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LA “CAUSALE” CHE PROTEGGE IL LAVORO DEGLI AVVOCATI

Affidare al giudice il controllo sul “giustificato motivo”  di assunzione a termine o di licenziamento equivale a burocratizzare le scelte imprenditoriali, o esporle a una elevata incertezza dell’esito della verifica giudiziale. Più trasparente ed efficace la tecnica del “filtro automatico”

Articolo pubblicato su lavoce.info il 24 luglio 2018 – In argomento v. anche la mia intervista Perché reintrodurre la “causale” per i contratti a termine è un errore [1]  .
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Controllo giudiziale sul motivo e burocratizzazione del rapporto

La scelta del governo di reintrodurre l’obbligo della “causale” per l’assunzione a termine oltre i 12 mesi ha riaperto la discussione su questa tecnica normativa, consistente nell’imporre al datore di lavoro l’obbligo di indicare il “giustificato motivo oggettivo” di una sua scelta, che sarà poi soggetto al controllo giudiziale.

Questa tecnica normativa è stata inaugurata nel 1966 per la disciplina dei licenziamenti. Se c’è una cosa che, nel mezzo secolo trascorso da allora, i giuslavoristi hanno appreso dagli economisti è che il “motivo oggettivo” del licenziamento consiste nell’interesse dell’imprenditore a evitare una perdita futura nel bilancio del singolo rapporto di lavoro. L’imprenditore – si intende – può essere indotto alla scelta anche da un motivo diverso: un intendimento di rappresaglia o discriminatorio (come motivi razziali, politici, sindacali, di genere); ma per impedire questo esistono già appositi divieti specifici. Escluso il motivo discriminatorio o di rappresaglia, ciò che induce un imprenditore a licenziare è l’attesa di una perdita dalla prosecuzione del rapporto di lavoro: costi superiori all’utilità prodotta, oppure utilità inferiore rispetto a quella ottenibile con una persona diversa o una macchina.

Il controllo che il giudice esercita sul “giustificato motivo oggettivo” indicato dall’imprenditore consiste essenzialmente nella valutazione se la perdita attesa sia di entità tale da giustificare il sacrificio del “diritto al lavoro” del singolo interessato. Perché si ritiene che non qualsiasi perdita attesa possa giustificarlo, ma soltanto la perdita superiore a una determinata soglia. Qui sorge un primo problema: qual è la soglia oltre la quale la perdita attesa giustifica il licenziamento? La legge non lo dice. L’esito del giudizio dipende dunque dall’orientamento del singolo magistrato: il licenziamento sarà dichiarato legittimo o illegittimo a seconda dell’orientamento più pro-business o più pro-labor di chi deve decidere la controversia. E già questo è un esito assai poco apprezzabile, sia dal punto di vista economico, sia da quello dell’equità.

Ma c’è un altro problema: l’attesa di una perdita dalla prosecuzione del rapporto dipende da un insieme di valutazioni, in gran parte qualitative, che molto difficilmente sono suscettibili di essere verbalizzate negli atti di un giudizio, e tanto meno dimostrate. Se si rinuncia alle valutazioni non suscettibili di verbalizzazione, si accetta una sostanziale burocratizzazione del rapporto: una sua almeno tendenziale equiparazione al rapporto di lavoro pubblico.

C’è di più. La perdita attesa di cui stiamo discutendo è, per definizione, un evento futuro; e gli eventi futuri non sono suscettibili di prova giudiziale in senso proprio, né documentale né testimoniale: possono essere oggetto soltanto di una valutazione; e sulle valutazioni il nostro diritto processuale vieta di dedurre prove testimoniali. Se dunque il giustificato motivo oggettivo è costituito essenzialmente dall’attesa di una perdita, esigere dall’imprenditore la prova in giudizio della perdita prevista significa imporgli un onere per lo più impossibile da assolvere.

Olivier Blanchard e Jean Tirole

Il “filtro automatico” proposto da Blanchard e Tirole

Considerazioni simili a quelle qui esposte indussero nel 2003 i due economisti Olivier Blanchard e Jean Tirole – quest’ultimo premiato con il Nobel nel 2014 – a teorizzare la necessità di sostituire la tecnica del controllo giudiziale sul giustificato motivo con quella dell’imposizione di un severance cost, un costo di separazione che fungesse da “filtro automatico” della scelta dell’imprenditore (il loro scritto venne tradotto e pubblicato in Italia dalla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro [2], 2004, I, pp. 161-211). In altre parole, al giudice il compito di controllare se il motivo del licenziamento sia discriminatorio o di rappresaglia, disponendo in tal caso la reintegrazione del lavoratore: ciò che il giudice è perfettamente in grado di fare (si pensi alla ricca giurisprudenza in materia di comportamenti antisindacali). Ma, escluso il motivo illecito, è il costo imposto per legge che, azzerando l’utilità del licenziamento per l’imprenditore, deve impedirlo in modo automatico, efficace e trasparente.

Un discorso in tutto e per tutto analogo vale in riferimento al “giustificato motivo” di trasferimento, o di assunzione a termine. In quest’ultima materia, il legislatore adottò la tecnica del “giustificato motivo” (la “causale”) nel 2001, con l’effetto di una notevole dilatazione del contenzioso giudiziale sul lavoro a tempo determinato. Il legislatore del 2014-2015 ha invece adottato la tecnica della percentuale massima di assunti a termine e quella del maggior costo contributivo del rapporto a termine rispetto a quello stabile. Analogamente, in materia di licenziamento nel 2012 e nel 2015 sono state emanate norme che – lasciando intatto il controllo giudiziale contro discriminazioni e rappresaglie – hanno sostanzialmente depotenziato il controllo giudiziale sul giustificato motivo escludendo la reintegrazione del lavoratore nel caso di esito negativo del giudizio e affidando la funzione di filtro delle scelte imprenditoriali principalmente a un “costo standard” di separazione in linea con quelli degli altri maggiori paesi europei, poi rafforzato per i licenziamenti collettivi nel 2017. In entrambe le materie il risultato è stato una drastica riduzione del contenzioso giudiziale. Ma – secondo i dati disponibili – non si è registrato un aumento apprezzabile della probabilità di essere licenziati, né nel 2012 quando l’Italia era ancora nel pieno della crisi, né nel 2015, quando ne stava finalmente uscendo. Quanto all’aumento che si è verificato ultimamente nel flusso dei nuovi contratti a termine, lo si riscontra anche negli altri maggiori paesi europei.

Che il vaglio della validità del licenziamento o dell’assunzione a termine sia soggetto a una elevatissima alea giudiziale, dal punto di vista della protezione del lavoro non ha senso. O meglio, un senso ce l’ha: quello di dar lavoro agli avvocati. I quali, infatti, sono per lo più favorevolissimi alla tecnica normativa del “giustificato motivo oggettivo”.

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