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SOSTEGNO AI POVERI: COME DOTARSI DELLE CAPACITÀ OPERATIVE INDISPENSABILI

Il problema più difficile da risolvere per l’attuazione del progetto del M5S, non è tanto quello delle risorse finanziarie, quanto quello del know-how e dell’attrezzatura della rete cui si affida il compito di assistere milioni di beneficiari e controllarne l’effettiva disponibilità per l’inserimento al lavoro

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Intervista a cura di Silvia Ognibene pubblicata sull’inserto fiorentino del
Corriere della Sera il 22 ottobre 2018 – In argomento v. anche, su questo sito, l’intervista alla prof. Alessandra Sartori sul Libero del 25 maggio  2018, Per far decollare il collocamento occorrono gli specialisti [1]; inoltre la mia intervista all’Agenzia Adn Kronos del 15 gennaio, Lavoro: i risultati di questa legislatura e le priorità della prossima [2]
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[3]Scarica la pagina del Corriere in formato pdf [3]

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Avvocato, professore, uomo politico, Pietro Ichino ha declinato in ruoli e sedi diverse il suo impegno per la conoscenza e la riforma del mondo del lavoro. Dopo un decennio in Parlamento, ha ripreso da giuslavorista l’insegnamento all’Università di Milano. Tra i fondatori del Partito democratico, con una breve parentesi in Scelta Civica di Mario Monti, ha partecipato in modo continuo al dibattito pubblico sul lavoro e le relazioni sindacali. In questo colloquio ci spiega perché i Centri per l’Impiego non potranno reggere l’impatto del reddito di cittadinanza. Un tema a lui particolarmente caro: da avvocato, negli anni Novanta promosse e seguì il procedimento davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, conclusosi con la sentenza Job Centre II, dell’11 dicembre 1997, che determinò la fine del monopolio statale dei servizi di collocamento, in Italia come in alcuni altri Paesi europei.

Professor Ichino, i Centri per l’impiego saranno in grado di reggere l’impatto del reddito di cittadinanza?
Se i beneficiari del nuovo programma si conteranno davvero in milioni, la risposta non può che essere negativa. I Centri per l’impiego, le cui strutture negli ultimi anni sono state impoverite dall’esodo di una parte degli organici senza assunzioni sostitutive, già oggi stentano a svolgere le funzioni assegnate loro dalle leggi vigenti. Non occorre essere esperti del settore per prevedere che queste strutture non possano reggere l’enorme impatto dei compiti aggiuntivi che il nuovo programma accollerebbe loro.

Quali sarebbero i nuovi compiti?
Di gestione burocratica delle domande, innanzitutto. Già solo questo comporta una triplicazione del carico di lavoro rispetto a quello attuale. Ma la parte più gravosa del lavoro dovrebbe essere quella relativa all’assistenza prestata a ciascuna persona richiedente e al controllo della sua disponibilità effettiva per l’inserimento nel tessuto produttivo. È facilmente prevedibile che questa seconda parte dei nuovi compiti, meno burocratica e più operativa, sia destinata a rimanere totalmente inattuata. Col risultato che l’erogazione del sostegno del reddito sarebbe di fatto non condizionata all’attivazione effettiva del percipiente nel mercato del lavoro.

In che modo i CpI dovrebbero essere riformati per essere efficienti e rispondere agli obiettivi che la novità normativa assegna loro?
Occorrerebbe innanzitutto dotare la rete dei CpI di una dirigenza dotata della competenza specifica richiesta per un servizio efficiente di assistenza nel mercato del lavoro, e responsabilizzata circa gli obiettivi da raggiungere. Per questo sarebbe necessario che almeno un dirigente su due venisse inviato a fare uno stage di sei mesi in un Paese del nord-Europa per affinare il know-how specifico. Poi occorrerebbe un adeguamento delle attrezzature materiali: nei CpI oggi accade che manchino i pc, il collegamento alla rete, o persino la carta. Infine un aumento degli organici e una loro formazione specifica.

Un miliardo di euro e tre mesi di tempo sono sufficienti per metterli in grado di operare bene?
Un miliardo di euro è uno stanziamento probabilmente insufficiente, ma non disprezzabile, per avviare un processo di modernizzazione ed efficientamento della rete. Purché non lo si spenda tutto per una grande immissione di nuovi impiegati, prima di aver creato le strutture efficienti capaci di valorizzare il loro lavoro.

Quanto incide la regionalizzazione delle politiche attive del lavoro e dei Cpi sul raggiungimento degli obiettivi attesi?
Incide, ovviamente, moltissimo. Perché la singola Regione – salva qualche rara eccezione – non è in grado di progettare e attuare la modernizzazione e l’efficientamento di cui si è detto. Per questo la riforma costituzionale approvata dal Parlamento nella scorsa legislatura prevedeva un accentramento delle competenze, con possibilità del loro ri-decentramento in favore delle Regioni più capaci di esercitarle effettivamente. Ma il referendum la ha bocciata.

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