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CHI PAGA I COSTI DELL’INAFFIDABILITÀ

Mentre la Corte costituzionale dà il suo contributo alla volatilità della legislazione del lavoro, la politica economica del Governo sfida irresponsabilmente la fiducia degli operatori internazionali

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su
Italia Oggi il 2 ottobre 2018 – In argomento v. anche l’articolo pubblicato su lavoce.info, Lavoro: l’Italia ritorna in mezzo al guado [1], e l’editoriale telegrafico Deficit al 2,4%: non è fattible, ma il solo annuncio fa già danni gravi [2] .
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Professor Pietro Ichino, La Corte costituzionale con la sentenza sulla disciplina dei licenziamenti ha accresciuto la discrezionalità dei giudici nel decidere l’indennizzo. È un bene o un male?
Ora il giudice potrà determinare l’indennità tenendo conto non solo della durata del rapporto, ma anche di altre circostanze, come il carico di famiglia o le condizioni del mercato del lavoro locale. Però restano fermi i limiti minimo e massimo fissati dalla legge. L’effetto più rilevante sarà un aumento dell’incertezza circa l’entità dell’indennizzo deciso dal giudice, con un conseguente probabile aumento del contenzioso giudiziale, che dal 2012 si era fortemente ridotto.

Non pensa che ora i lavoratori possono considerarsi più protetti?
Solo quelli con minore anzianità in azienda, che avranno la possibilità di spuntare indennizzi più alti. Questo però costituirà un disincentivo ad assumere con contratto a tempo indeterminato.

I detrattori della riforma le obietteranno che il tasso delle assunzioni a tempo indeterminato, negli ultimi due anni, è andato riducendosi sempre di più.
Gli ultimi due anni sono anche quelli nei quali si sono fatti via via più concreti i pericoli di ritorno indietro rispetto alla riforma, si è parlato sempre più insistentemente di ripristino dell’articolo 18, si è sollevata la questione davanti alla Corte costituzionale. Non ci si può stupire che i consigli di amministrazione delle imprese abbiano mantenuto la direttiva ai propri direttori del personale di limitare il più possibile le assunzioni a tempo indeterminato, finché la riforma non si fosse stabilizzata.

Nei giorni scorsi lei ha sottolineato che la sentenza della Consulta è passata con un solo voto di scarto e con l’assenza di uno dei giudici. Ha inteso dire che se quel giudice fosse stato presente le cose sarebbero andate diversamente?
Certo, il fatto che la discussione sia stata fissata proprio nel periodo in cui uno dei due membri della Corte con specifica competenza giuslavoristica era in missione all’estero costituisce una stranezza difficilmente giustificabile.

La spaccatura che c’è stata in seno alla Corte secondo lei riflette la divisione che c’è nel mondo politico sulla disciplina del lavoro?
Non mi spingerei a sostenere questo: le dinamiche interne alla Corte, per fortuna, sono diverse rispetto a quelle parlamentari. Mi sembra, semmai, di vedere la contrapposizione tra una metà dei giudici costituzionali che interpreta il proprio ruolo nei termini più rigorosi di custodia della Carta fondamentale, e un’altra metà che lo interpreta con un po’ troppo protagonismo, al punto che la Consulta rischia di diventare una terza camera legislativa.

Il M5s stelle ha salutato questa sentenza con favore perché contribuirebbe a smantellare il Job Act. È cosi?
Guardi che la riforma del 2015 è consistita in una riscrittura dell’intero nostro diritto del lavoro, con otto decreti legislativi. La sentenza riguarda uno solo di questi.

Sì, ma il più importante e più incisivo rispetto alla legislazione precedente.
È vero, il decreto legislativo n. 23, che contiene la riforma della disciplina dei licenziamenti, è quello che ha completato il passaggio, avviato con la legge n. 92 del 2012, dal vecchio regime di sostanziale job property instaurato con l’articolo 18 e con l’applicazione che prevalentemente ne hanno fatto i giudici del lavoro, a un sistema di protezione della stabilità del lavoro allineato rispetto agli altri Paesi dell’Occidente sviluppato. Ma la sentenza della Consulta non mette in discussione questo aspetto fondamentale della riforma, perché non reintroduce la reintegrazione come sanzione ordinaria per il caso in cui il giudice considera insufficiente il motivo addotto dall’imprenditore per licenziare. La sentenza interviene soltanto sulla determinazione dell’indennizzo, lasciando oltretutto invariati i limiti minimo e massimo fissati dal legislatore.

