riforma dei licenziamenti realizzata tra il 2012 e il 2015. E quando si è trattato di mettere nero su bianco il programma elettorale gli strateghi del movimento hanno evidentemente ritenuto che su questo punto non fosse il caso di promettere ritorni all’indietro.

Della sinistra-sinistra, dunque, il M5S sembra avere accettato soltanto metà dell’eredità programmatica: quella dello statalismo, di un forte intervento pubblico nell’economia. Ma non la metà che punta principalmente su avvocati e giudici per la promozione del benessere dei lavoratori. Se è davvero così, questa è una buona notizia per il Jobs Act: oggi in Parlamento, dopo tante proteste, a volerlo smantellare ci sono soltanto i quattordici deputati e i quattro senatori di LeU.

Il programma elettorale del M5S in materia di lavoro, a cura del prof. Pasquale Tridico, professore associato di Politica economica nell’Università Roma 3

Alla base del nostro declino economico non ci sono solo le politiche di austerità ma anche la precarizzazione del posto di lavoro. La stagione del lavoro flessibile è iniziata con il pacchetto Treu del 1997 ed è proseguita ininterrottamente fino al Jobs Act e alla riforma Poletti sui contratti a termine. I salari sono più o meno stagnanti dall’accordo del luglio 1993. I risultati in termini di produttività e disoccupazione sono stati disastrosi, tranne una breve stagione di due tre anni fino a prima della crisi del 2008-09 in cui l’occupazione (improduttiva) è aumentata.

Il motivo è semplice: se il lavoro flessibile costa poco, dato che il lavoratore perde diritti e quote salari, l’impresa rinuncerà agli investimenti ad alto contenuto di capitale, all’innovazione e quindi anche alla formazione di lavoratori qualificati con più alti salari. Verrà azionata la leva della competitività salariale piuttosto che quella della innovazione e del capitale umano costoso e qualificato. Avremo frequenti casi di sotto-mansionamento, e giovani laureati costretti a svolgere lavori meno qualificati con più bassi salari. Avremo anche casi di emigrazione qualificata e “fughe di cervelli” all’estero. A perderci sarà tutto il Paese, impantanato in un contesto produttivo poco dinamico e a basso valore aggiunto.

Dobbiamo invertire urgentemente la rotta, rimettendo al centro la qualità del posto di lavoro, gli investimenti in settori avanzati, e la formazione continua, spostando più in alto la frontiera tecnologica del sistema produttivo, con particolare attenzione ai settori innovativi e mission-oriented.

Le priorità sono chiare:

1) il reddito di cittadinanza, che è tecnicamente un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo. Lo Stato sosterrà economicamente chi oggi non raggiunge la soglia di povertà indicata da Eurostat, in cambio dell’impegno a formarsi e ad accettare almeno una delle prime tre proposte di lavoro, purché siano eque e vicine al luogo di residenza. Il Fatto Quotidiano ha da poco riproposto un mio articolo [1] in cui spiego come il reddito di cittadinanza possa essere finanziato attraverso maggior deficit in termini assoluti ma senza aumentare il rapporto deficit/Pil e senza sforare la soglia del 3%. In sintesi il meccanismo è questo: grazie alla nostra misura almeno 1 milione di persone che attualmente non cercano lavoro ma sarebbero disponibili a lavorare (i cosiddetti ‘inattivi’ e scoraggiati) verranno spinti alla ricerca del lavoro attraverso l’iscrizione ai Centri per l’Impiego e andranno così ad aumentare il tasso di partecipazione della forza lavoro. Questo ci permetterà di rivedere al rialzo l’output gap, cioè la distanza tra il Pil potenziale dell’Italia e quello effettivo, perché 1 milione di potenziali lavoratori saranno di nuovo conteggiati nelle statistiche Istat. Se aumenta il Pil potenziale possiamo mantenere lo stesso rapporto deficit/Pil potenziale, cioè il cosiddetto ‘deficit strutturale’, spendendo circa 19 miliardi di euro in più di oggi. Il reddito di cittadinanza costa 17 miliardi complessivi, compresi i 2,1 miliardi per rafforzare i centri per l’impiego, e potrebbe quindi finanziarsi interamente grazie ai suoi effetti sul tasso di partecipazione della forza lavoro.

2) Gli investimenti produttivi dello Stato nei settori a più alto ritorno occupazionale, senza i quali il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca, poiché non potrebbe offrire ai beneficiari il lavoro di qualità che abbiamo in mente. L’idea è di destinare almeno il 34% di questi investimenti nel Sud Italia, che ha urgente bisogno di uscire dal sottosviluppo e dal sotto-investimento a cui lo hanno condannato le politiche economiche degli ultimi decenni e l’assenza di una strategia industriale e di sviluppo. Considerando che la popolazione del Sud Italia è anche superiore al 34% del totale della popolazione, la clausola del 34% non sarebbe un favore al Meridione, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere. Sul lato degli investimenti privati, che verranno già stimolati da quelli pubblici, va ricordata anche la Banca pubblica di investimento, che erogherà credito a tassi agevolati a micro, piccole e medie imprese.

3) il salario minimo orario, che ha il compito di salvaguardare quelle categorie di lavoratori non coperte da contrattazione nazionale collettiva. L’obiettivo è di sradicare sfruttamento e precarietà, che negli ultimi anni sono cresciuti enormemente, e dare anche un impulso alla domanda interna.

4) un Patto di Produttività programmato tra lavoratori, governo e imprese, al fine di rilanciare salari, produttività e investimenti, soprattutto in quei settori in cui decideremo di intervenire selettivamente con la riduzione del cuneo fiscale. Dobbiamo impedire infatti che il minor costo del lavoro porti le imprese ad ignorare gli investimenti “capital intensive” in settori ad alto contenuto tecnologico, come accaduto in questi anni tramite i circa 23 miliardi di sgravi fiscali sulle nuove assunzioni regalati dal Jobs Act.

5) C’è poi il tema di più lungo periodo della robotizzazione, una sfida che non va lasciata alla schizofrenia del mercato, ma gestita politicamente. Il primo passo in questo senso sarà la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, in modo da aumentare l’occupazione e di incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese.