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NOI E I ROBOT: PERCHÉ NON DOBBIAMO AVERNE PAURA

La notizia buona è che il progresso tecnico non riduce il lavoro umano utile; quella meno buona è che le nuove occasioni di lavoro umano non si attivano necessariamente là dove sono sparite le vecchie e che, sul sostegno ai lavoratori nella transizione dalle vecchie alle nuove, l’Italia non è messa affatto bene

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Intervista a cura di Giorgio Brotti pubblicata su l’
Eco di Bergamo l’8 novembre 2018 – In argomento v. anche la mia lezione inaugurale del X Corso di Laurea magistrale in Scienze cognitive e Processi decisionali, del 1° ottobre 2018: Vince l’intelligenza umana o quella artificiale? [1].
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In un bellissimo passaggio de «Il Capitale», Marx rivendicava la dimensione progettuale del lavoro, come attività peculiare dell’uomo: «Il ragno – leggiamo – compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera». Questa componente di ideazione-inventività è destinata a crescere o a ridursi, nel prossimo futuro? Avrà appunto per titolo «L’impatto dell’evoluzione tecnologica e il mutamento delle facoltà cognitive richieste nel mercato del lavoro» la relazione che Pietro Ichino terrà oggi alle 18 a Bergamo, nell’aula 8 del campus universitario di Economia di via dei Caniana. L’incontro, che verrà trasmesso in streaming da Radio Radicale, rientra in un percorso sul tema «Noi e i robot. Scenari possibili per una nuova società» promosso dalla Fondazione A. J. Zaninoni in collaborazione con l’Università e con il Cesc, Centro sulle dinamiche sociali, economiche e della cooperazione; all’evento di oggi prenderanno parte anche la presidente della fondazione, onorevole Pia Locatelli, Sergio Cavalieri, prorettore universitario con delega al trasferimento tecnologico, e la direttrice del Cesc Annalisa Cristini.

Pietro Ichino, ordinario di Diritto del lavoro alla Statale di Milano, è stato deputato e senatore della Repubblica; giornalista e saggista, ha recentemente pubblicato per i tipi di Giunti «La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento» (pp. 420, 18 euro). Gli abbiamo chiesto di anticiparci l’idea portante della conferenza che terrà all’Università di Bergamo.

«È la combinazione di una buona notizia e di una meno buona. La buona notizia è che il progresso tecnologico negli ultimi due secoli non ha mai portato una riduzione dell’occupazione, anzi semmai un suo aumento. Certo, ha fatto sparire molti mestieri e professioni, ma ha anche fatto nascere una grande quantità di servizi prima inesistenti, allargando la platea di coloro che possono goderne e consentendo l’attivarsi di più occasioni di lavoro umano di quante ne ha fatte sparire. La stessa cosa sta accadendo oggi con l’avvento dell’automazione e dell’intelligenza artificiale.»

E la notizia meno buona?
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È questa: nessuno ci garantisce che le nuove occasioni di lavoro umano si attivino proprio là dove sono sparite le vecchie. E comunque se vogliamo porci in grado di far sì che le occasioni di lavoro nuove si presentino anche da noi, e se vogliamo farle fruttare, dobbiamo attrezzarci per offrire ai giovani e a coloro che perdono i vecchi posti di lavoro un sistema di formazione e riqualificazione professionale molto meglio strutturato e più efficace di quanto sia il nostro attuale. L’Italia, su questo terreno, non è messa affatto bene.»

Agli inizi dell’Ottocento, in Inghilterra, i luddisti davano libero sfogo alla loro rabbia contro i telai meccanici e altri apparati industriali, accusandoli di provocare una riduzione dei posti di lavoro e di ottundere la mente degli operai. Oggi, forse con toni meno estremi, qualcuno rivolge la stessa critica contro la robotizzazione e la digitalizzazione dei processi produttivi…
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Ma chi la pensa così sbaglia. Trovo un po’ ridicolo l’allarme diffuso per la previsione formulata da qualche futurologo secondo cui fra trent’anni o quarant’anni metà dei lavori che facciamo oggi saranno spariti. Qualche cosa di molto simile è accaduto nel secolo scorso: sono spariti quasi tutti i contadini, i maniscalchi, le lavandaie, i tessitori, i lampionai, gli operai dequalificati delle catene di montaggio, i linotipisti, e molti altri mestieri ancora. Eppure sono aumentati sia il tasso di occupazione sia il numero assoluto degli occupati, in Italia come in tutti gli altri Paesi.»

In un famoso passaggio del Capitale, Karl Marx affermava che il lavoro, come attività progettuale, sarebbe una prerogativa esclusiva dell’uomo («Ciò che fin dal principio distingue il peggior architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera»). In un prossimo futuro vi sarà ancora spazio per la creatività/inventività nei luoghi di lavoro?
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Ci sono ancora molte capacità del cervello umano che l’intelligenza artificiale è lontanissima dal poter sostituire. La più importane è forse l’empatia, il sapersi mettere nei panni degli altri. Va anche detto che il più delle volte il cervello elettronico e la telematica lungi dal distruggere il lavoro umano, si pongono al suo servizio, potenziandolo e moltiplicandone i fruitori. Per esempio, il robot-chirurgo che interviene dentro la scatola cranica meglio del neuro-chirurgo “mani d’oro” sta consentendo di offrire in qualsiasi ospedale periferico, con l’assistenza di neuro-chirurghi di medie capacità, un servizio medico prezioso, che fino a ieri era offerto soltanto i pochissimi centri d’eccellenza: il risultato è un aumento, non una riduzione dell’occupazione in questo settore.»

La “flessibilità” sul lavoro, il fatto che uno debba contemplare l’eventualità di cambiare più volte mestiere nel corso della sua vita, non ha dei costi a livello psicologico?
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Certo che ne ha. Ma la sicurezza di cui i lavoratori hanno bisogno, che è un bene della vita importantissimo, non può più essere garantita con l’ingessatura dei posti di lavoro. Il ministro del lavoro del governo Clinton, Robert Reich, diceva che oggi “Better to have routes, instead of roots”: “meglio avere strade, percorsi, piuttosto che radici”. Ai lavoratori del ventunesimo secolo non ha alcun senso proporsi di assicurare il posto di lavoro a vita, come si faceva mezzo secolo fa: la loro sicurezza deve essere costruita garantendo loro sostegno economico e servizi di assistenza efficaci nella transizione dai vecchi lavori ai nuovi.»