- Pietro Ichino - https://www.pietroichino.it -

SE DI MAIO RIPRISTINA LA CIG PER LE AZIENDE CHE CHIUDONO

Il “Governo del cambiamento” punta, in realtà, al ripristino di una delle forme peggiori di assistenzialismo dell’Italia degli anni ’70 e ’80

.
Editoriale telegrafico per la
Nwsl n. 484, 17 settembre 2018 – In argomento, oltre all’articolo di Antonio Polito [1] citato nel testo, v. anche Cinque stelle per cinque contraddizioni [2] .
.

Il ministro del Lavoro Di Maio

Se c’è una possibilità di trovare i soldi per far partire qualche cosa che assomigli al progetto di “reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle, è che esso assorba ogni vecchia forma di sussidio erogata, con criteri vari, a diverse categorie di persone in difficoltà: questo, del resto, hanno sempre predicato tutti i grandi teorici del “reddito di base” universale, da James Meade a Philip Van Parijs. Si dà il caso, invece, che il neo-ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Di Maio non soltanto intenda conservare tutta la giungla delle forme di assistenza già in atto (non una parola sul loro assorbimento nel nuovo sussidio), ma addirittura  preannunci la riesumazione di una di esse che negli anni recenti era stata soppressa: la Cassa Integrazione Guadagni per i dipendenti delle imprese che chiudono. La Cig, per sua natura, è mirata a tenere i lavoratori legati all’impresa nei casi di crisi temporanea, disincentivandoli dal cercar lavoro altrove; quando invece non c’è alcuna possibilità di riapertura dell’azienda, attivare questo ammortizzatore sociale è un non senso. Peggio: significa tirare i lavoratori stessi in un vicolo cieco, intrappolandoli nella loro posizione di disoccupati (si ricordano casi funesti di Cig erogata per 10, 15 e persino 20 anni di fila). Se il ministro credesse davvero nel progetto del “reddito di cittadinanza”, logica vorrebbe che dicesse ai lavoratori: “quando l’azienda chiude, non temete, scatterà per voi il reddito di cittadinanza”. Ma evidentemente il ministro è il primo a non crederci. Sta di fatto, comunque, che non vuole neppure cimentarsi col problema vero, quello della transizione dal vecchio lavoro che non c’è più a uno nuovo. Ha ragione Antonio Polito quando osserva che il Governo “del cambiamento” è, in realtà, il Governo del ritorno all’Italia degli anni ’70 e ’80 [1]. Senonché dall’Italia di allora ci separano i mille miliardi di maggior debito pubblico accumulatosi nel frattempo, proprio per questo modo profondamente sbagliato di intendere l’assistenza.

.
.