Non vorrà sostenere che questa sentenza non scalfisca nemmeno la riforma.
Non dico questo. Ma vedo il danno maggiore di questa sentenza per la solidità della riforma soprattutto nel messaggio che essa invia al mondo del lavoro e dell’impresa, agli operatori economici italiani e stranieri: quello della volatilità, quindi inaffidabilità, della nostra legislazione.

La riforma a cui pensa invece Di Maio punta anche a rafforzare i Centri per l’impiego. Non può considerarsi come il completamento di un pezzo mancante della vostra riforma?
Non sappiamo ancora che cosa il ministro del Lavoro intenda fare su questo terreno. Se si limiterà ad assumere qualche migliaio di persone senza investire nelle attrezzature e nel know-how necessario, e senza responsabilizzare incisivamente i dirigenti e le strutture in relazione a obiettivi precisi, non faremo dei grandi passi avanti. Però è vero quello che lei dice: sulla rete dei servizi per l’impiego i governi Renzi e Gentiloni hanno fatto poco e male, è la parte della riforma che va completata. In avanti, però, non all’indietro.

Ha seguito la manifestazione di domenica del Pd? Che prospettive intravede per la ricostruzione e il rilancio del partito?
La base c’è: la vedo presente e attiva, pur tra mille difficoltà, nelle federazioni e nei circoli. È la nuova leadership che non vedo ancora all’orizzonte.

E per l’interlocuzione con il mondo pentastellato che alcuni, come Zingaretti, sono convinti sia necessaria per riconquistare gli elettori persi?
Occorrerebbe che il M5S accettasse di fare proprio come obiettivo fondamentale quello della costruzione della nuova sovranità europea; e quindi quello della “riforma europea dell’Italia”. Occorrerebbe che il M5S si convincesse che nessuno dei grandi problemi che abbiamo di fronte può essere risolto efficacemente con gli strumenti di cui può disporre l’Italia da sola. Tanto meno se isolata dal resto d’Europa. Purtroppo mi sembra che il M5S sia nato proprio per sostenere l’esatto contrario.

È passata la linea di Salvini e Di Maio: deficit al 2,4%. Cosa ne pensa?
Il solo annuncio di questa scelta del governo costerà subito molto caro agli italiani, in conseguenza dell’aumento dello spread e del prevedibile rialzo conseguente degli interessi sui mutui. Poi a pagare sarà lo Stato, che solo per effetto di questo annuncio inconsulto spenderà qualche miliardo in più di interessi sul debito. Il Governo parla molto di “lotta agli sprechi”; ma quale spreco di denaro pubblico è più stupido di questo, generato soltanto dall’annuncio di misure di politica economica che si riveleranno subito non praticabili?

Impraticabili in che senso?
Una legge finanziaria che porti il deficit al 2,4 per cento non rientra nelle cose concretamente fattibili, innanzitutto perché ne conseguirebbe un aumento dell’indebitamento strutturale, in contrasto insanabile con l’articolo 81 della Costituzione. In secondo luogo perché essa violerebbe gli impegni assunti dall’Italia nei confronti dell’UE, generando uno scontro frontale con la Commissione Europea.
Il governo si dice convinto che serva una manovra espansiva. Secondo lei si mette effettivamente più benzina nel motore Italia?
I due vicepremier giustificano questo annuncio folle sostenendo che si tratterebbe di un aumento di spesa pubblica capace di stimolare una crescita economica robusta; ma non dicono che il deficit verrebbe triplicato, rispetto agli impegni assunti dall’Italia, in funzione di un aumento non degli investimenti, bensì esclusivamente della spesa corrente: tale è infatti la maggiore spesa per reddito di cittadinanza e pensioni. E la spesa corrente non genera crescita.

Dagli annunci fatti, chi porta a casa politicamente di più da questa legge di bilancio, nello scontro tra flat tax e reddito di cittadinanza?
Questo lo sapremo solo quando vedremo il disegno di legge finanziaria che il governo presenterà al Parlamento. Ammesso che riesca a presentarne uno senza cadere prima.

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